«Bodies» di Claudio Fasoli, quando il sound si stratifica per attrito, alimentando un organismo molteplice ( Sound Planet, 1990)

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Il quartetto costruisce una piattaforma che si muove per incastri, dove il singolo apporto strumentale modifica il campo d’indagine, ciascuna nota apre una traiettoria, facendo spazio all’improvvisazione. Gli accordi si comportano come strutture mobili, mentre la funzione armonica viene sospesa a favore dell’interazione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Registrato tra dicembre 1989 e febbraio 1990, «Bodies» si presenta come un corpo a più teste, sagomato attorno a quattro musicisti che non si sommano, ma si moltiplicano. Claudio Fasoli al sax, Mick Goodrick alla chitarra elettrica e al synth guitar, Palle Danielsson al contrabbasso, Tony Oxley alla batteria e alle percussioni. I quattro attanti sono connessi come gangli in un sistema nervoso dove ogni impulso crea una risposta, ciascuna reazione genera un suono che si avvita in una rete di relazioni mobili.

La fisionomia acustica si regge su una geometria instabile, proiettata all’interno di un free form a controllo numerico, dove il sax di Fasoli funge da indicatore di marcia, la chitarra di Goodrick s’insinua tra le pieghe del tempo, dissolvendosi per poi ricomporsi, mentre il contrabbasso di Danielsson oscilla come asse armonico, senza sfuggire al compito di sorgente ritmica. Le percussioni di Oxley danno vita ad una trama che predilige l’attrito e la collisione. La mappatura armonica viene elaborata su nuclei mobili, in cui ogni singolo componimento agisce come segmento in divenire. Le tonalità volgono verso itinerari tortuosi mutando in soluzioni altre. Le cellule tematiche affiorano come frammenti, subito rilanciati, deformati e rifratti. L’interplay si sbriciola come tensione continua, con scambi che si accatastano, dissolvendosi in campo magnetico caratterizzato da polarità strumentali che si attraggono per opposizione. L’annotazione fasoliana promulga una scrittura che privilegia la circolarità relazionale, dove ogni atto strumentale si radica in una visione condivisa e ciascuna scelta individuale diventa propedeutica ad una tensione collettiva. Il quartetto sperimenta in tempo reale senza dispersione o singoli tentativi di sopraffazione. «Bodies», sazio di un baricentro proiettato in avanti, traccia un mappa anatomica – quale catalogo di superfici estensibili – tesa all’escavazione di tessuti sonori, molli e duri. Le melodie si annidano tra le fibre profonde del parenchima sonoro, gli intrecci s’infittiscono con precisione chirurgica ed i temi affiorano con pungente abrasività: Fasoli guida con chiarezza; Goodrick prolunga con obliquità; Danielsson calibra con precisione; Oxley frammenta con lucidità. Ciascun musicista agisce come organo ed ogni strumento come tessuto, mentre la morfologia del disco si sviluppa dalla fisiologia dell’interplay.

Claudio Fasoli solleva il sax e lascia che il primo suono si affacci con la lentezza di un pensiero che prende corpo. Nessuna esposizione, nessuna dichiarazione: solo materia che si dispone nello spazio, come vapore che si addensa, come luce che filtra da una fenditura. Il fiato si trasforma in in pressione, mentre la nota, che aderisce ad una superficie ancora in formazione, si lascia guidare da una memoria che scalpita nel sottocutaneo sonoro. Il fraseggio si avvolge su se stesso e si trattiene, prolungandosi. Mick Goodrick, con la sua chitarra elettrica e il synth guitar, penetra nelle fenditure narrative senza varcare il limite o cercare vie di fuga. Le sue corde tagliano l’aria con precisione chirurgica, mentre l’armonia che ne scaturisce genera ombre, chiaroscuri e riflessi. Il timbro si fa poroso e la dinamica si modula con la cura di un artigiano che lavora la cera, richiamando il cinema di Tarkovskij, dove ogni immagine si estende oltre il visibile ed il sound si radica in un tempo infinito. Palle Danielsson, al contrabbasso, disegna orbite che curvano lo spazio armonico, rendendo permeabile la struttura, dove ogni pizzicato suggerisce una rotta, orientando il flusso. La sua presenza richiama la pittura di Rothko, dove il colore avvolge l’insieme e ciò che è recondito si percepisce per sensazione. Tony Oxley, con le percussioni, affonda nel ritmo come se fosse un blob duttile e modellabile a suo piacimento, dove qualunque battito si comporta come un frammento di vetro che rifrange la luce, alla stregua di un granello di sabbia in una clessidra, il quale modifica la consistenza del tempo. La modalità percussiva genera spostamento, mentre la batteria da retroscena, si tramuta in scenario. Il suo gesto richiama la danza di Carolyn Carlson, in cui il corpo interroga lo spazio, sagoma il vuoto e modella l’aria.

