«Love Bug» di Reuben Wilson: l’evoluzione del soul jazz nella Blue Note e l’estetica dell’hard bop tardivo

Nell’insieme, «Love Bug» non va letto come una raccolta di episodi disgiunti, bensì come un affresco urbano, dove le progressioni accordali, le improvvisazioni e le relazioni timbriche disegnano un racconto unitario. La Blue Note, con quest’opera, dimostra come il soul jazz e l’organo Hammond potessero essere strumenti non solo di intrattenimento, ma di riflessione culturale e sociale: un linguaggio capace di tenere insieme il piacere immediato e la complessità, l’individuo e la collettività, il profano e il sacro.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La presenza dell’organo Hammond nel linguaggio jazzistico degli anni Sessanta non rappresenta soltanto un episodio marginale o un colore accessorio, ma una vera e propria declinazione stilistica che si radica nell’humus dell’hard bop e ne prolunga la vitalità, trasportandola sul terreno urbano e quotidiano della comunità afroamericana. Il soul jazz – definizione che in sé racchiude già l’osmosi tra la ritualità liturgica del gospel, il lirismo blues e la tensione ritmica del rhythm and blues – costituì per la Blue Note una sorta di «lingua franca» capace di parlare tanto agli intenditori quanto ad un pubblico più vasto. In questo senso, la scelta di produrre organisti come Jimmy Smith, Larry Young o lo stesso Reuben Wilson non fu soltanto un atto di lungimiranza estetica, ma anche un gesto di economia discografica, dove l’organo, con la sua fisicità sonora e la sua capacità di fungere da orchestra portatile, incarnava l’idea di un jazz accessibile, radicato nella vita delle chiese e dei club, ma al contempo suscettibile di raffinatezze armoniche.
Nell’economia della Blue Note, il soul jazz assunse quindi il ruolo di cerniera, tanto che da un lato assicurava vendite ed una diffusione più ampia del catalogo, dall’altro manteneva viva quella tensione creativa che aveva caratterizzato la stagione aurea dell’hard bop. L’Hammond, con i suoi registri cangianti e la sua volumetria sonora, sembrava tradurre in suono il paesaggio urbano di Harlem o del Bronx, vibrante, stratificato e pervaso da un’energia che mescolava il sacro e il profano, la spiritualità e il divertimento notturno. Così, mentre i trii di Jimmy Smith o gli ensemble guidati da Big John Patton segnavano le coordinate canoniche, lavori come «Love Bug» di Wilson restituivano l’immagine di un’etichetta capace di mantenere la propria identità pur aprendosi a contaminazioni. Se l’hard bop aveva costruito la sua forza sulla dialettica tra scrittura e improvvisazione, il soul jazz e l’organo portarono quel linguaggio su un terreno meno elitario, ma non per questo meno significativo. Più che semplice genere derivato, fu un ponte tra la sofisticazione del jazz e l’immediatezza del soul, tra il rigore dei musicisti formatisi nella temperie bop e le attese di un pubblico desideroso di riconoscersi in un sound che parlasse la lingua del quotidiano. In questo senso, l’organismo sonoro costruito da Wilson in «Love Bug» testimonia la vitalità di una stagione in cui la Blue Note, pur guardando avanti, non smise mai di ascoltare il battito pulsante delle strade da cui quel linguaggio proveniva. L’incisione di Love Bug, realizzata nel marzo 1969 presso lo studio di Rudy Van Gelder, segna un passaggio cruciale nella parabola creativa di Reuben Wilson, organista che, pur non raggiungendo la radicalità visionaria di Larry Young né la viscerale incandescenza di John Patton, seppe comunque elaborare un linguaggio personale, sospeso tra l’energia del soul-jazz e un lirismo di matrice blues. Francis Wolff, demiurgo silenzioso della Blue Note, gli affidò la direzione di un quintetto che oggi si impone come autentico all-star ensemble: Lee Morgan alla tromba, George Coleman al sax tenore, Grant Green alla chitarra e Leo Morris, destinato a reincarnarsi artisticamente come Idris Muhammad, alla batteria, con Jimmy Lewis a fornire un saldo ancoraggio sul basso elettrico.
