«So Far» di Stefano Rielli Feat. Gabriele Mirabassi: la forma ed il passo, un debutto nel segno della misura (GleAM Records, 2025)

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«So Far» si solidifica come una dichiarazione d’amore post-giovanile alla musica jazz, ma anche una riflessione sul tempo, sulla distanza e sul desiderio.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«So Far», esordio discografico di Stefano Rielli, si presenta come una dichiarazione d’identità che non indulge in esibizionismi, bensì si articola secondo una logica di misura, di consapevolezza e di parsimonia: non è una deminutio capitis, ma la durata complessiva del disco – appena 31 minuti – risulta esigua. Un brano in più, magari originale, non avrebbe fatto male all’impianto complessivo del disco. Il titolo, infatti nella sua ambivalenza comunicazionale, delinea, da un lato la voglia di raggiungere un traguardo lontano, dall’altra la notevole distanza che manca ancora al raggiungimento di tale obiettivo. L’album si compone di sette tracce, sei delle quali rielaborano repertori consolidati, mentre la sola «Seesaw» reca la firma autografa del contrabbassista. L’intero lavoro si muove nel solco del post-bop, ma ne rilegge le strutture affidandosi essenzialmente al rigore formale, in cui, però, l’audacia risulta tenuta a bada. Siamo alle prese con una costruzione musicale che si nutre di ascolto, studio ed immaginazione. Rielli agisce non solo come interprete, ma anche come pensatore musicale, capace di far dialogare le voci strumentali in un ordine interno che riflette la sua visione, ancora lievemente scolastica. Nelle liner notes, Spencer Travis coglie con precisione questa postura: «una figura che si affaccia sulla scena con passo misurato, ma con uno sguardo già orientato al futuro, nel solco di un linguaggio post-bop che Rielli padroneggia e rilegge con sensibilità». In effetti, il limite di un’opera prima può essere dato proprio dall’eccesso di riproposizione, anziché di proposizione, dove rilettura non assume la medesima pregnanza della scrittura e di una validità epistemologica. Nello specifico, tutto ciò non inficia, almeno nella forma e nell’ethos, la gradevole fruizione del disco.

L’opener è affidato ad «Off the Top», composizione di Jimmy Smith che funge da portale d’ingresso. L’organico – contrabbasso, sassofono tenore, organo Hammond e batteria – si dispone secondo una geometria sonora che richiama la tradizione hard bop, ma che viene filtrata attraverso una scrittura attenta alla dinamica ed alla stratificazione timbrica. Il basso non si limita a sostenere, bensì articola un profilo ritmico che dialoga con l’organo, generando una trama espressiva fitta di accenti e di sfumature. Il sassofono tenore di Emanuele Coluccia espone il tema con una voce che non mira al protagonismo, bensì la coabitazione timbrica. L’interplay tra gli strumenti genera un ambiente sonoro stratificato, dove la progressione armonica si sviluppa secondo una approccio modulare, evitando risoluzioni immediate e lasciando spazio alla risonanza. «Like Sonny», omaggio a Coltrane, stabilisce un’ambientazione più lirica, dove la cantabilità del tema s’innesta in un impianto accordale che si nutre di modulazioni e di sovrapposizioni. L’interplay tra basso e Hammond tratteggia un ambiente sonoro che richiama la pittura tonale, dove ogni colore si stratifica e si trasfigura. Il sassofono, sempre misurato, si staglia con un’aura fonica che rimanda alla vocalità interiore, mentre la batteria di Marco Girardo mantiene una pulsazione flessibile, capace di adattarsi al respiro del fraseggio. «Dewey Square», composizione di Charlie Parker, viene riletta attraverso una lente cameristica che ne deforma il carattere primigenio. L’intervento di Gabriele Mirabassi al clarinetto – vera punta di diamante dell’album – apporta una dimensione timbrica ed una fisionomia acustica inattesa, dove la voce del legno si fa veicolo di una cantabilità che richiama la musica da camera francese. L’arrangiamento, ispirato alla versione di Roy Hargrove, si dipana secondo un’idea di equilibrio e di misura, dove ogni strumento trova il proprio spazio senza mai accavallarsi. Il contrabbasso assume una funzione lirica, delineando un profilo acustico che si nutre di dettagli e di silenzi. «My Love, Effendi», rilettura dell’«Effendi» di McCoy Tyner nella versione di Kurt Elling, si distanzia per la sua energia ritmica e per l’intreccio timbrico tra il sax tenore di Coluccia, l’organo Hammond suonato da Vincenzo Abbracciante ed il contrabbasso del band-leader. L’esposizione del tema, affidata al sassofono, s’innesta in un contrappunto vigoroso e coerente. Rielli introduce due elementi originali: un interludio che anticipa il solo di contrabbasso ed una chiusura inedita che si colloca nel parenchima genetico del brano. L’intelaiatura armonica si sviluppa secondo una ratio di frizione controllata, dove le progressioni mutano.

«Seesaw», unico componimento originale, rappresenta il cuore del disco. Il titolo, traducibile con «altalena», sintetizza la natura oscillante della composizione, tanto sul piano ritmico quanto su quello armonico. Il tema, esposto all’unisono da contrabbasso, sax ed organo, si divide in sezioni che alternano momenti di opulenza e di vaporizzazione. La batteria introduce una dimensione performativa che rompe gli schemi, aprendosi ad una modalità più libera. La trama, ispirata al rhythm changes, viene rielaborata con cambi armonici che rimandano alle perifrasi coltraniane, fondendo energia be-bop ed intensità spirituale. «Endless Lawns», composizione di Carla Bley, riprende la cover di Kurt Elling, dalla quale Rielli trae ispirazione. Il contrabbasso assume una funzione completa, veicolando tanto la componente ritmica quanto quella lirica. L’atmosfera che ne scaturisce appare rarefatta e sognante, ma mai evanescente. La scrittura accordale si evolve secondo una teoria impressionista, dove le modulazioni si susseguono senza soluzione di continuità. Il tema, esposto con delicatezza, s’interseziona in un habit sonoro che richiama la pittura di Rothko, in cui il colore si stratifica e si trasfigura. «Where To Find It», già incluso nell’album «SuperBlue» di Kurt Elling, ferma le macchine con una riflessione musicale che si nutre di contrasti. Il tema, ispirato all’«Aung San Suu Kyi» di Wayne Shorter, s’inabissa in una struttura blues sui generis, dove le melodie pentatoniche si avvitano con talune atmosfere coltraniane. La coralità strumentale santifica una dimensione rituale, dove la batteria disegna traiettorie poliritmiche che si destabilizzano e si rinnovano, quasi per partenogenesi. Il contrabbasso, sempre presente, modella il tessuto sonoro con una puntigliosità che mira alla concretezza formale ed alla stabilità strutturale. «So Far» si solidifica come una dichiarazione d’amore post-giovanile alla musica jazz, ma anche una riflessione sul tempo, sulla distanza e sul desiderio. Risulta difficile dare un giudizio complessivo su Rielli, al netto della validità esecutiva e formale del disco che non oltrepassa di molto le dimensioni di un EP. Al prossimo passaggio discografico, consigliamo l’utilizzo di composizioni originali e meno tributarismo, ma soprattutto un affrancamento da Kurt Elling – un buon intrattenitore da festival estivi – ma lontano dalle dinamiche evolutive del jazz legato all’hic et nunc.

Stefano Rielli

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