Shabaka_NewDoppio

Il concerto di sabato 8 novembre organizzato da Patrizia Marcagnani aggiunge un altro importante tassello agli eventi d’autore, che fanno di Perugia, ancora un punto di riferimento per la musica di alto livello, quanto meno non convenzionale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Lo scenario appare suggestivo, il fondale alle spalle del polistrumentista inglese risulta più simile ai ruderi di un tempio mesopotamico che non ad una chiesa medievale italiana. Shabaka, accompagnato dal suo fedele chitarrista, sale sul palco con il passo lento di un sacerdote officiante, pronto a compiere un sacrificio aerofono attraverso strumenti di varia foggia e dimensione: flauti, fischietti esotici e clarinetti tradizionali. Il bancale, su cui adagia i suoi «compagni di gioco», i congegni rumoristici ed i ritrovati tecnologici di supporto, ricorda un altare atto ad accogliere il rito pagano delle musiche diasporiche del terzo millennio: poche parole e poi una lunga suite di quasi un’ora e mezza. Il pubblico, seduto compostamente in platea, appare ipnotizzato, se non soggiogato, dalla trama musicale densa di suggestioni dissonanti che sembrano coagulare l’intero scibile sonoro del Sud del mondo, tagliando trasversalmente tre continenti.

In sala il coinvolgimento emotivo risulta palpabile: gli astanti sembrano come incollati alle poltrone dell’auditorium da una forza magnetica: non un rumore, nessun cenno di approvazione o di dissenso, mentre Shabaka, srotolando tutte le perle del suo ultimo album legate da un cordone ombelicale emotivo, pur nel suo minimalismo esecutivo, innesca una dimensione rarefatta, onirica ed avvolgente, più penetrante dell’effetto policromatico e contrappuntistico che avrebbe potuto sortire una big band. La percezione uditiva oltrepassa il muro del raziocinio: non c’è spazio per pensare, ma solo per sentire ed immergersi negli anfratti di una musica a tratti sfuggente, che agisce sui gangli più reconditi della psiche, perché come avrebbe detto il Manzoni: «Un conto è ascoltar messa, un conto è sentir messa». Quella ordita da Shabaka, con il suo reiterato sistema pentatonico, configura una messa pagana che produce quasi l’effetto di una trance o di un rito apotropaico, atto ad esorcizzare i demoni della modernità, nonché del fragore mediatico e metropolitano, riportando la musica alla sua essenza naturale ed all’alveo naturistico pre-tribale, fatto anche di rumori ambientali che talvolta rievocano il brusio di una foresta tropicale o di un deserto assolato.

Il corredo armonico delle composizioni di Shabaka risulta minimale e puntato al centro, lineare e semplice, ma non addomesticato, come le musiche dei popoli altri, ossia alimentato da una dissonanza ritmico-armonica che, nella sua ripetitività, intrappola chiunque si ponga sulla medesima linea di demarcazione, provocando una sorta di ascesi spirituale, sebbene momentanea, o di elevazione sul livello medio della moltitudine inconsapevole e schiacciata dalle playlist di You-Tube. Nel continuo cambio di strumenti non c’è esibizionismo o virtuosismo conclamato: la logica dello spettacolo e del loisir, nel senso occidentale o eurocentrico del termine, viene bandita, mentre quella proposta dal multistrumentista emerge alla stregua di una procedura iniziatica per i neofiti o quale conferma di devozione da parte dei suoi adepti. Si consideri che il melting-pot narrativo e l’intreccio motivico di Shabaka affiora come la musica del dubbio, del non sapere dove e quando arrivare e dell’esplorazione costante e protesa verso un infinito altrove, nonché scevra da qualunque logica di newaging pressofuso o di terzomondismo in scatola di montaggio per sociologi del fine settimana. L’abilità del musicista inglese consiste nel far abbassare le difese immunitarie dell’uditorio, rendendolo tabula rasa e di risucchiarlo in un universo a sua immagine e somiglianza, il quale oltrepassa la cosmologia di San Ra, lo spiritualismo di Pharoah Sanders o il verticalismo coltraniano: fattori impregnanti che inizialmente sembravano essere tra i suoi punti di riferimento a livello formativo.

Oggi la performance di Shabaka si sostanzia in siffatta maniera: circa novanta minuti di flusso sonoro e di coscienza senza soluzione di continuità, quindi un applauso liberatorio finale da parte della platea, che scioglie l’incantesimo, ma l’effetto collaterale resta ancora per qualche istante, come quando ci si sveglia da un sogno. E, mentre il pubblico defluisce dalla sala, non sa se sia stato in una dimensione altra, fatta di meditazione e lentezza, modello slow-walk o in una bolla di sospensione della realtà, lontana dal clangore stordente del viver quotidiano. Di certo, il concerto di sabato 8 novembre organizzato da Patrizia Marcagnani, aggiunge un altro importante tassello agli eventi d’autore, che fanno di Perugia, ancora un punto di riferimento per la musica di alto livello, quanto meno non convenzionale.

Shabaka

0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *