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«Mare Nostrum IV» si presenta come un lavoro controcorrente, il quale non cede alla spettacolarizzazione, non rincorre le mode e non cerca di stupire. Piuttosto si attesta quale esercizio di fedeltà ad un linguaggio, ad un’estetica e ad una forma di relazione musicale che si fonda sull’ascolto reciproco e sulla fiducia.

// di Francesco Cataldo Verrina //

A vent’anni dal primo incontro in studio, Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren tornano a pubblicare un nuovo capitolo della loro sintesi discografica, proseguendo idealmente quel percorso inaugurato nel 2005 con il primo «Mare Nostrum». Il quarto episodio di questa fortunata serie, registrato a Noisy-le-Sec nell’ottobre 2024, non rappresenta una cesura, né tanto meno una svolta estetica, ma piuttosto una riaffermazione coerente di un’identità musicale ben definita, costruita nel tempo con misura, rigore e senso poetico. Se il jazz, nel suo nocciolo originario, si fonda sull’improvvisazione e sul rischio, «Mare Nostrum IV» si colloca in un territorio adiacente, dove il vernacolo jazzistico viene assunto come grammatica d’espressione per una narrazione lirica e riflessiva, sottratta ad ogni urgenza virtuosistica.

Nonostante la provenienza geografica eterogenea dei tre protagonisti, ossia l’Italia mediterranea di Fresu, la Francia meridionale di Galliano e la Svezia silenziosa ed introversa di Lundgren, il loro dialogo musicale si attesta su una convergenza profonda, che non necessita di mediazioni culturali né di compromessi stilistici. La distanza, anziché ostacolo, diventa orizzonte condiviso, occasione per trovare un linguaggio comune al netto delle coordinate nazionali. L’ascoltatore attento ritroverà in questo disco molte delle costanti formali e timbriche che avevano caratterizzato i volumi precedenti della trilogia: l’eleganza sobria dell’interplay, la nitidezza delle linee melodiche, l’equilibrio tra scrittura e improvvisazione, nonché la scelta di evitare dilatazioni eccessive in favore di un spazio esecutivo concentrato.

La track-list alterna composizioni originali, quattro firmate da Lundgren, tre da Fresu e tre da Galliano, a due riletture di temi tradizionali, con un’organicità che fa pensare più ad un concept unitario che ad un semplice lotto di episodi scollegati. Galliano, impone subito un tono meditativo, venato da una malinconia che non è mai resa patetica, ma filtrata attraverso un controllo espressivo rigoroso. Questo «sentire elegiaco», che perfora quasi l’intero lavoro, si esprime con particolare intensità nei brani del fisarmonicista francese, il cui fraseggio cantabile ed il timbro pastoso del Melowtone disegnano atmosfere sospese, quasi cinematografiche. Lundgren si conferma, anche in questo capitolo, pianista di straordinaria misura e raffinatezza. Le sue composizioni, sembrano ricavare la linfa vitale da un minimalismo narrativo che punta sulla sottrazione e sull’evocazione discreta. Fresu, dal canto suo, imprime al disco le consuete qualità della sua voce strumentale: lirismo controllato, fraseggio rotondo, e quella capacità ormai riconosciuta di crogiolare timbro e intenzione espressiva in modo inscindibile. La scelta di riprendere «La vie en rose», in una versione misurata, essenziale, priva di ammiccamenti nostalgici, mostra la capacità del trio di confrontarsi con un repertorio condiviso senza cedere alla retorica della citazione, forti di una lettura personale ed asciutta, che restituisce all’evergreen francese un pudore interpretativo ormai raro.

