Il 28 dicembre 2025, Michel Petrucciani avrebbe compiuto sessantatrè anni: ne abbiamo tracciato un profilo

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Michel Petrucciani

La sua storia non appartiene alla retorica del «genio nonostante tutto», ma alla consapevolezza di chi riconosce nella musica un territorio in cui il corpo trova un’altra misura, una diversa possibilità ed una differente forma di esistenza.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La vicenda di Michel Petrucciani si dispiega come un romanzo musicale in cui il corpo fragile non diventa mai un ostacolo, ma un punto di partenza da cui far scaturire un’energia creativa fuori scala. Il bambino nato a Orange nel 1962, segnato dall’osteogenesi imperfetta, crebbe in un ambiente domestico in cui la musica era quasi parte stessa dell’arredamento, tanto che quel linguaggio familiare divenne presto un rifugio, un orizzonte e una disciplina. L’immagine del piccolo Michel, che osservava i tasti del pianoforte come fossero animali da domare, restituisce la misura di un rapporto fisico con uno strumento che richiedeva ingegno, adattamento ed invenzione continua. La costruzione artigianale ideata dal padre per permettergli di raggiungere i pedali non fu un semplice espediente tecnico, ma l’inizio di un dialogo con la meccanica del pianoforte che accompagnò tutta la sua breve vita, fino a trasformarsi in una vera poetica del tocco. La rapidità con cui il ragazzo assimilava repertori, linguaggi e prassi improvvisative sorprendeva chiunque lo ascoltasse. Clark Terry lo introdusse al rito del palco, a quel modo di stare nella musica che necessitava di prontezza, ascolto reciproco e di una sensibilità ritmica in grado di reagire a ogni microvariazione. Charles Lloyd riconobbe immediatamente la forza di un pianista che non cercava imitazioni, ma un proprio ordine interno ed un personale disegno armonico. L’ingresso nel rinnovato quartetto di Lloyd segnò l’inizio di una maturazione vertiginosa, sostenuta da un’attività concertistica che lo portò a confrontarsi con platee e contesti sempre più esigenti. Da quel momento, la sua presenza sulla scena internazionale assunse la fisionomia di un fenomeno raro: un giovane che affrontava repertori complessi con una naturalezza che stupiva persino i veterani.

Il passaggio alla Blue Note sancì la piena legittimazione di un talento che non si limitava a eseguire, ma tracciava un proprio profilo compositivo. Le sue mani, piccole e velocissime, diramavano linee che sembravano provenire da un corpo molto più grande, come se la fisicità ridotta avesse concentrato l’energia in un unico punto, trasformandola in gesto sonoro. L’indipendenza tra mano destra e mano sinistra, spesso citata come case-study, non atteneva ad un virtuosismo fine a sé stesso, ma ad un modo di articolare la polifonia interna del pianoforte con una chiarezza quasi orchestrale. La vita di Petrucciani si consumò con un’intensità che non concedeva tregua. I duecento concerti all’anno, le tournée, gli incontri, le collaborazioni, tutto concorreva a costruire una parabola artistica alimenta da un’urgenza espressiva costante. La fragilità del corpo non lo induceva a cautela, ma piuttosto a una sorta di accelerazione esistenziale che si rifletteva nella musica: ogni performance diventava un atto totale e ciascuna improvvisazione un territorio da scandagliare senza risparmio. L’omaggio a Ellington, ad esempio, promulga l’attitudine a far affiorare la struttura condizionante dei classici senza cadere nella reverenza, mentre le pagine originali mostrano una tendenza per l’impianto contenuto, la melodia incisiva e la modulazione armonica che si schiude a deviazioni impreviste. Il documentario «Body and Soul» di Michael Radford coglie con precisione la dialettica che ne attraversa e ne sintetizza l’intera attività artistica: il corpo come limite e la musica come spazio di liberazione. In quel titolo si riflette la doppia natura di un’arte radicata nella fisicità del tocco e proiettata verso una dimensione quasi aerea, dove la fragilità si traduce in forza e la sofferenza in un metalinguaggio personale. La morte, avvenuta nel 1999 a soli trentasei anni, interruppe una traiettoria che sembrava destinata a ulteriori metamorfosi, per contro Petrucciani ci lascia un corpus di registrazioni che continua a rivelare nuove sfumature a ogni ascolto.

