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Il doppio vinile finlandese restituisce un Coltrane in piena espansione creativa, versato nel traslare ogni composizione in un campo di possibilità, sostenuto da compagni che condividono la medesima urgenza espressiva.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La pubblicazione in doppio vinile di «Live in Finland 1961- 1962» restituisce un momento cruciale nella parabola creativa di John Coltrane, quando la sua ricerca linguistica si trovava in una fase di espansione vertiginosa e il sassofono, nelle sue mani, assumeva una fisionomia acustica capace di ridefinire l’intero lessico del jazz moderno. La Finlandia, apparentemente lontana dai centri nevralgici della scena statunitense, diventa per il sassofonista il luogo in cui si cristallizza un raro equilibrio tra rigore formale e slancio visionario, grazie a un ensemble che condivideva un’intesa costruita nel tempo e alimentata da un ascolto reciproco quasi rituale. Ne emerge un documento che non si limita a testimoniare un concerto, ma offre una finestra privilegiata su un processo evolutivo in pieno svolgimento, animato da una tensione verso l’ignoto che continua a esercitare un fascino inesauribile. La storia del sassofono nel jazz trova in questo doppio vinile un capitolo esemplare. Lo strumento, nato nell’Ottocento, con la rivoluzione parkeriana, aveva progressivamente ampliato la propria gamma espressiva, trasformandosi in un laboratorio di possibilità timbriche e strutturali. Coltrane, in questo percorso, rappresenta un punto di svolta: la sua ricerca sulle scale simmetriche, sulle permutazioni intervallari e sulla continuità del flusso melodico ha ridefinito il ruolo dello strumento, portandolo verso una dimensione quasi trascendentale. Il valore di «Live in Finland 1961-1962» risiede proprio nella capacità di consegnare alla contemporaneità un momento in cui tale trasformazione era in atto, ancora fluida ed aperta.

Coltrane aveva attraversato gli anni Cinquanta con una dedizione che sfiorava l’ascetismo, nutrendosi delle esperienze maturate accanto a figure come Johnny Hodges, Dizzy Gillespie, Charlie Parker e Bud Powell, fino all’incontro con Miles Davis, che gli offrì un terreno fertile per affinare un pensiero musicale sempre più orientato verso la libertà modale. La sua curiosità lo condusse poi verso Thelonious Monk, Yusef Lateef, Sonny Rollins, McCoy Tyner, Elvin Jones ed Eric Dolphy, musicisti che condividevano un’urgenza espressiva fondata sulla volontà di superare la grammatica armonica tradizionale mediante cicli intervallari, sovrapposizioni modali e un uso del ritmo che trasformava il tempo in un organismo elastico. Il concerto del 22 novembre 1961 al Kulttuuritalo di Helsinki documenta una formazione in stato di grazia, con Coltrane affiancato da Dolphy, Tyner, Workman e Jones. L’apertura con «My Favorite Things» rivela un terreno sonoro che si rinnova costantemente, grazie a un’alternanza calibrata tra modi maggiori e minori che prolunga le intuizioni di «Kind of Blue» e le spinge verso una dimensione più estesa, quasi ipnotica. Il soprano di Coltrane, con la sua aura fonica penetrante e luminosa, disegna un percorso che sfrutta la ripetizione come strumento di trasformazione, mentre il pianoforte di Tyner implementa un disegno armonico basato su quarte sovrapposte, generando un ambiente sonoro che sostiene e amplifica la voce del leader. Con la presenza di Dolphy si rafforza la componente di imprevedibilità che arricchisce il tessuto espressivo del gruppo. Il suo profilo acustico, spesso proteso verso intervalli spigolosi e linee oblique, dialoga con Coltrane secondo una logica di contrappunto che non aspira mai alla fusione, preferendo una coesistenza dinamica che mette in rilievo le differenze. In tal senso, il sassofono di Coltrane si colloca nel solco di una tradizione che parte da Coleman Hawkins e Lester Young, ma ne amplia le possibilità attraverso un uso del registro estremo, una gestione del fiato che trasforma la colonna d’aria in materia plastica e una concezione del fraseggio che tende verso l’infinito. La selezione dei brani incide ulteriormente sulla qualità del disco, poiché attesta la progressiva radicalizzazione del pensiero modale di Trane, con un uso del dorico che diventa terreno di esplorazione per una progressione sempre più estesa.