L’ascolto di «Mare Nostrum IV» si apre con «Belle-Île-en-Mer», composizione di Richard Galliano che sviscera subito la cifra lirica dell’intero lavoro. L’introduzione è volutamente lenta, intelaiata su un motivo semplice ma di notevole efficacia espressiva. La fisarmonica guida il triunvirato con tono assorto, mentre il pianoforte e la tromba si dispongono come satelliti sonori, in un equilibrio calibrato e privo di retorica. Galliano sceglie di aprire non con virtuosismi, né effetti evocativi facili, ma con un frammento poetico che decreta la direzione dell’intero album: un’idea del suono come spazio di sospensione e come paesaggio interiore. La seconda traccia, «Blue Silence» (Fresu), approfondisce questa direzione con una tonalità più intima e meditativa. Il titolo non è metaforico. Il silenzio risulta davvero presente, come materia musicale. Fresu scolpisce ogni nota con un’attenzione quasi calligrafica, mentre il suo ottone non deborda mai, ma si integra nel respiro collettivo. Il pianoforte di Lundgren accompagna con discrezione, scegliendo accordi larghi ed ariosi, lasciando che siano le pause a parlare. Si tratta di un motivo che lavora per sottrazione e per concentrazione espressiva, tanto che ne emerge un senso profondo di sospensione, forse anche di perdita, ma senza alcuna enfasi. «Daniel’s Farfars Låt», firmata da Jan Lundgren, si sostanzia come un omaggio alle radici familiari del pianista svedese. Il titolo, traducibile come «la canzone del nonno di Daniel», richiama l’ancestralità popolare nordica, e si avverte. La melodia ha un andamento circolare, quasi ipnotico, con un impianto armonico semplice ma non banale. Lundgren lavora con estrema calibratura, evitando ogni compiacimento, mentre Galliano e Fresu intersezionano contrappunti che non distolgono mai l’attenzione dall’apporto centrale del pianoforte. Si avverte in questa traccia un senso di calore domestico, di memoria affettuosa, che evita il sentimentalismo grazie alla pulizia formale e all’essenzialità dell’esecuzione. Con «Hope», di Paolo Fresu, l’album raggiunge una delle sue vette poetiche. La composizione in apparenza scarna, appare costruita attorno ad un tema di pochi intervalli, ma che nella resa del trio assume la dimensione di un canto sommesso, quasi una preghiera. Fresu lo esegue con un tono ancora più dimesso, come se volesse sfrondare ogni orpello dalla melodia, lasciandone solo la sostanza emotiva. Il pianoforte sostiene con leggerezza, la fisarmonica si limita a poche note tenute, quasi a voler accompagnare senza disturbare. «Speranza», in questo contesto, non è una dichiarazione ma una fragile possibilità, al punto che l’impianto colloquiale ne restituisce il senso con rara intensità.

