«Elsewhere» del Mario Montella Trio: topografie interiori e geometrie del silenzio (Abeat Records, 2025)
 
                Il concept si orienta verso un ascolto ponderato ed attento, finalizzato a cogliere le sfumature e le pieghe più recondite di una partitura che non si concede a buon mercato, ma si lascia scoprire nel tempo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel divenire del jazz europeo, più ricettivo ed costruttivamente elaborato, si è sedimentata nel tempo una pratica che privilegia la riflessione alla dichiarazione, l’impianto formale alla spettacolarità, la profondità tematica all’assertività estroversa e al virtuosismo decorativo. Questa corrente – nutrita dalla tradizione eurodotta, dalla cultura cameristica e da una prospettiva armonica che predilige la ricerca alla risoluzione immediata – ha generato linguaggi in cui il trio si affranca dal vincolo gerarchico e dall’essere un banale dispositivo strumentale, divenendo luogo di ascolto, di riflesso combinato, di indagine e di pensiero condiviso. A partire da certi lavori della tedesca ECM degli anni Settanta fino al diffondersi delle più recenti revisioni idiomatiche e di talune tecniche compositive ed espressive, lontane sovente dal vernacolo afro-americano, il pianoforte ha assunto il ruolo di strumento critico, versato nel modulare geometrie sonore lontane dall’idea di centralità, disponendosi secondo regole trasversali, sfalsate e tutt’altro che canoniche. «Elsewhere», album d’esordio del Mario Montella Trio, si colloca nell’alveo di tale concezione dello spazio e del tempo non come epigono, ma quale voce autonoma, atta a marcare un proprio territorio creativo, esente da enfasi e da compiacimento.
Siamo di fronte non a un debutto nel senso scolastico del termine, ma piuttosto alle prese con una prima affermazione musicale che si attesta come una visione già compiuta, avulsa da esitazioni e da formule precostituite. «Elsewhere», pubblicato da Abeat Records, svincolato dalla ricerca spasmodica di un posizionamento o di un’adesione stilistica, si srotola in maniera simile ad un itinerario multilaterale, in cui la scrittura si traduce in un modulo rifrangente ed il flusso motivico diviene un’escavazione emozionale profonda. Mario Montella – pianista accorto, tecnicamente raffinato e musicalmente eloquente – guida la terna con un tocco che favorisce la precisione timbrica e lo scandaglio tematico. Al suo fianco, Gianfranco Coppola al contrabbasso e Giuseppe D’Alessandro alla batteria i quali partecipano ad armi pari all’innesto di un linguaggio condiviso, fatto di pause, sfumature e tensioni calibrate. La sequenza dei sette episodi non segue una progressione narrativa, ma si articola con intensità secondo una varietà di modelli. «Italy», opener di oltre nove minuti, non promulga una dichiarazione identitaria, ma un asse tematico che si espande lentamente, mediante modulazioni che richiamano paesaggi sospesi e prospettive oblique. Il pianoforte di Montella agisce come nucleo centrale, mentre Coppola e D’Alessandro delineano un tratto acustico che tende a rilanciare, anziché incorniciare ed abbellire.
«Lunar» si pone nel riflesso di una dimensione notturna e rarefatta, in cui la scrittura si affida a cellule melodiche che emergono e si dissolvono, sulla scorta di una grammatica del silenzio e della sospensione. «Las Vegas», al contrario, propone una pulsazione più assertiva, ma mai esibita, in cui il trio lavora per detrimento, rimanendo alla larga da qualsiasi spettacolarità, al fine di bilanciare una trama espressiva che gioca con l’idea di superficie e profondità. «Habemus Papam» introduce una tensione più angolare, dove il ritmo si frastaglia, la melodia si conforma per fratture e deragliamenti, mentre il colore sonoro si fa più vistoso. «Ballad Of Fairies And Witches», con i suoi cinque minuti e cinquantuno secondi, si affida ad una racconto evocativo, in cui la velatura acustica e le modulazioni accordali indicano una dimensione immaginativa, ma scevra del fiabesco e proiettata in una zona di ambiguità, tra incanto ed inquietudine. «Blue Sea» e «My Laura» chiudono il disco con due prospettive complementari: la prima, più ampia e modulata, ricorda il mare non come immagine, ma come ondata ritmica e armonica; la seconda, più intima e raccolta, si affida a un ordito melodico che mira alla condivisione e alla prossimità emotiva.
A conti fatti, «Elsewhere» si presenta come un concept che affida al suono l’ideazione di un habitat espressivo coerente, multistrato e libero da sovrastrutture retoriche. Il trio lavora con misura e profondità, evitando il virtuosismo autoreferenziale. Mario Montella, con questo primo lavoro, si colloca nel tracciato della pianistica europea più ricettiva ed interiormente elaborata, quella che, da Bobo Stenson a Marcin Wasilewski, da Giovanni Guidi a Glauco Venier, ha trasformato il pianoforte in strumento di visionarietà e di ascolto condiviso. Il portato compositivo di Montella si calibra con misura, senza ridondanze, lasciando emergere un’ortografia personale, distillata per alterazioni, sfalsamenti e geometrie armoniche mai prevedibili. Il concept si orienta verso un ascolto ponderato ed attento, finalizzato a cogliere le sfumature e le pieghe più recondite di una partitura che non si concede a buon mercato, ma si lascia scoprire nel tempo.


 
                       
                       
                       
                      