«Legs» si sostanzia attraverso otto minuti di articolazione ritmica, dove i quattro musicisti si collegano come gangli in un sistema nervoso. Fasoli imposta una linea spezzata, costruita su intervalli larghi, subito rilanciata da Goodrick con una chitarra allo stato liquido e dal suono arabescato, capace di irrorare e colmare gli anfratti del sottosuolo ritmico, mentre dalle retrovie. Danielsson elude il metronomo spostandosi obliquamente, ma non regolarità, fotocopiato da Oxley che elargisce frammenti di groove al dettagli. In «Belly» la tensione si sposta verso il nucleo gravitazionale del tema che si configura come una cellula amniotica, subito deformata dalle deviazioni modali, protese verso un free form sgretolato. Fasoli si applica su registri medi, con un suono che si rinnova per partenogenesi. Goodrick lo assiste con il synth guitar, Danielsson misura le note a palmi, mentre Oxley interviene con accenti spostati. L’interplay, sotteso da un robusto filo accordale, si articola come un sistema di vasi comunicanti, in ogni voce mantiene autonomia territoriale e passaporto d’origine e coerenza timbrica. Con «Hair», introdotta da un saz che procede quasi a zig-zag e con un passo felpato, quasi a gattoni, la superficie diviene più sottile. epidermica, quasi un tessuto di grana finissima, mentre il tema si dissolve in un’aura rarefatta, dove Fasoli lavora per frammenti, Goodrick interviene con suoni che sfiorano il registro acuto, Danielsson gioca sul minimalismo, quasi al risparmio, con la complicità di Oxley, il quale distribuisce i battiti come punti di sospensione. L’armonia si riduce ad un campo di possibilità, con intervalli che si aprono senza chiudersi.

«Navel» si annunci con un’ambientazione quasi di suspance, la quale si dissolve a metà tragitto dopo un lunga progressione. Il costrutto tematico poggia su una melodia radente, con un impianto accordale che ruota attorno ad un asse tonale mobile. Fasoli scivola su una linea discendente, che Goodrick prontamente prolunga, ma per vie traverse Danielsson calibra la dimensione, mentre Oxley ne corrobora i contrafforti. L’interplay diventa liquido, con scambi che s’intersecano, mentre l’armonia si apre verso una cadenza sospesa, lasciando spazio al dopo, in una dimensione ombrosa. «Neck» tende a stringere, al punto che l’intreccio tematico si connota come un nodo o una giuntura. Goodrick interviene con accordature che si flettono, strisciando, Fasoli lavora su intervalli ravvicinati, Danielsson sostiene con linee che si torcono, ma appena percettibili, mentre Oxley distribuisce accenti come impulsi ad intermittenza. L’armonia si costruisce su gradi secondari, con modulazioni che mantengono la tensione, mentre il quartetto progressivamente si coagula in un corpo unico legato da filamenti mobili. «Lips» affiora come contorno di una bocca che trattiene un segreto, mentre Fasoli soffia parole che cercano contatto, mentre il suono si fa voce, prima di definire un linguaggio. Le note sono sillabe che si uniscono come fonemi in un dialogo intimo, quasi una confessione sussurrata. L’impianto melodico sembra indirizzarsi verso il canto, ma resta sospeso, accennando ad un racconto che tende alla sospensione, ma lascia immaginare il sottinteso. Con «Hands» il line-up cerca la tangibilità mentre il suono si dirada sfuggendo quasi di mani. Il tema è invisibile, se non riconoscibile in virtù di cellule ritmiche, mentre Fasoli punta più a liberare la forma che a ricomporla. Goodrick, dal canto suo, sembra sguazzare in un ecosistema sonoro palustre con frasi spezzate, rapidamente supportate da Danielsson sulla base si un procedimento multilaterale, a cui Oxley apporta accentazioni mobili e colpi di bastone secchi e roteanti. L’interplay conduce ad un gioco di specchi, con rifrazioni timbriche che costruiscono un’impalcatura poliedrica. «Eyes» è una visione che si compone emergendo. Fasoli traccia linee che osservano, Goodrick rifrange come prisma, Danielsson guida come una pupilla che si adatta, mentre Oxley lampeggia come riflesso. Sembrerebbe l’alba di un nuovo giorno, mentre l’intreccio motivico si solleva come una palpebra, chiudendosi, per, alla stregua di uno sguardo che trattiene le immagini, mentre l’armonia si fa luce e la forma riaffiora come soluzione fisiologica, più che sostanza fisica.

Claudio Fasoli

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