«Man In The Fog», nuovo componimento di Lundgren, riprende lo stesso senso di rarefazione trascinandolo verso un territorio più incerto. La melodia appare meno definita, più frammentata, mentre l’interplay fra i tre assume una forma quasi da improvvisazione meditativa. Il dialogo risulta serrato ma sottovoce, determinando l’impressione di un cammino nel buio (o nella nebbia, appunto) in cui i musicisti avanzano a tentoni, tastando il terreno con ogni nota. Non c’è dramma, ma nemmeno quiete, al contrario, si delinea una sospensione inquieta, mai risolta. Con «Letter To My Mother», Galliano introduce un tono diverso, più affettivo e diretto. Si tratta di una dedica personale, ma non celebrativa. Il tema ha una grazia dolente, priva ogni tono elegiaco. La fisarmonica avanza con un fraseggio largo e spaziato, mentre il piano ne sostiene il percorso con accordi delicati. Fresu compare in seconda battuta, con parsimonia, quasi a non voler rompere un equilibrio affettivo già fragile. Siamo alle prese con uno dei brani più intimisti del disco, ma al contempo fra i più composti. «La vie en rose» rappresenta l’unica incursione nel repertorio chanson, ma la lettura che ne dà il trio sembra lontana anni luce da ogni cliché. Nessuna esibizione nostalgica o nessun compiacimento melodrammatico. Fresu affronta il tema con un tono asciutto, quasi neutro, lasciando che sia il contenuto stesso a parlare. Galliano evita ogni romanticismo da cartolina, mentre Lundgren asciuga il tutto attraverso un accompagnamento di straordinaria essenzialità. L’effetto complessivo è quello di una reinvenzione silenziosa, che restituisce profondità a un motivo troppo spesso abusato. «Varvindar Friska», canzone tradizionale svedese, viene invece affidata interamente a Lundgren, che la trasforma in un piccolo frammento cameristico. Il tema, noto nel repertorio popolare nordico, viene trattato con rispetto ma anche con leggerezza, come una citazione affettuosa. Il fruitore s’imbatte in un episodio breve ma significativo, che riafferma la matrice culturale dell’intero progetto: non l’uniformità, ma la pluralità armonica. «Elegia», firmato da Fresu, chiude idealmente un ciclo, segnando il momento più astratto dell’album, certamente il più spoglio. La tromba intona un lamento senza enfasi, quasi trattenuto, mentre i due sodali agiscono per ombre e riverberi. Non si tratta di un finale in senso classico. In verità, non c’è un climax, né una chiusura tonale definita. Piuttosto, si ha la sensazione che la musica si spenga da sé, in dissolvenza, come se potesse continuare altrove, fuori campo. Infine, «Le Jardin des Fées» (Galliano) sembra offrire una coda notturna, un ritorno alla quiete iniziale. La struttura risulta semplice, ma la sensibilità dell’esecuzione restituisce una visione quasi impressionista, fatta di chiaroscuri e sfumature. Una chiusura coerente, che non alza la voce, non cerca effetti, ma accompagna lentamente il processo esecutivo verso il silenzio. Nel complesso, «Mare Nostrum IV» non presenta punti di rottura rispetto ai lavori precedenti, né pretende di innovare a tutti i costi, ma si sostanzia come un lavoro di permanenza, in cui ogni traccia viene pensata come il tassello di un discorso unitario, condotto con rigore e fedeltà ad un’estetica condivisa. In questa coerenza, in tale fedeltà paziente si rivela la forza dell’intero costrutto sonoro, ossia nella capacità di produrre emozione attraverso la misura, raccontando, senza parole, un tempo interiore che resiste alla dispersione del presente.

Una delle virtù maggiori di «Mare Nostrum IV» consiste nella durata contenuta delle esecuzioni: nessun episodio si dilunga oltre i cinque minuti, così questa economia del discorso musicale contribuisce a mantenere alta la tensione narrativa, evitando dispersioni e ridondanze. Ogni pezzo risulta cesellato come un piccolo capitolo autonomo, seppur inserito armonicamente nel continuum del disco. La qualità della registrazione, il bilanciamento sonoro fra i tre strumenti, la pulizia delle dinamiche, testimoniano una cura formale che non è mai fine a sé stessa, ma sempre funzionale alla resa espressiva. In un’epoca musicale segnata dall’accelerazione digitale e dalla frammentazione percettiva, «Mare Nostrum IV» promulga un lavoro controcorrente, il quale non cede alla spettacolarizzazione, non rincorre le mode e non cerca di stupire. Diversamente, si attesta quale esercizio di fedeltà ad un linguaggio, ad un’estetica e ad una forma di relazione musicale che si fonda sull’ascolto reciproco e sulla fiducia. In questo senso, il disco va letto non come «ripetizione» ma come rituale, come ritorno a un luogo interiore in cui ogni nota ha un peso, ogni silenzio un significato. Più che un album, «Mare Nostrum IV» costituisce una meditazione pentagrammatica. Non promette rivoluzioni, ma custodisce, con dignità e finezza, un’idea di arte e bellezza duratura. Specie in tempi di fragore e disorientamento, questa resistenza ha il valore sottile ma radicale di un gesto politico.

Galliano / Fresu / Lundgren ©-ACT Steve Haberland

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