L’universo armonico di Michel Petrucciani nasce da una duplice radice: da un lato l’assimilazione rigorosa del linguaggio afro-americano, dall’altro una sensibilità melodica che affonda nella tradizione europea, quasi un’eredità cameristica filtrata sulla scorta della prassi improvvisativa del jazz. La scrittura del pianista si sviluppa come un organismo mobile, impiantato su progressioni che alternano modulazioni rapide, deviazioni laterali e un uso sapiente delle sostituzioni, spesso collocate in punti strategici della frase per creare un senso di espansione interna. La mano sinistra, sempre autonoma, non si contiene nel sostenere il discorso, ma dispensa controcanti, cellule ritmiche e piccole dissonanze che sfondano varchi armonici inattesi, come se il pianoforte respirasse su più livelli simultanei. Il riferimento più evidente rimanda alla lezione di Bill Evans, non tanto per la somiglianza timbrica, quanto per la capacità di far affiorare una polifonia interna che converte l’accordo in un microcosmo. Petrucciani assorbe quella logica, la rielabora e la rende più mobile, più incline al moto perpetuo, quasi una versione accelerata e luminosa del pensiero evansiano.: una sorta di Charlie Parker del pianoforte. La predilezione per le voci interne, per le note di passaggio che diventano punti di snodo e per le sovrapposizioni di terze e quarte, evidenzia una consapevolezza armonica che dialoga con la sintassi afro-americana senza mai imitarla. Il rapporto con i padri fondatori del jazz moderno si manifesta anche nella gestione del ritmo, dove l’eredità di pianisti come Wynton Kelly, Cedar Walton e McCoy Tyner esce allo scoperto in filigrana. Da Kelly deriva quella naturalezza nel fraseggio che trasforma ogni linea melodica in una conversazione fluida; da Walton l’inclinazione a costruire progressioni con un senso narrativo preciso; da Tyner l’uso delle quarte sovrapposte e di un pianismo percussivo che Petrucciani adotta solo in parte, preferendo una versione più levigata e meno monumentale. Il suo tocco, pur energico, non cerca mai la massa sonora, bensì una chiarezza che permette a ogni nota di emergere con una propria fisionomia. La componente americana non si limita ai pianisti. L’influenza di Charles Lloyd, con la sua concezione modale aperta e la predilezione per strutture che si espandono nel tempo, offre a Petrucciani un terreno ideale per implementare un discorso armonico che non procede per blocchi, ma per trasformazioni graduali. L’esperienza con Aldo Romano e con i gruppi francesi degli anni giovanili introduce invece un senso della pulsazione più elastico, quasi cameristico, che si avvita alle varie correnti del jazz europeo e ad una certa vocazione alla cantabilità.

Il suo modulo compositivo denota un gusto per la forma breve, spesso intelaiata su temi che sembrano semplici ma che nascondono divergenze armoniche sottili. Le ballad espongono un uso raffinato delle estensioni, con accordi che puntano verso regioni inattese senza perdere coerenza interna. Nei passaggi più energici, la mano sinistra crea un tappeto ritmico che ricorda lo scibile hard bop, mentre la destra disegna linee che alternano lirismo e virtuosismo, come se la l’intreccio tematico cercasse continuamente un equilibrio tra slancio e controllo. Il rapporto con il dettato afro-americana si manifesta perfino nella scelta dei repertori: gli omaggi a Ellington, le interpretazioni di standard come «Body and Soul», le collaborazioni con musicisti statunitensi mettono in luce una familiarità acquisita con il lessico del jazz. Tuttavia, Petrucciani non si placa nel rievocare modelli, ma li destruttura in un grammatica personale, dove la brillantezza tecnica convive con una sensibilità melodica che rimanda alla chanson, alla musica da camera ed alla classicità armonica francese. La sua arte si colloca dunque in un territorio di confine, dove la lezione afro-americana si fonde con un immaginario europeo, generando un pianismo che non appartiene a nessuna scuola in senso stretto. Ogni improvvisazione diventa un laboratorio in cui la struttura formale si espande, si contrae e muta, seguendo una procedura interna che salda rigore e spontaneità. L’eredità di Petrucciani non risiede soltanto nella tecnica, ma nella versatilità a far convivere mondi diversi in un’unica galassia espressiva, riconoscibile fin dalle prime battute.

