«In The Wonder Of The Night» di Angela Verbrugge: la notte non è silenzio, ma voce, pianoforte e memoria» (G2 Records & Publishing, 2025)

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«In The Wonder Of The Night» si profila come un album di facile metabolizzazione, richiede, però, attenzione, disponibilità e sensibilità, essendo un lavoro intimo e di grana pregiata che si concede al tempo lento dell’ascolto ed alla profondità dell’escavazione emotiva.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nell’evolversi di una carriera, in cui ha saputo coniugare eleganza interpretativa e rigore compositivo, Angela Verbrugge giunge al suo quarto lavoro discografico con una proposta che si distacca dalle precedenti trame sonore per abbracciare una dimensione più raccolta, quasi cameristica. «In The Wonder Of The Night», pubblicato dalla G2 Records & Publishing, si sostanzia come un ciclo di episodi sonori per voce e pianoforte, affidati alla sensibilità della cantante canadese ed alla perizia del pianista Ray Gallon, figura di riferimento nel panorama jazzistico statunitense da oltre quattro decenni.

La scelta di ridurre l’organico a un duo non risponde ad esigenze di semplificazione, ma piuttosto ad una volontà di concentrazione espressiva, dove ogni passaggio si sviluppa come dialogo intimo e tessuto armonico, in cui la voce di Verbrugge s’interseca con naturalezza nel profilo acustico disegnato da Gallon. Il pianismo dell’artista newyorkese, radicato nel linguaggio del bebop e nella tradizione blues, sostiene la linea vocale, amplificandone le sfumature; ne rilancia le intenzioni, sedimentandone le evocazioni. L’esperienza al fianco di interpreti quali Sheila Jordan, Dakota Staton, Jon Hendricks e Chaka Khan si riflette in una capacità di accompagnamento che non determina mai subordinazione, ma costruzione condivisa. Verbrugge, già riconosciuta come «Vocalist dell’anno» nel 2020 da JazzTimes Magazine e nel 2024 da All About Jazz, oltre che «Artista jazz dell’anno» ai Western Canadian Music Awards, conferma in questo lavoro una maturità interpretativa che si traduce in controllo timbrico, articolazione lessicale e padronanza ritmica. La sua ugola, foriera di una fisionomia sonora nitida e flessibile, si muove con agio tra le fenditure melodiche, plasmando ogni frase con accortezza dinamica e precisione prosodica. Non si tratta di semplice esecuzione, ma di un processo di interiorizzazione che trasforma ciascun componimento in gesto narrativo. Il repertorio proposto in «In The Wonder Of The Night» si posiziona nell’alveo di una tradizione che guarda ai più celebrati autori dell’American Songbook – Cole Porter, George Gershwin, Dave Frishberg, Johnny Mercer – senza indulgere in citazioni passive o riproposizioni calligrafiche. Verbrugge, in virtù di una scrittura che coniuga classicità ed invenzione, costruisce inedite melodie che s’inseriscono con sorgività nel tessuto storico del jazz vocale, promulgando pagine musicali che potrebbero essere agevolmente reinterpretate da altri artisti. La dimensione notturna evocata dal titolo, oltre che ambientazione, raffigura una categoria estetica: il disco si riverbera nel riflesso di una luce obliqua, in cui ogni nota si fa velatura e ciascuna pausa diventa sospensione consapevole. Non esiste nulla di casuale e di superfluo, ma qualsiasi scelta timbrica o articolazione ritmica risponde ad un’esigenza interna e ad un afflato poetico che si avverte nel gesto canoro.

La struttura dell’album, anticipata da vari singoli, si dipana come una suite notturna, in cui ogni episodio sonoro evolve secondo una logica di indagine interiore, oltrepassando il desiderio di effetto ed compiacimento stilistico. Il modulo esecutivo si mantiene sobrio, ma mai scolastico; evocativo, ma mai retorico. Le corde vocali ed il pianoforte si avvitano in un afflato formale e sostanziale, generando una trama espressiva che richiama la forma del lied, pur conservando una radice jazzistica evidente. Qualunque intervento risulta misurato e ciascun fraseggio contribuisce alla costruzione di un ambiente acustico coerente, in cui l’ugola di Verbrugge può espandersi senza ostacoli. «In The Wonder Of The Night» mostra le sembianze di un disco che si lascia scoprire, mentre ascolto dopo ascolto rivela inedite sfumature, nuove connessioni ed inattese soluzioni armoniche, le quali concorrono a definire un lavoro che si colloca con autorevolezza nel panorama del jazz vocale contemporaneo. Angela Verbrugge non si limita a cantare, ma ricompone, mentre la sua vocalità diventa veicolo di pensiero, di emozione e di memoria. In tal senso, «In The Wonder Of The Night» rappresenta una tappa significativa nel suo percorso artistico, un punto di arrivo che segna anche nuovo inizio.

