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Sam Rivers

Rivers oltrepassa la clausola del tema o del dettato scolastico per costruire filamenti di DNA jazz espansi. La sua eredità attiene poco al concetto di modello o influenza diretta, ma piuttosto a quello di apertura, offrendo ai musicisti successivi una grammatica critica, in grado di tramutare ogni atto performativo in laboratorio di pensiero.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Sam Rivers si formò in un contesto in cui la memoria del sassofono afroamericano era già stratificata. La sua attenzione si rivolge tanto alla verticalità armonica di Coleman Hawkins, quanto alla mobilità lineare di Lester Young. Tuttavia, non aderisce né all’uno né all’altro: se Hawkins rappresenta la densità accordale, e Young la rarefazione lirica, per metafora, Rivers li convoca entrambi, ma poi fa finta di non riconoscerli e li evita. La sua emissione, spesso tagliente ed obliqua, non agogna la rotondità hawkinsiana né la flessuosità younghiana, ma procede lungo una terza via, più frastagliata ed instabile. L’influenza di Charlie Parker non si esaurisce nella velocità o nella sintassi bebop, ma si manifesta nella versatilità a costruire frasi autorigeneranti ed avulse dalle formule precompilate. Rivers assimila la grammatica parkeriana, ma ne rifiuta la clausola: ogni frase, in lui, si prolunga oltre il punto di risoluzione, come se la cadenza fosse sempre differita. In tal senso, il suo procedimento si avvicina più alla logica della variazione continua che alla costruzione tematica. Il riferimento più prossimo, per tensione e per struttura, resta Eric Dolphy. Entrambi polistrumentisti in grado di conformare il discorso su più registri timbrici e sintattici, Dolphy e Rivers condividono una concezione del fraseggio come frattura e proliferazione. Tuttavia, mentre Dolphy tende a saturare lo spazio, Rivers lo modula: il suo metodo non è mai eccesso, bensì deviazione controllata, dove ciascun assolo affiora come una fuga da sé, ma giammai per accumulo. Il confronto con John Coltrane impone una distinzione netta: Trane opera sulla verticalità, la reiterazione e la trascendenza. Rivers, al contrario, lavora sull’intervallo, il deragliamento e la proliferazione per contagio tematico. Se Coltrane cerca l’oltre, Rivers tende verso l’altrove. La sua musica non si eleva, ma si ramifica, lungi dal desiderare la catarsi o il bagno purificatore. Non vanno dimenticati riferimenti meno canonizzati, ma altrettanto significativi a Gene Ammons, con la sua capacità di fondere blues, soul e lirismo senza mai irrigidirsi in cliché ed a Lucky Thompson, dotato di un fraseggio obliquo e con un’attenzione maniacale alla micro-articolazione. Rivers ascolta questi sassofonisti non per aderirvi, ma per spostarne la traiettoria a suo favore. In fondo il polistrumentista non eredita direttamente, ma accetta varie donazioni. Per intenderci, non fa parte del lineage diretto, collocandosi invece all’interno di una costellazione, dove qualsiasi riferimento storico o influenza diviene per lui occasione di mutamento rispetto alla normativa vigente del jazz, in quel dato contesto storico ed ambientale.