Quando si tenta di individuare musicisti europei che possano dialogare con la fisionomia pianistica di Michel Petrucciani, ci si muove in un territorio sfumato, poiché la sua voce nasce da un equilibrio singolare tra rigore armonico, vitalità ritmica afro-americana e una cantabilità che rimanda alla tradizione transalpina. Alcuni pianisti europei condividono porzioni di tale universo, pur seguendo traiettorie autonome, al punto che il confronto permette di far zampillare tanto le affinità quanto le divergenze. Enrico Pieranunzi rappresenta forse il riferimento più vicino per sensibilità armonica e per quella capacità di far affiorare una polifonia interna che trasforma il pianoforte in un sistema operativo complesso. Una certa prassi, nutrita di studi classici e di una profonda conoscenza del linguaggio afro-americano, presenta una cura per la coloritura interna e per le modulazioni che può ricordare Petrucciani, sebbene Pieranunzi prediliga un fraseggio più contemplativo, meno incline alla brillantezza virtuosistica e più orientato a un lirismo che si sviluppa come respiro cameristico. La differenza principale risiede nella pulsazione: Petrucciani tende a un moto perpetuo, mentre Pieranunzi secerne un tempo più elastico, quasi sospeso tra jazz e impressionismo. Joachim Kühn offre un’altra prospettiva, più ruvida e più vicina alle avanguardie europee. La sua concezione armonica, spesso fondata su cluster, sovrapposizioni audaci e un uso incisivo della dissonanza, si colloca lontano dalla cantabilità di Petrucciani, ma condivide con lui la volontà di spingere il pianoforte verso una dimensione orchestrale. La differenza si manifesta nella gestione dell’energia: Kühn procede per accumuli e fratture, mentre Petrucciani preferisce una continuità vivida, una chiarezza che non rinuncia mai alla fluidità melodica. Bobo Stenson rappresenta un’altra possibile sponda, soprattutto per la volontà di far convivere rigore espressivo e libertà improvvisativa. La sua poetica, però, procede verso un minimalismo nordico che privilegia il silenzio, la rarefazione e la sfumatura. Petrucciani, al contrario, distilla un discorso più denso di eventi, più mobile e più radicato nella grammatica afro-americana. La loro affinità risiede nella cura per il dettaglio armonico, mentre la divergenza emerge nella gestione dello spazio sonoro: Stenson lascia respirare il vuoto, Petrucciani lo riempie con una vitalità quasi febbrile. Jan Lundgren, con la sua eleganza esteriore e la predilezione per un fraseggio limpido, determina un’altra possibile vicinanza. Il suo modulo espositivo, nutrito di swing e di un gusto melodico molto definito, può ricordare la chiarezza di Petrucciani, sebbene manchi di quella spinta propulsiva che caratterizza il pianista francese. Lundgren tende a un equilibrio più classico, mentre Petrucciani dispensa deviazioni armoniche improvvise, cambi di direzione, accelerazioni che riconfigurano ogni improvvisazione trascinandola in un percorso imprevedibile. Altri pianisti europei, come Martial Solal o Tete Montoliu, condividono con Petrucciani la padronanza del linguaggio, ma la loro estetica procede in direzioni differenti. Solal architetta un discorso più teatrale, più incline alla sorpresa e alla scomposizione ritmica; Montoliu, invece, si muove con una forza percussiva che rimanda alla tradizione bebop, senza però possedere quella cantabilità luminosa che caratterizza Petrucciani. Entrambi rappresentano punti di contatto, ma non veri paralleli. Il tratto distintivo di Petrucciani risiede nell’abilità di far convivere una tecnica vertiginosa con una sorgività melodica che non perde mai leggerezza. L’adesione al linguaggio afro-americano non si traduce in imitazione, ma in un scambio continuo con la tradizione, filtrato attraverso una sensibilità europea che conferisce al suo pianismo un preciso contrassegno saliente. I pianisti europei che gli si avvicinano condividono singoli aspetti del suo universo, ma nessuno ne replica la combinazione di energia, lirismo e rigore armonico.