L’opener dell’album viene affidato ad una versione uptempo di «S’posin’», firmata da Andy Razaf e Paul Denniker, che non si sofferma all’evocazione del repertorio swing, ma lo rilancia con una vitalità ritmica che trova nelle corde vocali di Angela Verbrugge un veicolo di gioia calibrata. La cantante non si abbandona ad un’esuberanza generica, ma piuttosto distanzia le parole nel con una precisione che non è solo metrica, ma intenzionale, quasi a voler scolpire ogni sillaba nel tessuto swingante che Ray Gallon disegna con mano esperta, dove il pianismo non affiora alla stregua di un mero accompagnamento ma si attesta come propulsione e contrappunto. «Paradise Defined» si fonda su un’idea che Verbrugge esplicita con chiarezza: «la vera connessione umana è la mia definizione di paradiso». Per contro, il cantato non si riduce ad illustrare un concetto, ma lo deposita in una struttura tematica che alterna momenti di sospensione armonica a rilanci melodici, in cui la voce si fa veicolo di una tensione affettiva che non indulge nel languido sentimentalismo. Il fraseggio appare ponderato, la linea vocale si sposta agilmente tra le modulazioni, mentre Gallon promulga un profilo acustico che amplifica la dimensione riflessiva del testo. «I’m 99% Sure Of You», scritta con Caity Gyorgy, introduce un personaggio che si staglia tra esitazione e desiderio, tra ironia ed affermazione. Verbrugge impiega un tono spiritoso, ma mai caricaturale: l’intreccio vocale si piega alle sfumature del testo, coniugando ogni inflessione con accortezza ritmica. Il dialogo con il pianoforte risulta serrato, quasi teatrale, con Gallon che solleva le battute vocali mediante stacchi sincopati e variazioni accordali che accentuano l’aura narrativa.

«I’m a Cliché» si mostra come una ballata riflessiva, ma evita ogni deriva melodrammatica. La voce si fa più raccolta, il fraseggio si distende e la dinamica si attenua. Verbrugge perlustra la zona di confine tra emozione e logica nella fase iniziale di una relazione, senza mai cedere a formule abusate. Il pianoforte supporta con discrezione, ma non con passività, mentre la struttura armonica si decomprime secondo una ratio di progressiva immersione, in cui canto si traduce in pensiero. «On A Night Such As This», composta con Ken Takata, evoca una storia d’amore sotto la pioggia, ma lo fa con un metodo che richiama la metodologia anni ’30, senza indulgere in citazioni calligrafiche. La melodia si vaporizza con eleganza, il testo si srotola con precisione, mentre, dal canto suo, Gallon dispensa una velatura acustica che richiama le ballad orchestrali dell’epoca, ma con una sobrietà che evita qualunque compiacimento. Gli standard ricevono un trattamento che non delinea una banale rivisitazione, ma una rispettosa reinvenzione. «The Gift (Recado Bossa)» affiora con un fascino che Verbrugge modula mediante un controllo timbrico che non si limita ad evocare la bossa nova, ma ne implementa le potenzialità comunicative, mentre la voce cammina con flessibilità tra le pieghe ritmiche. «Moonlight Becomes You» viene collegata al vocalese boppish di «In the Wonder Of the Night» in un accostamento che non sancisce un prevedibile giustapposizione, ma una costruzione motivica. Il tema del crepuscolo viene esplorato mediante variazioni timbriche e modulazioni ritmiche che trasformano l’ugola in uno strumento di riflessione, in cui la trama esecutiva, si appella ad un linguaggio bop filtrato mediante una sensibilità contemporanea. «Reaching For The Moon» di Irving Berlin si estrinseca come passaggio dal valzer al latin jazz, ma la transizione non è meccanica, piuttosto viene impiantata tramite intelaiature accordali che preservano la coerenza formale. Le corde vocali si conformano con naturalezza al cambio di ritmo, mentre Gallon favorisce un’aura fonica che rilancia la melodia senza mai sovrapporsi. Cole Porter riceve un doppio omaggio: «It’s De-Lovely» emerge come un divertimento spensierato, ma la trascrizione vocale mantiene sempre il controllo. Verbrugge gioca con le parole, modula le inflessioni, costruisce un fraseggio che non appare mai gratuito. «Goodbye, Little Dream, Goodbye» viene invece proposta in una versione rara, in cui la voce si fa più raccolta ed il pianoforte più meditativo, mentre l’ampiezza tematica si dirama secondo una logica di progressiva immersione. «Moonlight In Vermont» suggella l’album, con una performance commovente, ma non esibita. Il flusso vocale si adagia, il fraseggio si fa più lento e la dinamica si attenua, mentre il comping di Gallon emana una sobrietà che amplifica la dimensione lirica del testo. «In The Wonder Of The Night» si profila come un album di facile metabolizzazione, richiede, però, attenzione, disponibilità e sensibilità, essendo un lavoro intimo e di grana pregiata che si concede al tempo lento dell’ascolto ed alla profondità dell’escavazione emotiva.

Angela Verbugge

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