Samuel Carthorne Rivers, nasce nel 1923 a Enid, Oklahoma. Formatosi al conservatorio di Boston sotto la guida di Alan Hovhaness, non ha mai aderito ad una sola grammatica stilistica, avendo continuamente riformulato le coordinate del linguaggio jazzistico. La sua pratica strumentale, che include sax soprano, sax tenore, flauto traverso, clarinetto basso e pianoforte, non si limita ad una versatilità tecnica, ma riflette una concezione polifonica del pensiero musicale, dove ogni strumento diviene vettore di una differente espressione formale e sostanziale. L’incontro con Tony Williams nel 1959 e la breve militanza nel quintetto di Miles Davis nel 1964 non rappresentano semplici tappe biografiche, ma sono veri e propri momenti di rilancio. Rivers si mostra abile a non farsi inglobare dalle strutture modali del secondo Davis, ma le assorbe usando, virtualmente, un selettore armonico, quale preludio alle asperità di «Fuchsia Swing Song» e «Contours», pubblicati dalla Blue Note. In questi lavori, il sassofonista oltrepassa il confine tra hard bop e free jazz, disarticolandolo sulla scorta di sequenze che sfuggono ad ogni classificazione: «Luminous Monolith» e «Downstairs Blues Upstairs» dissolvono le coordinate del vernacolo tradizionale, alternando cellule blues, frammenti swing e deviazioni atonali. La scrittura di Rivers si fonda su una continua modulazione interna. L’interplay con Jaki Byard, Ron Carter e Tony Williams produce stratificazioni ritmiche e armoniche che si avvicinano alla logica del contrappunto visivo, dove ogni linea si muove autonomamente pur sedimentando una forma. In «Ellipsis» ed «Euterpe», il materiale tematico viene trattato con una sintesi che mira alla alla propagazione, dove ogni frase si prolunga. L’attività compositiva e performativa negli anni ’70 e ’80, culminata nella fondazione dello Studio Rivbea, al netto della semplice militanza nell’avanguardia, va letta come costruzione di uno spazio critico dove la musica si confronta con la filosofia, la letteratura e le arti visive. Rivers non tenta di di accatastare in vari linguaggi, ma li mette in tensione, secondo una logica che ricorda la scrittura di Morton Feldman o le strutture mobili di Robert Morris. Per Sam Rivers la concezione del suono deve evita ogni retorica timbrica, affidandosi ad una dinamica interna, dove ogni emissione si modula secondo la pressione, l’articolazione e la direzione. Il sax tenore lascia emergere un fraseggio che si avvicina alla prosodia poetica, piuttosto che alla narrazione melodica. In tal senso, Rivers oltrepassa la clausola del tema o del dettato scolastico per costruire filamenti di DNA jazz espansi. La sua eredità, dunque, attiene poco al concetto di modello o influenza diretta, ma piuttosto a quello di apertura, offrendo ai musicisti successivi una grammatica critica, in grado di tramutare ogni atto performativo in laboratorio di pensiero.

La genealogia musicale di Samuel Carthorne Rivers Jr. non si radica in una tradizione codificata, bensì in una pratica spirituale e comunitaria che attraversa il canto afroamericano, la pedagogia familiare e la trasmissione orale. Il padre, Sam Rivers Sr., cantante nei Fisk Jubilee Singers e nel «Silvertone Quartet» di Chicago, e la madre, Lillian Taylor Rivers, accompagnatrice e pedagoga, non hanno semplicemente introdotto il figlio alla musica, ma gli hanno imposto una disciplina fondata sull’ascolto, sull’esercizio quotidiano e sulla memoria attiva. Il retaggio universitario dei genitori – Fisk per il padre, Howard per la madre – non rappresenta un dato biografico, bensì una premessa culturale che informa la postura critica del giovane Rivers: ogni gesto musicale nasce da una tensione formativa e ciascuna frase si costruisce come risposta ad una genealogia. L’infanzia trascorsa tra Chicago, North Little Rock e Texas favorisce una pluralità di esperienze scolastiche e comunitarie che anticipano la futura apertura metodologica. La frequentazione della St.Bartholomew’s School e del Jarvis Christian College gli infonde una sensibilità attenta alle strutture educative e alle dinamiche collettive. Rivers non si forma in solitudine, bensì all’interno di un tessuto sociale che lo obbliga a pensare la musica come pratica condivisa. Il periodo trascorso nella Marina degli Stati Uniti, durante il quale si esibisce con Jimmy Witherspoon, introduce una prima deviazione stilistica: il blues non viene assimilato come