Per paradosso, tentando di collocare Michel Petrucciani lungo un asse ideale che unisca Chick Corea, Keith Jarrett e Herbie Hancock, si osserva come un pianista europeo, cresciuto dentro un’ambientazione francofona e cameristica, non denoti punti di contati con le tre figure che hanno ridefinito il pianoforte afro-americano ed americano del secondo Novecento. La sua posizione non coincide con nessuno dei tre poli, e proprio questa distanza che richiama la natura singolare del suo linguaggio. Il rapporto con Jarrett emerge nella concezione melodica, nella capacità di far scorrere linee che sembrano nascere da un’unica sorgente interna, senza fratture, senza ostentazione. Petrucciani assorbe la lezione del fraseggio lirico, della cantabilità che si espande come un respiro, rielaborandola con una leggibilità più diretta e meno incline all’introspezione jarrettiana. Dove Jarrett tende a un flusso quasi meditativo, Petrucciani introduce una vitalità più immediata, una brillantezza che non rinuncia alla profondità armonica ma la veste di una chiarezza quasi solare. La differenza si manifesta nella gestione del tempo: Jarrett dilata e sospende, lasciando affiorare il silenzio; Petrucciani preferisce un moto perpetuo, una vibrazione che non perde mai slancio. Con Corea il dialogo riguarda soprattutto la dimensione ritmica e la precisione del tocco. Corea elabora un pianismo geometrico, fondato su incastri, simmetrie e modulazioni rapide, spesso sostenuto da una progettualità quasi architettonica. Petrucciani ne condivide la prontezza, la nitidezza dell’attacco e la capacità di far emergere ogni nota con una fisionomia distinta, ma evita la complessità strutturale tipica di Corea. Il suo discorso procede con maggiore fluidità, meno incline alla scomposizione, più vicino a una narrazione melodica che si sviluppa per continuità. La loro affinità risiede nella disciplina tecnica, mentre la divergenza sobbalza nella concezione della forma: Corea costruisce, Petrucciani scorre. Il confronto con Hancock segnala un’altra prospettiva, legata alla gestione dell’armonia e alla libertà con cui entrambi trattano le estensioni. Hancock apre gli accordi verso regioni impreviste, inserisce tensioni laterali, sovrappone colori che trasformano la progressione in un campo mobile. Petrucciani assorbe questa logica, la rende più compatta, più legata alla fruibilità e meno orientata alla sorpresa timbrica. Hancock procede per metamorfosi, Petrucciani per variazioni interne che mantengono sempre un nucleo melodico riconoscibile. La loro differenza si attesta nella gestione dello spazio: Hancock lascia emergere zone d’ombra, Petrucciani preferisce una luminosità costante. Lungo questo asse, Petrucciani occupa una posizione autonoma, nutrita dalla lezione afro-americana ma filtrata attraverso una mood europeo che conferisce al suo pianismo una leggerezza inconfondibile. Egli non possiede la monumentalità di Corea, né la spiritualità di Jarrett, né la sofisticazione timbrica di Hancock; elabora invece un procedura personale, fondata su una tecnica vertiginosa, una cantabilità immediata e una concezione armonica che unisce rigore e spontaneità. Il modus operandi di Petrucciani nasce da questa sintesi, e proprio per questo non si sovrappone a nessuno dei tre, pur dialogando con ciascuno in modo diverso.

