Intervista a Quinito Lopez Mourelle
Quinito Lopez Mourelle
// di Guido Michelone //
Quest’intervista viene pubblicata per la prima volta in lingua castigliana nel 2011 (e da allora rimasta inedita in italiano) nella mia dispensa universitaria El jazz habla español, accanto a quelle di decine di altri jazzisti iberici e latinoamericani. Conosco Quinito dal 2010 quando è tra i collaboratori dell’ottimo jazz festival di Vigo. Da allora nasce un’amicizia che dura tutt’oggi sia pur attraverso i social e i pacchetti con i rispettivi libri e dischi che ognuno di noi rispettivamente scrive e registra.
Nato a Viveiro nel 1968, Juan Manuel, per tutti Quinito, consegue il dottorato di ricerca in Scienze dell’Informazione presso l’Università Complutense di Madrid con una tesi sulla figura dell’eroe nella narrativa di Álvaro Cunqueiro. Già prima di allora collabora con diverse testate giornalistiche e suona il pianoforte in un quartetto jazz con cui pubblica saltuariamentre diversi album. Più costante è invece l’attività di scrittore e saggista con libri eccellenti come Pimienta negra, Sin Ana Beatriz, Oito pezas europeas, Mi última reencarnación, Nueva mitología del insomnio, Confines: Breve Teatro Para Debutante, purtroppo mai tradotti in italiano. E proprio quest’anno (2025) si autoproduce l’album Suite Letea, di cui dice: “Non è jazz, non è classica, non so cosa sia, però spero almeno che piaccia”; circa vent’anni giunge al proprio secondo album (un terzo in trio con violoncello e sax/clarinetto è quasi pronto) che in effetti sembra ispirarsi all’ormai moderna tradizione della third stream music. Coadiuvato da Roberto Somoza agli arrangimenti e da Fernando Briones che dirige Orquesta & Corto Gaos di giovani galiziani, il pianista-scrittore offre un’opera sontuosa, in 11 parti, dal profondo respiro cosmopolita senza trascurare il discorso etico-filosofico.
Recuperare quest’intervista di circa un quindicennio fa vuol dire valorizzare una testimonianza storia dal forte vaore documentario sullo stesso jazz.
D Quinito, per il pubblico italiano, potresti raccontarci brevemente la tua carriera di critico musicale e pianista jazz?
R Come critico, la mia carriera è iniziata con un’intervista a Kenny Wheeler. Ho scoperto che sarebbe venuto nella mia città – A Coruña in Galizia – per un concerto con John Taylor e ho fatto tutto il possibile per intervistarlo. Poi ho proposto l’intervista a “Cuadernos de Jazz” (Quaderni di Jazz) e hanno accettato. In seguito, dopo aver scritto per “Cuadernos de Jazz” per un po’, ho contattato il mio giornale locale («La Opinión» de A Coruña) e ho iniziato a scrivere recensioni di concerti.
D E come jazzman?
R Non ho una vera e propria carriera. Ho registrato due album perché mi piace molto comporre, ed è stato un sogno che si è avverato. Suonare in pubblico è un po’ difficile per me perché sono timido, ma con questo secondo album spero di fare qualche concerto di lancio e vedere come va. Se non fossi circondato da bravi musicisti (con molta più abilità ed esperienza di me), probabilmente non lo farei.
D Quali sono i tuoi ricordi del tuo primo approccio con la musica?
R Ascoltavo musica classica a casa dei miei genitori da bambino e alla radio dell’auto quando viaggiavamo. Ricordo anche la prima volta che mio fratello maggiore portò a casa un disco di brani per pianoforte di Alexander Skrjabin (avevo quattordici anni). Poi ho passato molti anni a suonare da solo a casa… e un giorno mi sono presentato a una jam session in cui sceglievo i pezzi. Avevo paura di suonare altri pezzi che non avevo nemmeno preparato un pochino.
D Quali sono i migliori album jazz che hai mai ascoltato? E i migliori album di jazz spagnolo e latino?