codice, bensì come forma aperta, capace di accogliere deviazioni ritmiche e modulazioni armoniche. L’ingresso al Conservatorio di Boston nel 1947, rappresenta una tappa accademica, ma anche un momento di confronto tra la scrittura compositiva e l’idea di «musica libera», intesa non come assenza totale di regole, ma come sospensione delle prescrizioni metriche e armoniche. Rivers non abbandona la forma, bensì la inforna, la deforma e la conforma. La padronanza di sei strumenti si traduce in una concezione polifonica del pensiero musicale. Le collaborazioni con Joe Gordon, Quincy Jones, Charlie Mariano, Gigi Gryce, Serge Chaloff e Jaki Byard, maturate a Boston, producono in lui una tensione dialogica e relazionale, preparatoria del terreno in cui impianterà tutte le successive deformazioni tematiche ed accordali. Tra il 1955 e il 1957, Rivers si confronta con l’R&B in Florida, accompagnando Wilson Pickett, B. B. King e T-Bone Walker. Esperienze che non vanno interpretate come deviazioni commerciali, ma considerate immersioni in una pratica ritmica che lo obbligherà a ripensare la pulsazione, la scansione e la dinamica. La tournée con Billie Holiday e la militanza nell’orchestra di Herb Pomeroy acuiscono il senso percettivo di una grammatica orchestrale che Rivers non abbandonerà mai, nemmeno nei contesti più radicali. Nel 1971, con la moglie Beatrice, Sam fonda lo «Studio Rivbea» nell’East Village di New York. Questo spazio non si limita ad ospitare concerti, bensì diviene laboratorio critico e luogo di trasmissione e sperimentazione, dove i giovani musicisti danno vita ad un’ortografia di relazioni e di interscambio costruttivo. Dal canto suo, Rivers li guida, proponendo un metodo aperto, atto ad accogliere elementi di trasversalità e di diversità sonora. La collaborazione con Dave Holland, Barry Altschul, Larry Young, Bobby Hutcherson, Andrew Hill, Bill Evans, George Russell, Don Pullen, Steve McCraven e Hilton Ruiz sancisce una scuola di pensiero latrale e non codificato, in cui ciascun incontro deposita agli atti una concezione estetica divergente. L’allestimento della «Winds Of Manhattan» orchestra non rappresenta un ritorno alla forma, ma una sua espansione, dove fiati, percussioni e contrappunti si spostano secondo una logica di mobilità, mai prescritta. Negli ultimi vent’anni di vita, Rivers si stabilisce a Orlando, in Florida, dove continuerà ad insegnare, comporre e suonare.

Il rapporto tra Sam Rivers e il Free Jazz non si lascia racchiudere in una semplice appartenenza stilistica, ma si dipana come alterazione metodologica, rilancio sintattico e riequilibratura etica ed estetica. Rivers non penetra nel Free Jazz, ma lo modula secondo una tecnica che rifiuta ogni prescrizione, senza rinunciare alla struttura. A differenza di Ornette Coleman, il cui «Free Jazz: A Collective Improvisation» del 1960 rappresenta una rottura netta con le convenzioni armoniche e metriche, Rivers non abbandona i costitutivi formali di base, ma li espande. Coleman implementa un linguaggio basato sull’atonalità relazionale, dove la melodia si emancipa dalla funzione armonica e l’impianto si dissolve in una collettività improvvisativa. Rivers, invece, mantiene una tensione compositiva anche nei momenti di massima libertà, come in «Crystals» o nelle performance dello Studio Rivbea. Coleman lavora per sottrazione, elimina la progressione, sospende la pulsazione, lascia che il suono si autodetermini. Rivers, piuttosto, lavora per reiterazione, moltiplica le voci, sovrappone cellule tematiche ed impianta architetture semoventi. La comparazione con John Coltrane impone una diversa analisi. Coltrane, soprattutto nella fase finale – da «Ascension» a «Interstellar Space» – trasfigura la forma, caricandola di una tensione mistica che si traduce in accumulo. Coltrane lavora sulla scala e sulla saturazione timbrica. Rivers, al contrario, agisce sulla variazione, sull’intervallo, sulla deviazione ritmica. In «Contours», la scrittura non tende al raggiungimento di un climax, ma si dissolve in una prosodia che si avvicina alla logica poetica, piuttosto che alla narrazione melodica. Il Free Jazz, per Rivers, non attesta un canone, ma una possibilità di sondare altri territori e di incrementare la sintassi espositiva, al netto di ogni ideologia o appartenenza ad una corrente di pensiero. La sua adesione è metodologica, secondo una ratio di sviluppo multilaterale. Per comprendere la