Risulta assai difficile individuare in Italia figure che possano conversare con l’aura pianistica di Michel Petrucciani; soprattutto ci si accorge che il suo stilema non ha generato imitatori diretti, ma musicisti che condividono singoli tratti del suo mocrocosmo senza riprodurne la combinazione unica di dinamismo, godibilità melodica e rigore armonico. La presenza del pianista francese nel jazz europeo ha lasciato un’impronta forte, ma non ha dato vita a una scuola riconoscibile, perché il suo concept sonoro nasce da una sintesi personale difficilmente replicabile. Ramberto Ciammarughi rappresenta uno dei punti di contatto più interessanti, soprattutto per la capacità di far convivere una solida formazione classica con un linguaggio improvvisativo che si apre a deviazioni armoniche inedite e trasversali. La sua scrittura, nutrita da un pensiero formale molto strutturato, condivide con Petrucciani la cura per la voce interna e per la mobilità delle progressioni, ma procede lungo un sentiero più introverso, più incline alla rarefazione e alla ricerca timbrica. Ciammarughi spinge verso un tempo elastico, quasi meditativo, mentre Petrucciani preferisce un flusso continuo, una nitidezza che non concede tregua e che traduce ogni frase in un moto perpetuo. Franco D’Andrea presta il fianco a un’altra prospettiva, più radicale e più legata alla storia del jazz afro-americano. La sua concezione del pianoforte, fondata su una innervata conoscenza del linguaggio bebop e su una capacità di scomporre il ritmo in cellule minime, dialoga con Petrucciani sul piano della vitalità, ma se ne distanzia nella gestione della forma. D’Andrea procede per frammenti, per incastri, per deviazioni improvvise che aprono spazi di libertà controllata; Petrucciani, al contrario, dispensa una continuità melodica che non si interrompe mai, sostenuta da una mano sinistra sempre autonoma e da un’immediatezza che rimanda alla tradizione francese. La loro affinità risiede nella disciplina tecnica, mentre la divergenza emerge nella concezione del tempo: D’Andrea lo frantuma, Petrucciani lo fa scorrere. Giovanni Mirabassi rimane un altro possibile riferimento, soprattutto per la naturalezza con cui trasforma la melodia in un racconto continuo. La sua poetica, però, si orienta verso un lirismo più introverso, meno incline alla brillantezza virtuosistica che caratterizza Petrucciani. Mirabassi lascia emergere un tempo più contemplativo, mentre Petrucciani avanza con una vitalità più immediata, sostenuta da un’energia che non si disperde mai. Roberto Tarenzi, tra i pianisti più giovani, mostra una padronanza dei fondamenti idiomatici che potrebbe ricordare la vivacità di Petrucciani, ma la sua estetica si orienta verso una spirale ritmica e armonica più vicina alla scuola statunitense contemporanea. Soprattutto il dinamismo espositivo non coincide con quella di Petrucciani, che univa tecnica e comunicazione sonora con una naturalezza difficilmente imitabile. Altri pianisti italiani, come Dado Moroni o Danilo Rea, condividono con Petrucciani la familiarità con il repertorio degli standard e una solida formazione jazzistica, ma la loro narrazione procede in direzioni autonome: Moroni verso un pianismo robusto e swingante, Rea verso una liricità che si approccia alla canzone italiana, al pop e alla musica classica. La verità è che Petrucciani non ha generato emuli, poiché la sua arte nasce da una combinazione irripetibile di fattori: una tecnica sviluppata per necessità fisica, una sensibilità melodica nutrita dalla tradizione francese, una conoscenza profonda del vernacolo afro-americano e una vitalità ritmica che trasformava ogni concerto in un atto totale. I pianisti italiani che gli si avvicinano condividono singoli tratti del suo universo, ma nessuno ne replica la sintesi.

