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Un artista che, quasi senza ombra di dubbio, è stato il musicista africano più importante della storia, oserei dire una leggenda, quando «leggenda» non è un termine abusato, non solo in ambito musicale ma anche politico e sociale.

// di Marcello Marinelli //

Scandaglio tra le pieghe del mio inconscio musicale pluriennale e pesco dal cassetto dei ricordi Fela Kuti. Ho urgenza di andare a curiosare tra la sua musica e la sua vita, perché nel suo caso le vicende musicali e umane mai sono state più intrecciate. Ho voglia di documentarmi. Scopro due film dedicati a lui. Il primo, «Fela Kuti, il potere della musica» di Alex Gibney, ripercorre le tappe della vita del musicista con annessi spezzoni del musical di Broadway dedicatogli da un coreografo e direttore d’eccezione, Bill T. Jones. Il secondo è di Daniele Vicari, «Fela, il Mio Dio Vivente», che narra la vicenda di un giovane regista, Michele Avantario, il quale si innamora della musica africana e in particolare di Fela Kuti e sviluppa l’idea di farne un film. Questo film è il racconto di questo vano tentativo, narrato dal regista Daniele Vicari sulla base di tutti i documenti audiovisivi raccolti da Avantario. La cosa suggestiva in tutto ciò è che Avantario è diventato amico stretto del celebre musicista africano e ha vissuto con lui per lunghi periodi nella sua casa di Lagos. Avantario aveva organizzato il secondo tour di Fela Kuti in Italia nel 1984 per la rassegna musicale dell’Estate Romana di Nicolini, Ballo e non solo. Era il secondo tour del musicista in Italia; il primo, nel 1980, fu organizzato da Egidio Pastori per conto del P.C.I., che fece esibire l’artista per le Feste dell’Unità. Il primo grande problema fu che la polizia trovò, tra i bagagli dei musicisti (una moltitudine di circa settanta persone), quarantatré chili di marijuana. Fela Kuti venne arrestato e portato nel carcere di Busto Arsizio. Il musicista e il suo entourage facevano uso di marijuana, ma Fela Kuti negò la proprietà di quella sostanza, anzi diede la colpa a un ipotetico complotto orchestrato dagli Stati Uniti e dal governo nigeriano per incastrarlo. Sta di fatto che il P.C.I., in notevole imbarazzo, mise a disposizione del musicista un avvocato di prim’ordine che fece uscire Fela Kuti dal carcere dopo dieci giorni.

Ora farò un accostamento, probabilmente arbitrario, tra la marijuana e il titolo dell’album Gentleman e il film (e la relativa serie omonima) The Gentlemen di Guy Ritchie. Ovviamente l’ispirazione del titolo dovrebbe essere del regista Guy Ritchie, visto che il film è del 2019, mentre l’album di Fela Kuti è del 1973. Il tema della cannabis è presente in entrambi i mondi, ma con significati molto diversi, quindi potrei avere preso un abbaglio e aver connesso mondi lontani con la mia fervida fantasia. Per Fela Kuti l’uso della cannabis è uno sfondo filosofico/personale, simbolo di non conformità e autenticità africana, anti-colonialismo, e una ribellione all’ipocrisia sociale e culturale. Per Guy Ritchie il motore non è l’uso, ma la produzione della sostanza e una critica all’ipocrisia e alla violenza della malavita esercitata anche da perfetti gentlemen. Sempre a questo proposito, un’altra annotazione circa il secondo concerto del 1984 organizzato da Avantario: la polizia trovò nel bagaglio del bassista di Fela Kuti 800 grammi di cannabis, quando la storia si ripete. Avantario, dopo tante peripezie, riuscì a far liberare il musicista e a mandarlo in Olanda. La cannabis, in un modo o nell’altro, è sempre presente intorno a Fela Kuti.