posizione di Sam Rivers all’interno della genealogia dei sassofonisti afroamericani, occorre evitare ogni linearità evolutiva e ogni tentazione classificatoria. Rivers non si colloca come epigono né come epuratore, bensì come soggetto riformulatore. Il rapporto tra Sam Rivers e la Blue Note si sostanzia come tensione tra grammatica compositiva e apertura sintattica. Egli non solo incide per l’etichetta, ma ne sfrutta le possibilità per arricchire una scrittura che rifiuta ogni clausola e qualunque chiusura evolutiva. Quando il multistrumentista registra per la Blue Note – a partire da «Fuchsia Swing Song» nel 1965 – non aderisce ad un’estetica predefinita. L’etichetta, nota per aver ospitato figure quali Herbie Hancock, Wayne Shorter ed Andrew Hill, offre a Rivers uno spazio di sperimentazione che non si traduce in anarchia, ma in accrescimento strutturato. «Contours» (1965), «Dimensions & Extensions» (1967) e «A New Conception» (1966), costituiscono un’opportunità per articolare decostruzioni tematiche, fratture ritmiche e modulazioni armoniche. «Fuchsia Swing Song» promulga una dichiarazione di metodo. Il quartetto con Tony Williams, Jaki Byard e Ron Carter oltrepassa il concetto di interplay, mentre il telaio motivico ed accordale si definisce come fuga da sé ed in cui ogni frase dilata la precedente senza mai risolverla. In «Dimensions & Extensions», il sassofonista espande la la tecnica esecutiva, mentre l’organico si allarga e la scrittura si fa più orchestrale, ma non perde la tensione interna, mentre i fiati si sovrappongono e le linee melodiche si ramificano. La logica compositiva si avvicina a quella di George Russell, ma senza mai farne un guida, essendo Rivers più interessato alla pratica che non alla teoria. Con «A New Conception», egli affronta il repertorio standard – da «When I Fall In Love» a «Secret Love» – non per omaggiarlo, ma per decomprimerlo. Ciascun componimento viene riletto secondo una ratio di frattura, in cui Rivers rielabora il portato trdizionale, proponendo una forma mentis che rifiuta il canone.

Il rapporto tra Sam Rivers e l’ECM non va schedulato all’interno di una traiettoria lineare, ma si attesta come un disarcionamento delle coordinate estetiche dell’etichetta tedesca. Rivers frastaglia il tipico suono inanimato dell’ECM, lo modula secondo una metodologia che rifiuta la rarefazione contemplativa e le finalità di sottofondo ambientale. L’album «Contrasts», inciso nel dicembre 1979 e pubblicato nel 1980, rappresenta il fulcro del suo rapporto con l’etichetta fondata da Manfred Eicher. Il titolo diventa una postura compositiva, in cui ogni passaggio si delinea come deviazione interna. Rivers convoca George Lewis al trombone, Dave Holland al contrabbasso e Thurman Barker alla batteria e marimba, i quali by-passano il precetto di armonizzazione e di coerenza fonica. In «Circles», «Solace» e «Dazzle», Il sassofono – alternato tra soprano e tenore – non tende mai alla perfezione della fisionomia acustica o all’ornamento fine a se stesso. A differenza di altri artisti ECM – da Jan Garbarek a Tomasz Stańko – Rivers rifugge la delocalizzazione rispetto alla tradizione nero-americana, mentre il rapporto con Manfred Eicher non produce un’estetica condivisa, ma una tensione produttiva. Le registrazioni presso il Tonstudio Bauer di Ludwigsburg non genera un suono levigato, ma una tessitura frastagliata, dove ogni strumento agisce come marcatore di un terreno altro. Holland descrive il lavoro con Rivers come una «scuola di finitura», dove si è obbligati a suonare «tutta la musica»: swing, blues, atonalità, camera ed improvvisazione radicale. L’attività discografica del musicista dell’Hoklaoma si prolunga attraverso la danese Stunt Records, dove incide «Purple Violets» e «Violet Violets», rilanciando una scrittura che conserva la frizione anche in età avanzata. Con la Mosaic Records, che ha curato la ristampa integrale delle sessioni Blue Note, Rivers viene riproposto come elemento cardine nella costruzione di modus operandi aperto alla confluenza stilistica. Attraverso la Rivbea Sound, etichetta da lui fondata, documenta le pratiche collettive dello studio omonimo e le performance orchestrali della «Winds Of Manhattan», traducendo la registrazione in un atto pedagogico. Alcune collaborazioni europee, pubblicate anche su Red Records, testimoniano un’attività che attraversa i confini geografici, senza mai perdere le motivazioni ideali.