La discografia di Michel Petrucciani si staglia come un itinerario in cui ogni album sancisce una diversa declinazione del suo universo pianistico, mentre alcuni capitoli vengono fuori come veri punti di svolta, atti a restituire la sedimentazione del pensiero armonico, la vitalità del fraseggio e quella flusso adamantino della melodia che imperversa nell’intera opera. Tra le innumerevoli registrazioni, cinque capitoli assumono un valore emblematico, mostrando il pianista in condizioni differenti, accanto a interlocutori diversi, dentro contesti che ne esaltano ora l’immediatezza, ora la forza ritmica ed ora la profondità compositiva. «Pianism», pubblicato per la Blue Note, sancisce uno dei momenti in cui la sua scrittura appare più nitida, più consapevole, più vicina a una forma di classicità moderna. Le progressioni si stagliano con una spontaneità che non rinuncia mai alla complessità, le voci interne vengono allo scoperto con una chiarezza quasi cameristica e la mano sinistra costruisce un contrappunto che sostiene e rilancia continuamente il portato melodico. In questo album si percepisce la piena maturità del suo pensiero armonico, capace di unire la lezione i principi fondativi del jazz post-bellico con una sintesi derivativa europea che conferisce al pianoforte una bidimensionalità inconfondibile. «Power Of Three», registrato dal vivo a Montreux con Jim Hall e Wayne Shorter, pone sotto i riflettori un altro volto della sua arte: la versatilità nel confrontarsi con due maestri che appartengono a mondi diversi, riuscendo però una sorta di break-ven-point che non sacrifica mai la propria identità. Il pianoforte diventa un luogo di scambio, un crocevia in cui la linearità di Hall e la libertà di Shorter si incontrano grazie a un fraseggio che si muove con agilità tra poetica e improvvisazione aperta. La voce del pianista affiora con una determinatezza che non cerca mai di sovrastare, ma con il desiderio di far convergere le energie dei tre musicisti in un’unica trama sonora. «Promenade With Duke» sostanzia il suo omaggio più personale alla tradizione jazzistica. Le pagine di Ellington vengono rilette con una delicatezza che non scivola mai nella reverenza, o nel tributarismo accademico, ma si esaltano nella volontà di far affiorare la struttura profonda dei brani, mantenendone visibilmente la modernità armonica. Petrucciani non si limita a interpretare, ma ricompone dall’interno, aprendo gli accordi verso regioni inattese e trasformando ogni tema in un opificio di variazioni. La sua universalità trova qui una delle sue forme più limpide, sostenuta da un senso del groove che non perde mai eleganza. «Manhattan Project» sancisce invece il lato più energico e più articolato del suo pianismo. Il sestetto gli garantisce uno spazio in cui sperimentare una scrittura più modulare e più prossima ad una concezione orchestrale del pianoforte. Le progressioni si espandono, le sovrapposizioni accordali diventano più audaci e la pulsazione assume una forza quasi percussiva. In tale contesto, Petrucciani estrinseca la sua abilità nel muoversi dentro strutture più ampie senza perdere la calibratura del tocco e la precisione del disegno melodico. «Michel Plays Petrucciani» promulga infine il momento in cui l’identità compositiva esplode con maggiore chiarezza. Le pagine originali evidenziano un equilibrio raro tra progettualità e improvvisazione, tra fruibilità e complessità armonica. Ogni tema possiede un nucleo melodico incisivo, ma si presta a divergenze che espongono un pensiero musicale profondo. Il pianoforte diventa un laboratorio in cui le matrici originarie del jazz post-bellico incontrano la formazione francese ed europea, annodandosi in un’ortografia personale, riconoscibile fin dalle prime battute. Questi cinque album non esauriscono la ricchezza del catalogo di Petrucciani, ma delineano un percorso che permette di cogliere la varietà del suo universo: la maturità formale, la forza del dialogo, l’omaggio alla tradizione, la complessità orchestrale e la piena affermazione della sua voce compositiva e strumentale.

A ventisei anni dalla sua dipartita, rimane il ricordo di un musicista che non ha mai tentato di imitare nessuno, pur avendo assorbito con intelligenza la lezione dei grandi; un pianista che ha trasformato la propria condizione in un’officina d’invenzione tecnica e poetica; un interprete che ha saputo fondere rigore armonico, immaginazione melodica ed una vitalità percussiva contagiosa. La sua storia non appartiene alla retorica del «genio nonostante tutto», ma alla consapevolezza di chi riconosce nella musica un territorio in cui il corpo trova un’altra misura, una diversa possibilità ed una differente forma di esistenza.

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