Jordan Williams con «Playing By Ear»: un solido ponte idiomatico tra il jazz del passato e quello del futuro (Red Records, 2025)
«Playing By Ear» non sancisce solo debutto, ma emerge alla stregua di un’indagine in un vasto territorio di tipo post-bop, protesa a cogliere appieno la spontaneità e l’interazione. Ciascun tassello s’interseca all’altro, generando un mosaico sonoro fitto di cambi di mood e sfumature timbriche. La postura di Williams, intenta ad unire il dettato idiomatico tradizionale e l’hic et nunc, affiora da ogni nota, rendendo l’elaborato un’esperienza intensa e memorabile.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Jordan Williams, promettente pianista della scena jazz della East Coast, classe 1996, si pone nel panorama del jazz afro-americano, come un musicista che non si limita a ripercorrere sentieri già battuti, ma li reinterpreta con una sensibilità contemporanea ed una profonda comprensione delle radici storiche dell’idioma. L’approccio allo strumento, che fonde la fluidità lirica di Herbie Hancock con la solidità ritmica di Mulgrew Miller, non rappresenta semplicemente una sintesi di influenze, ma una vera e propria rielaborazione attiva ed un’espressione individuale. La sua opera prima, «Playing By Ear», promulga, così, un’autentica dichiarazione di intenti, un manifesto programmatico che celebra la spontaneità e l’immediatezza dell’espressione jazzistica. Il titolo, lungi dall’essere una mera indicazione stilistica, si delinea come una vera e propria filosofia, un invito a privilegiare l’istinto, l’ascolto attento e la fiducia nella percezione, prima ancora che nelle strutture formali. «»
Nell’album d’esordio, pubblicato dalla Red Records, il pianista si avvale di un line-up di musicisti che trascende le barriere generazionali e stilistiche, dando vita ad un ambiente dialogico e stimolante. La presenza di Wallace Roney Jr. alla tromba risulta particolarmente significativa; la sua aura fonica, già caratterizzata da una marcata identità, si colloca in una posizione rilevante, sospesa tra l’eredità paterna ed una personale urgenza espressiva. Laddove il compianto Roney Sr. raccolse l’eredità di Miles Davis, traghettandola nel nuovo millennio, Roney Jr. sembra muoversi con una minore soggezione rispetto al peso storico, privilegiando un’esplorazione timbrica e un dialogo istintivo. Nat Reeves, al contrabbasso, rappresenta il fulcro ritmico ed armonico, un custode della tradizione la cui carriera annovera collaborazioni con giganti della caratura di Jackie McLean ed Eric Alexander. Il suo fraseggio risulta sereno, autorevole, ma mai invasivo, costituendo il centro gravitazionale attorno cui si sviluppano le proposte degli altri musicisti. La partecipazione di Jeff «Tain» Watts, figura iconica della batteria, conferisce all’album una tensione dinamica costante. La sua performance trascende il mero accompagnamento, attestandosi come una fonte inesauribile di energia centrifuga, segnata da fraseggi asimmetrici, groove destrutturati e da un impeto sonoro propedeutico ad una fruizione attenta e reattiva.
«One Finger Snap», a firma Herbie Hancock, apre il disco con una vitalità contagiosa. La reinterpretazione di Williams si distingue per la sua capacità di mantenere l’essenza dell’impianto originale, mentre infonde una nuova vitalità mediante un dialogo dinamico con i sodali. La tromba di Wallace Roney Jr. si avvita al pianoforte in un gioco di call-and-response, dispensando un’atmosfera di intensa interazione. Il jazz, per sua natura, è un’arte audiotattile, un’esperienza che si percepisce attraverso il suono e il tatto, sia fisico che mentale. I musicisti jazz, pur non essendo necessariamente guidati dalle emozioni in senso stretto, creano un’esperienza sensoriale che tocca l’ascoltatore a livello profondo. Il loro obiettivo non è tanto esprimere le proprie emozioni, quanto modellare il suono, creare una struttura, un’architettura sonora che stimoli l’immaginazione e l’intelletto. In «Waltz for Ellis», composto da Nat Reeves, si percepisce un cambio di registro. La melodia si snoda con grazia, evocando un senso di nostalgia. Il contrabbasso di Reeves funge da ancoraggio, mentre il pianoforte di Williams esplora le sfumature emotive del tema, rivelando una profonda introspezione. La batteria di Jeff «Tain» Watts, pur mantenendo un approccio sobrio, aggiunge un tocco di trasversalità ritmica che arricchisce l’intera proceduta percussiva. «Steepian Faith» di Kenny Kirkland si presenta come un tributo alla tradizione jazzistica, ma con un’impronta contemporanea. La performance di Williams è contraddistinta da un lirismo avvolgente, mentre la retroguardia ritmica sostiene la prima linea con una solidità che invita ad un ascolto attento. La tromba di Roney Jr. si fa nuovamente protagonista, portando avanti una narrazione che si dirama in modo fluido e naturale. Il metodo accordale di Jordan Williams, in tale contesto, si rivela uno strumento di precisione. Non si tratta di un semplice susseguirsi di accordi, ma di un’attenta manipolazione delle armonie per creare texture sonore complesse. Williams utilizza gli accordi come blocchi di costruzione, li sovrappone, li smonta e li rimonta, generando un paesaggio sonoro ricco di sfumature. Il suo approccio appare analitico, quasi scientifico, indirizzato ad esplorare le possibilità timbriche di ogni accordo. La sua ricerca non risulta guidata dall’emozione, ma dalla curiosità, dalla voglia di sperimentare, di spingersi oltre i confini del suono. Con «Blue Ridge», Reeves torna a calcare la scena con un elaborato e che ne riflette le radici, in cui il contrabbasso diventa il cuore pulsante, il pianoforte di Williams si staglia in un delicato equilibrio tra melodia ed armonia, sostenuto dalla tromba, mentre la batteria di Watts, con il suo approccio energico, lavora per contrasti.