Qualche anno prima dell’uscita di Gentleman e precisamente nel 1969, un viaggio negli States fu importantissimo per il musicista africano. Si esibì con il suo gruppo nel locale di Bernie Hamilton, fratello del batterista jazz Chico Hamilton, allora con uno stile acerbo che tentava di coniugare jazz e highlife, lo stile tradizionale in voga nell’Africa occidentale, originario del Ghana. Non fu un successo l’esibizione su suolo americano, ma gettò le basi del suo successo futuro. Scoprì la musica di James Brown, le idee di Malcolm X e la politica delle Pantere Nere tramite un’attivista che lo iniziò a quel mondo, Sandra Isidore. Fino ad allora Fela Kuti cantava solo canzoni d’amore; da quel momento, cambiò stile musicale, idee politiche e nome. In America si presentò come Fela Ransome Kuti, successivamente, precisamente nel 1977, diventò Fela Anikulapo Kuti (Colui che ha la morte in tasca). Fondamentale per l’evoluzione della sua musica fu un musicista che lo accompagnò nel suo peregrinare musicale: si trattava di Tony Allen, uno straordinario batterista che sapeva coniugare jazz, stile tradizionale africano e funk. Per stessa ammissione di Fela Kuti, senza Tony Allen non ci sarebbe stato l’afrobeat, il nuovo genere creato dal sodalizio tra i due.

L’importanza di Fela Kuti non fu solo musicale ma anche politica e sociale. Fondò a Lagos una sorta di comune che chiamò Repubblica di Kalakuta – uno Stato indipendente dal regime militare nigeriano – dove risiedeva con altre numerose persone e collaboratori e le sue 28 mogli, un centro sociale, politico e musicale con annesso studio di registrazione. Ispirato dalla politica delle Pantere Nere e presa coscienza del suo essere orgogliosamente e profondamente africano, cominciò a prendere di mira le multinazionali sfruttatrici, i governi corrotti complici dello sfruttamento, tra i quali anche il governo nigeriano. Tutto questo si rifletteva nella sua musica e nel suo quotidiano, nell’organizzazione della sua vita personale. La vita all’interno di Kalakuta è descritta molto bene nel film di Vicari, che utilizza le riprese di Avantario, il quale aveva libertà di movimento all’interno della comunità. Avantario divenne amico così intimo che poteva accedere alla sua stanza senza chiedere nessun permesso. Fela Kuti, oltre ad essere compositore, sassofonista, pianista, direttore d’orchestra, leader politico, era anche uno sciamano e sacerdote animista che consacrò Avantario nella sua ristretta cerchia. Il regista italiano divenne un discepolo del musicista e durante il suo funerale fu l’unico bianco che pronunciò una piccola orazione funebre dal balcone di Kalakuta che recitava: «Per tutto questo tempo è stato il mio Dio vivente». Per il suo essere intransigente contro il governo militare nigeriano fu perseguitato. Il fatto più grave accadde il 17 febbraio del 1977. I militari attaccarono la comunità, la misero a fuoco e distrussero tutti gli strumenti, i mix tapes e la clinica gratuita che il musicista aveva allestito. Il fatto più increscioso fu che la madre di Fela Kuti, l’attivista Funmilayo Ransome-Kuti, la prima femminista ante litteram africana, fu ferita fatalmente dopo essere stata scaraventata a terra dal secondo piano e morì tempo dopo per le ferite riportate. Lo stesso musicista fu arrestato più volte e torturato; nel film vengono mostrate le ferite.

Gentleman è un disco tra i circa 77 pubblicati dal musicista (di cui 46 in studio, una mole di registrazioni che sancisce il record mondiale di album registrati, come riconosciuto dal Guinness World Record). Questo disco del 1973 è l’ultimo con la formazione The Africa ’70; successivamente, la formazione si chiamò Egypt ’80. Il testo della canzone che dà il titolo all’album criticava la tendenza di molti africani allo stile di vita occidentale e ai suoi canoni estetici come la giacca e la cravatta. Nella foto del disco c’è una scimmia vestita all’occidentale. Il musicista anti-colonialista ribadiva di non essere un gentiluomo, niente abiti occidentali, propugnando il ritorno alle autentiche tradizioni africane. Era talmente fuori dagli schemi che all’interno del disco ci sono due immagini che lo ritraggono: una in abiti africani sgargianti, l’altra in mutande con il sassofono in mano. Nel film, durante le riprese di Avantario, il musicista parlava in maniera profonda con l’immancabile canna in mano e stava beatamente in mutande, incurante di quello che lo circondava; tra l’altro, era l’unico in mutande.