L’ascolto di «Live in Finland 1961-1962» permette di seguire Coltrane mentre attraversa un repertorio che diventa materia viva, continuamente rimodellata dall’interazione con i suoi compagni di viaggio. L’apertura con «My Favorite Things» introduce un territorio sonoro che si espande come un organismo in metamorfosi, sostenuto dal soprano che Coltrane impiega con una padronanza quasi ascetica. La scelta del waltz di Rodgers & Hammerstein, già trasformato in un manifesto modale nell’album omonimo, offre qui un campo di forze in cui la ripetizione non produce mai stasi, poiché ogni ciclo melodico genera nuove prospettive. Tyner costruisce un disegno armonico fondato su quarte sovrapposte, mentre Jones imprime una pulsazione che non si limita a scandire il tempo, preferendo un moto circolare che avvolge l’intero ensemble. Dolphy interviene con linee oblique che introducono deviazioni improvvise, quasi fenditure nel tessuto sonoro, e il risultato assume la forma di un dialogo in cui ogni voce conserva la propria identità pur contribuendo a un flusso unitario. Il passaggio a «Blue Train» conduce verso un clima differente, più radicato nella tradizione hard bop, ma attraversato da una vitalità che riflette la fase di transizione in cui Coltrane si trovava. Il suo tenore, con una fisionomia acustica più scura e compatta rispetto al soprano, rievoca la forza delle prime incisioni Blue Note, ma la spinge verso un fraseggio più esteso, sostenuto da un uso del registro grave che conferisce profondità senza mai indulgere in pesantezze. Tyner, in questo contesto, lavora per sottrazione, lasciando emergere spazi che Coltrane riempie con una logica quasi mantrica, mentre Workman mantiene una linea di basso che funge da asse portante, abile nel contenere l’energia centrifuga del leader.

«I Want To Talk About You» diffonde una dimensione più lirica, in cui il sassofonista affida al tenore una canto che si muove con un’intensità raccolta, quasi meditativa. La melodia, trattata con un rispetto che non rinuncia alla libertà, si sviluppa come un arco continuo, sostenuto da un pianoforte che privilegia accordi ampi, lasciati vibrare, al fine di ingenerare un’aura fonica che avvolge il solista. La scelta di includere due versioni, una del 1961 e una del 1962, permette di cogliere l’evoluzione del suo pensiero: nella prima emerge un lirismo più diretto, mentre nella seconda si avverte una maggiore inclinazione verso la rarefazione, con frasi che sembrano sospese in un equilibrio instabile, come se Coltrane cercasse un punto di contatto tra la melodia originaria e una dimensione più interiore. «Impressions» assume il ruolo di cuore pulsante del secondo LP, un laboratorio modale in cui il dorico diventa terreno di esplorazione per un fraseggio proteso verso l’illimitato. La versione finlandese del 1962 rivela un Coltrane ormai proiettato verso la stagione più radicale della sua ricerca, sostenuto dalla solidità di Jimmy Garrison, il cui ruolo nel quartetto storico avrebbe assunto un’importanza crescente. L’ordito motivico si dirama come una corsa in avanti, con Jones che bacchetta un paesaggio ritmico in continua mutazione e Tyner che alterna blocchi accordali a linee spezzate, conformando un ambiente sonoro che permette al leader di spingersi verso regioni sempre più ardite. «Everytime We Say Goodbye» apporta un clima più raccolto, in cui la voce del tenore si staglia con una delicatezza che non rinuncia all’escavazione emotiva. Coltrane affronta il costrutto accordale con un rispetto quasi cameristico, lasciando emergere la purezza del tema prima di avventurarsi in variazioni che mantengono sempre un legame con la materia originaria. La presenza di Garrison conferisce una stabilità che permette al solista di esplorare sfumature più intime, mentre Jones modella il tempo con tocchi leggeri, quasi sospesi nell’aria. «Bye Bye Blackbird» chiude il percorso con un ritorno a un repertorio che Coltrane aveva condiviso con Miles Davis, ma che qui assume una fisionomia differente. Il tenore si muove con un fare disinibito che non cancella la cantabilità del tema, preferendo una rimodellazione graduale che spinge la melodia verso territori più impervi. Tyner pennella colori armonici che ampliano la prospettiva, mentre la sezione ritmica costruisce un sostegno elastico che permette al leader di alternare frasi serrate a momenti di respiro più ampio. Il doppio vinile finlandese restituisce così un Coltrane in piena espansione creativa, versato di traslare ogni composizione in un campo di possibilità, sostenuto da compagni che condividono la medesima urgenza espressiva. Ogni traccia diventa il capitolo di un discorso più ampio, in cui la storia del sassofono nel jazz si intreccia con la ricerca di un linguaggio che continua a rinnovarsi, lasciando emergere una voce che ancora oggi conserva una forza magnetica. La rimasterizzazione dai nastri analogici permette di cogliere la grana del suono con una nitidezza che valorizza ogni dettaglio, dal respiro del sax soprano alle risonanze del pianoforte, dalle vibrazioni profonde del contrabbasso alle traiettorie percussive di Jones.

Eric Dolphy & John Coltrane
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