«Tayamisha», un originale a firma Williams, si distingue per la sua audacia, sulla scorta di un tragitto sonoro che sonda diverse texture e timbri. La libertà espressiva di Williams emerge in modo chiaro, mentre Roney Jr. e Reeves si uniscono in un’intesa che trasmette una sensazione di scoperta continua. La tecnica pianistica di Williams, in tale prospettiva, si traduce in un mezzo per plasmare il suono. Precisione, fluidità e attitudine a controllare ogni nota sono al servizio di questa ricerca. Il tocco, come è leggero e delicato, ma anche potente ed incisivo, atto ad implementare un’ampia gamma di dinamiche. Ma l’obiettivo non è l’espressione emotiva, bensì la creazione di un’esperienza sensoriale completa. Williams utilizza la tecnica per scolpire il costrutto sonoro, per sagomare melodie forme e per definire spazi di condivisione. «Peace» di Horace Silver diventa un momento di riflessione. La versione di Williams risulta intrisa di una dolcezza malinconica, disegnata dalla tromba crepuscolare di Roney, mentre il pianoforte che si avventura in profondità, attraverso un carotaggio emozionale. La batteria di Watts, pur mantenendo un sottofondo controllato, si fa sentire nei momenti chiave, accentuando l’intensità dell’ordito melodico. Precisione, fluidità e attitudine a controllare ogni nota sono al servizio della progressione del pianista. Il tocco risulta leggero e delicato, ma anche potente, incisivo e finalizzato ad implementare un’ampia gamma di dinamiche. L’obiettivo non è, però, l’espressione emotiva, ma piuttosto la creazione di un’esperienza sensoriale completa. Williams utilizza la tecnica per scolpire il costrutto sonoro, per sagomare melodie e per definire spazi di condivisione. «Ms. Baja» di Kevin Garrett opta per moderato cambio di ritmo, con un groove contagioso che invita al movimento. La sezione ritmica si fa più intrigante, mentre il pianoforte di Williams si diverte a giocare con le melodie, innescando un’atmosfera ruffina e coinvolgente, quasi smooth. «Left Alone» di Mal Waldron chiude l’album con una nota di introspezione. La performance di Williams risulta intensa e meditativa, con un dialogo telepatico tra il pianoforte ed il contrabbasso di Reeves. La batteria di Watts, pur mantenendo un approccio sobrio, aggiunge un senso di urgenza che culmina in un finale a cascata. Il modulo espressivo di Williams, in quest’ottica, si concentra sia sulla struttura che sull’estetica, tanto che l’intreccio motivico risulta caratterizzato da un’accurata attenzione all’architettura, alla composizione, all’organizzazione della partitura. Le improvvisazioni, ad esempio, non sono un’esplosione di sentimenti, ma un’attenta costruzione di frasi, di motivi, di sviluppi tematici. L’obiettivo non è tanto emozionare, quanto coinvolgere l’ascoltatore in un viaggio intellettuale e sulla scorta in un’aura fonica immersiva, al fine di generare un’esperienza audiotattile, quasi olistica, atta a stimolare l’immaginazione e l’intelletto.
A conti fatti, «Playing By Ear» non sancisce solo debutto, ma emerge alla stregua di un’indagine in in vasto territorio di tipo post-bop, protesa a cogliere appieno la spontaneità e l’interazione. Ciascun tassello s’interseca all’altro, generando un mosaico sonoro fitto di cambi di mood e sfumature timbriche. La postura di Williams, intenta ad unire il dettato idiomatico tradizionale e l’hic et nunc, affiora da ogni nota, rendendo l’elaborato un’esperienza intensa e memorabile. La registrazione, curata da Tom Tedesco nel New Jersey nell’aprile del 2025 ed il mastering effettuato da Rinaldo Donati e Fabrizio Fini presso lo Studio Maxine di Milano nel luglio dello stesso anno, testimoniano una produzione meticolosa volta a preservare la brillantezza e la vivacità delle esecuzioni. La produzione esecutiva di Marco Pennisi per Ehm Srl, Milano, completa il quadro di un progetto discografico curato in ogni dettaglio e fonicamente impeccabile.