Sam Rivers non ha generato epigoni, ma ha aperto traiettorie. In Europa, alcuni sassofonisti ne hanno intercettato la tensione formale, la grammatica obliqua, la postura alternativa al modello standardizzato del jazz mainstream. Parliamo di affinità profonde, di divergenze feconde e di compliance metodologica. Tra i primi a promulgare una sintassi affine, segnaliamo il portoghese Rodrigo Amado, latore di un fraseggio tutt’altro che lineare. Come Rivers, Amado lavora sull’intervallo, sulla proliferazione. Il suo sax tenore non s’impone, ma si ritrae, si modula e si contorce. Eppure, a differenza di Rivers, Amado conserva una pulsazione più viscerale, più radicata nel corpo e meno orchestrale. Il francese Michel Doneda, invece, si avvicina a Rivers per radicalità timbrica e per costruzione sintattica. Il suo lavoro sul soprano non si fonda sull’emissione, ma sulla rimodulazione: Doneda mira alla micro-articolazione, alla frattura e al dosaggio del respiro. Tuttavia, il suo gesto risulta più ascetico, più vaporizzato e poco orchestrale. Evan Parker, focalizzato sul new free, non può essere ignorato. La sua modulo espressivo, con il sax tenore e soprano, soprattutto in solo, fa emergere una progressione circolare, basata sui flussi. Come Rivers, Parker rifiuta la clausola impositiva, ma la sua sintassi appare più ipnotica, più iterativa e meno collegiale. Entrambi rifiutano la linearità, ma divergono nella costruzione del ritmo. Il tedesco Gerd Dudek, meno celebrato ma rilevante, condivide con Rivers la tensione tra metodo ed messa in discussione dello stesso. Il suo iter con l’European Jazz Ensemble mostra una predisposizione ad intercettare il discorso collettivo senza mai perdere il senso dell’orientamento. Infine, il norvegese Trygve Seim, pur lontano per estetica, ha in comune con Rivers una concezione del suono, quale spazio analitico e adattabile, imperniato sulla sospensione. Rivers, più spezzettato e più ritmico, per contro, non punta mai alla contemplazione. Eppure, entrambi esprimono una metodologia affrancata dalle soluzioni convenzionali.

Il rapporto tra Sam Rivers e i sassofonisti italiani si dirama per affinità metodologica. Pasquale Innarella, in particolare, si attesta come figura che sedimenta alcune delle tensioni riversiane in un contesto radicalmente diverso. La sua pratica non nasce in loft newyorkesi, ma nei quartieri periferici di Roma, dove il suono non è decorazione, ma strumento di relazione, di trasformazione e di resistenza. La sua scrittura, soprattutto nei lavori come «Migrantes», si fonda su articolazioni mobili, dove la melodia si nasconde, si frammenta e si prolunga. Come Rivers, Innarella lavora sulla tensione tra composizione ed improvvisazione, tra grammatica e frattura. Tuttavia, la sua postura risulta più viscerale, più radicata nel corpo e più legata alla dimensione sociale del suono. Rivers riconduce all’idea di laboratorio, Innarella al concetto di comunità sonore. Rivers l’ha fatto con lo Studio Rivbea, Innarella lo fa attraverso le scuole popolari ed i circoli delle borgate. Il sassofono, per entrambi, incarna un vettore di trasformazione. Rivers non ha lasciato una scuola, ma ha aperto una grammatica: chi lo ha ascoltato con attenzione, in Italia, non l’ha imitato, bensì l’ha rilanciato, ciascuno secondo la propria sintassi. Pasquale Innarella, come già acclarato, rappresenta una delle figure più prossime a questa tensione: non per somiglianza timbrica, ma per costruzione etica, tanto che Rivers avrebbe riconosciuto in Innarella non un discepolo, ma un compagno di postura Ma accanto ad Innarella, altre figure avrebbero potuto raccogliere – o hanno raccolto – frammenti di quell’eredità. Mario Schiano, per esempio, non ha mai agognato l’estetica, ma la tensione. Il suo sax alto non cede ai diktat della sintassi, ma la riconnota. Come Rivers, Schiano costruisce ensemble mobili, dove la partitura non viene calata dall’alto, ma si distribuisce sulla scorta di una pratica collettiva. Tuttavia, la sua postura risulta più teatrale, più performativa e meno proteso all’insiemistica di un gruppo allargato.