Per quanto riguarda Gentleman, l’approccio musicale al sound del disco è jazz e funky. Da una parte la grande tradizione jazz e dall’altra il sound di James Brown, entrambe le influenze filtrate dalla musica africana: l’afrobeat, il nuovo genere inventato da Fela Kuti come sintesi tra varie ispirazioni. Il microsolco inizia con ritmi quasi fusion del piano elettrico suonato dallo stesso leader con la base ritmica. Poco dopo, la base ritmica si ferma e fa il suo ingresso il sax del musicista africano in solitudine con il contrappunto parlato di qualcuno tra i suoi numerosi musicisti non menzionati nelle note di copertina. Dopo l’iniziale improvvisazione in solitaria, si aggiungono di nuovo tutti gli altri strumenti ritmici e i numerosi fiati, e qui siamo in pieno Afrobeat, con il musicista che continua a improvvisare come se non ci fosse un domani. Si aggiunge all’assolo del leader un altro musicista che a sua volta si cimenta con un altro assolo; dovrebbe trattarsi del trombettista Tunde Williams. Poi ancora il sax del leader, non pago di ispirazione. Il ritmo continua a pulsare senza sosta, una girandola di percussioni e ritmo afro. Dopo dieci minuti il leader comincia a cantare e le numerose coriste-ballerine fanno da contraltare alla voce solista. Dopo il cantato, di nuovo la musica strumentale e ancora un assolo di piano elettrico, e alla fine nuovamente l’orchestra accompagna con i suoi riff la fine del brano e la fine della facciata A del disco dopo quindici minuti di musica. Dal vivo i brani potevano arrivare anche a mezz’ora o anche oltre. La dilatazione del tempo musicale come tratto distintivo e la performance dal vivo come esperienza sciamanica.

La facciata B si apre con Fefe Naa Efe, con la voce declamata di Fela Kuti che recita un proverbio Ashanti del Ghana in lingua Twi, sempre del Ghana. Il Ghana, il piccolo paese non confinante con la Nigeria, è fonte di ispirazione musicale e letteraria per il leader. Il brano segue la falsariga di Gentleman: ritmi sottostanti ipnotici, cantato e risposta del coro alla maniera responsoriale, assoli di piano elettrico, di organo Hammond e di sassofono, risposta dei fiati in un continuum senza sosta. Peccato non averlo mai visto dal vivo. Igbe chiude la facciata B del disco ed evoca subito James Brown, con i riff dei fiati in una sintesi perfetta tra funk e afro, con Fela Kuti che si lancia in una specie di improvvisazione scat. Continua l’improvvisazione con quella voce rauca del suo sax tenore. Il groove impazza e Fela è padrone della scena, un caleidoscopio tra ritmi, voci, suoni, canto solista e canti corali. Pensare che il talento del musicista non è stato precoce. Nel 1958 andò a Londra per studiare medicina e solo dopo aver constatato la difficoltà della facoltà passò allo studio della musica. Si diplomò al Trinity College in composizione e tromba e cominciò a suonare il sassofono, che poi divenne il suo strumento principale, qualche anno dopo. Non mi risulta che ci siano incisioni del musicista alla tromba. Un artista che, quasi senza ombra di dubbio, è stato il musicista africano più importante della storia, oserei dire una leggenda, quando «leggenda» non è un termine abusato, non solo in ambito musicale ma anche politico e sociale. Si candidò anche alle elezioni, ma la sua candidatura fu bocciata. Fela Kuti morì nel 1997. La caratura di certi personaggi appare talmente grande, ed è frutto di quegli anni – ’60, ’70, ’80 – decenni di notevoli aspettative e di grande creatività, che nell’epoca moderna, da qualcuno denominata «l’epoca delle passioni tristi», sarebbe difficile considerare la nascita e la proliferazione di personaggi eccezionali e non solo in ambito musicale. Con questa considerazione negativa sui nostri tempi e con un gradevole ritorno al passato, non posso che tributare un omaggio alla memoria di Fela Kuti: buon riposo Black President!

Fela Kuti
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