R È una domanda molto difficile. Probabilmente alcuni di Bill Evans e di Ornette Coleman, In a Silent Way di Miles Davis, The Master and Margarita di Simon Nabatov, l’ultimo di Jason Moran… ce ne sono così tanti! Preferisco non commentare i migliori album di jazz spagnolo… e tra la musica latina mi piacciono molto Maferefun di Tony Martínez e anche i cd di Gonzalo Rubalcaba.
D Per te, Quinito, la tua musica è free jazz?
R Amo il free jazz, ma ogni cosa ha il suo tempo e il suo luogo. Mi piacciono i musicisti che sanno suonare sia dentro che fuori dal genere, che sfumano i confini (Franco D’Andrea è un esempio). Amo Simon Nabatov e anche gli Atomic… ma ogni giorno ho voglia di ascoltare qualcosa di diverso.
D Quinito, come musicista e critico, cos’è il jazz? Pensi sia giusto parlare di jazz come forma d’arte contemporanea?
R Per me, il jazz non è esattamente uno stile musicale, ma un atteggiamento nei confronti della musica. È un gioco intellettuale con la musica. In letteratura, sarebbe un linguaggio metanarrativo: lo scrittore scrive della letteratura stessa e ci gioca. Sì, è una forma d’arte, ma non necessariamente codificata da schemi specifici come lo swing.
D Visto che suoni il pianoforte, quali sono i pianisti che ti hanno influenzato di più e chi citi in genere?
R Bill Evans, Andrew Hill, Simon Nabatov, Earl Hines, Art Tatum, McCoy Tyner… ma sono stato influenzato anche da molta musica classica per pianoforte (Scrjabin, Beethoven, Debussy, Satie, Ravel, ecc.)
D Esiste un’identità distinta per il jazz spagnolo?
R Penso che in Spagna, fortunatamente, ci siano molti tipi diversi di jazz. Molti musicisti optano per il flamenco per fonderlo con l’improvvisazione, e forse è questo il mainstream… ma per me non esiste un’identità unica, bensì una pluralità di tendenze… spesso scarsamente collegate tra loro. Il problema è che molti musicisti spagnoli ascoltano a malapena la musica degli altri… e non c’è molta comunicazione tra loro.
D Ed esiste un’identità distinta per il jazz latinoamericano?
R Francamente, non saprei dirlo. Non ho abbastanza competenza in materia per offrire un’opinione informata.
D Qual è stato l’impatto della dittatura fascista di Francisco Franco sul jazz? C’era censura o disprezzo per la musica nera?
R Ero molto giovane quando Franco morì. Ma la dittatura fu disastrosa per tutte le arti. Si cercò di promuovere una forma d’arte con un’identità nazionale unica… e il jazz era, ed è tuttora, una forma d’arte minoritaria… suppongo così minoritaria che nemmeno la dittatura si è presa la briga di censurarla. Il jazz praticamente non esisteva in Spagna fino agli anni Ottanta.
D Qual è lo stato attuale del jazz in Spagna?
R L’ho descritto sopra. Ci sono buoni musicisti, ma sono un po’ chiusi rispetto agli altri. C’è una significativa mancanza di consapevolezza riguardo al resto del jazz che si produce in Europa, l’avanguardia… cercano ancora ispirazione nei vecchi modelli americani, negli standard e nei musicisti affermati. Tuttavia, in mezzo a questo isolamento, stanno emergendo musicisti con buone idee.
D Ci sono dunque giovani jazzisti in Spagna che meritano attenzione nel resto d’Europa e del mondo?
R Musicalmente, sì, ci sono jazzisti che meritano di essere conosciuti, ma forse il loro atteggiamento impedisce loro di riceverla: se non si preoccupano di ciò che accade nel resto d’Europa e del mondo, forse non meritano attenzione internazionale. Ci deve essere un feedback… ma ci sono delle eccezioni, ovviamente.
D Puoi parlarci, Quinito, dei tuoi progetti attuali per il presente e il futuro?
R A novembre cercherò di pubblicare il mio terzo romanzo e farò anche alcuni concerti con un quartetto per presentare il mio secondo album, Pavasaris. E cercherò di imparare a suonare il pianoforte… ma è molto difficile!