Cinque album di Sam Rivers, scelti al di fuori dei circuiti più canonizzati, si dispongono sull’asse spazio-temporale, passando tra ensemble, quartetti, duetti e trii, i quali decretano un modulo espressivo e talune dinamiche strumentali che risultano attualissime nonostante il rincorrersi dei decenni. «Crystals», pubblicato nel 1974, dove Rivers convoca un’orchestra che non si limita ad eseguire, ma agisce come organismo in movimento. Le voci si tallonano, si accavallano e si curvano l’una sull’altra, generando una tessitura che non cerca compattezza, ma espansione. Il verbo «convocare» non indica solo la riunione di musicisti, ma l’atto di chiamare ciascuno ad una funzione precisa, ad una responsabilità sonora che si manifesta nel fluire collettivo. L’orchestrazione si rivela progressivamente nel processo di interscambio dinamico, lasciando che la sagomatura di un album paradigmatico emerga dal dialogo interno tra le parti. Con «Capricorn Rising», Rivers si affianca a Don Pullen: il un duo si attesta come una collisione fertile. Il pianoforte incide, taglia, allargando le fenditure del tessuto armonico, mentre il sax fuoriesce dal tracciato, si nasconde e si frammenta, non per sottrarsi, ma per generare inedite traiettorie. In questo contesto, il termine «incidere» assume il senso di scolpire nella materia sonora, seminando e fissando nell’humus creativo un’impronta che modifica il percorso. Il blues affiora come memoria, ma viene subito dissodato, riconcimato e disperso in direzioni molteplici, alla medesima stregua di una semina in un campo di grano. «Winds Of Manhattan» prolunga la logica orchestrale di «Crystals», ma la sposta in una dimensione collettiva. L’ensemble si dispone come un campo di forze, dove ogni voce agisce per impulso, per risposta e per geometrie trasversali. Rivers orienta, consentendo al substrato sonoro di modellarsi nel suo stesso fluire. L’affermazione «orientare» corrisponde a suggerimento, apertura e possibilità, mentre l’impianto si conforma, respirando attraverso le dinamiche interne dell’ensemble. In «Purple Violets», registrato nel 2005, la partitura si fa più rarefatta, ma non meno intensa. Il vibrafono incide con precisione, dispensando timbri che non decorano, ma si concedono a soluzioni molteplici. Il sax si modula, non per indebolirsi, ma per individuare il punto in cui il suono diventi necessità. Il verbo «modulare» descrive il senso di adattare, di mettere la voce a disposizione della forma e di costruire una trama che respiri nel dettaglio. Il quartetto si dimena come un organismo irrequieto, dove ogni gesto sonoro determina una curva avulsa dall’idea di staticità. «Violet Violets», registrato nello stesso periodo, strizza l’occhio ad una metodologia più fratturante, in cui il sax si muove per intervalli, la batteria spalanca varchi, il contrabbasso agisce come asse instabile. Il concetto di «muovere» corrisponde, oltre che ad uno spostamento dell’asse armonico, ad una trasduzione delle regole, adattate alla logica esecutiva del trio. Ciascun disco non s’inserisce in una linea evolutiva prestabilita, né si appoggia ad un modello formale ricorrente, per contro ogni lavoro genera il proprio percorso ed uno specifico codice comportamentale, quasi fosse un’isola sonora con regole interne.

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