La struttura del disco, che alterna composizioni originali a riletture di successi R&B e soul, riflette quella tendenza propria della Blue Note della tarda stagione hard bop, segnata da un’apertura al lessico della cultura popolare senza rinunciare alla raffinatezza formale. «Hot Rod», dedicata al figlio Roderick, si presenta come manifesto programmatico, costruito su un impianto ritmico incalzante che lascia emergere, quasi in filigrana, il gusto per una narrazione sonora che non disdegna divagazioni improvvisative, inaugurando il percorso con una progressione armonica fondata su un giro di blues rivisitato, ma arricchito da deviazioni cromatiche che ne complicano la linearità. Il rapporto tra l’organo e la chitarra di Grant Green risuona come una conversazione a due voci, con la prima ampia, avvolgente, quasi a fornire il fondale orchestrale, la seconda tagliente, rapida, pronta a incidere lo spazio come un dettaglio di regia cinematografica che sposta l’attenzione sul particolare. Lee Morgan interviene con frasi di tromba che possiedono la forza di un soliloquio shakespeariano, mentre Idris Muhammad – ancora Leo Morris – imposta un ritmo che oscilla tra rigore marziale e libertà funk, ricordando quelle sequenze urbane dei film di Sidney Lumet in cui la città stessa sembra scandire il tempo. Con «I’m Gonna Make You Love Me» la dimensione collettiva si trasforma, con Wilson che utilizza l’organo come un vero tappeto orchestrale, affidando alla sezione fiati, Coleman e Morgan, il compito di interpretare la linea melodica con una dolcezza che si avvicina alla scrittura lirica. Filosoficamente di potrebbe pensare all’eros platonico, in cui la musica diventa moto ascensionale che parte dal desiderio sensibile e si trasfigura in armonia superiore. Nondimeno appare significativo che il basso di Jimmy Lewis non resti mera ossatura, ma s’insinui con discrezione, quasi fosse un personaggio secondario ma indispensabile in un intreccio romanzesco. «I Say a Little Prayer» porta con sé un’eleganza che potremmo accostare a certe inquadrature sospese di Antonioni, in cui il tema, noto al grande pubblico, non viene banalmente replicato, ma spezzato e riallineato, come in un montaggio che alterna campi lunghi e dettagli. Wilson lavora qui con accordi estesi e voicing che dilatano l’armonia, mentre Coleman articola il suo sax con una cantabilità che sembra evocare non solo la voce umana, ma anche la nostalgia di una comunità che trova consolazione nel canto condiviso. L’organista diventa architetto del tempo, distribuendo tensioni e sospensioni che rimandano alla filosofia bergsoniana del divenire, dove la durata viene percepita come qualità, non quantità.
La traccia eponima, «Love Bug», si basa su un ostinato ritmico che mette in evidenza la pulsazione collettiva, dove Morgan e Green sembrano gareggiare a colpi di accenti, quasi due personaggi di un dialogo dostoevskiano in cui ogni voce cerca di affermare la propria verità senza mai dissolvere il conflitto. La progressione armonica gioca sulla reiterazione del centro tonale, ma Wilson introduce modulazioni improvvise che destabilizzano la prevedibilità, come se volesse alludere alla precarietà delle certezze nella vita urbana. La metafora sociale appare evidente: il jazz non come evasione, ma come specchio di un mondo fatto di attriti e contrasti. Con «Stormy» il line-up abbandona l’energia frontale per inoltrarsi in un’atmosfera di sospensione emotiva. L’organo impiega registri più eterei, quasi ad evocare un coro liturgico lontano, mentre Green stende arpeggi che rimandano ad una dimensione intimista, simile a quella di un interno borghese nei film di Bergman, fatto di luoghi chiusi e silenzi densi con la tempesta come condizione interiore più che meteorologica. Filosoficamente, l’angoscia heideggeriana trova qui un corrispettivo sonoro, ossia non è l’evento a generare inquietudine, ma il senso del possibile, del non ancora accaduto che incombe. Infine «Back Out» chiude il ciclo con un ritorno al registro comunitario, quasi un finale corale da oratorio moderno, permeato da un’atmosfera santificata, gioiosa, prossima a quella che veniva definita la «ritualità festiva» del jazz. L’armonia si fonda su gradi diatonici rassicuranti, e la batteria di Muhammad imprime un carattere rituale, prossimo alle liturgie del gospel. L’organo assume la funzione di officiate sonoro, mentre Coleman e Morgan si alternano in assoli che paiono confessioni estemporanee, e il collettivo si stringe in un abbraccio ritmico che ha il sapore di una liberazione. Si ha come l’idea di assistere ad una scena corale di Do the Right Thing di Spike Lee, in cui il quartiere che canta se stesso, mentre la comunità ritrova voce e corpo nella musica.
Nella tessitura complessiva dell’album spiccano le personalità di Morgan e Green, talvolta capaci di oscurare la stessa voce dell’organista, come lanterne ardenti che illuminano più del lume che le sostiene. Proprio in questo parziale squilibrio risiede la fascinazione del disco, dove l’artefatto sonoro non è mai rigidamente centrato sul leader, bensì si apre ad una dialettica plurale, ad un dialogo di timbri che rimanda a certe tele corali di Jacob Lawrence, in cui la centralità del soggetto emerge dall’intreccio di figure, non dall’isolamento. «Love Bug» non è, dunque, un monumento titanico né un esperimento radicale, piuttosto, si offre come testimonianza viva di un periodo in cui la Blue Note cercava nuove vie di sopravvivenza estetica e commerciale, navigando fra il porto sicuro del soul-jazz e le correnti più avventurose. Riascoltato oggi, soprattutto grazie alle ristampe curate con la consueta perizia da Kevin Gray, l’album conserva un fascino intramontabile, quello di una musica che, pur oscillando tra immediatezza e sperimentazione, riesce a restituire l’immagine di un’epoca in cui il jazz si nutriva della linfa vitale della cultura urbana afroamericana, trasfigurandola in arte.
