COVER-CD-LOVELY-DAYS

Il pianoforte, trattato come strumento orchestrale, diventa veicolo di una sintesi tra verticalità e orizzontalità, tra gesto armonico e linea melodica. La gestione dell’armonia non si affida alla prevedibilità delle progressioni, ma alla capacità di evocare spazi interiori.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Lovely Day(s)», primo album in solitaria di Roberto Magris, rappresenta un momento di sintesi e di esposizione radicale. Il pianista triestino, libero da ogni vincolo di interazione strumentale, si confronta con la totalità del proprio linguaggio, mettendo in gioco una visione musicale stratificata, colta e profondamente personale. Registrato in due sessioni consecutive presso la Casa della Musica di Trieste, il disco raccoglie materiali provenienti sia dal concerto tenuto nel gennaio 2024, sia dalla seduta in studio del giorno successivo, mantenendo intatto il set-up acustico e l’energia performativa.

Lo stile armonico di Magris si distingue per una concezione espansiva e multidimensionale, che rifugge la rigidità funzionale per abbracciare una logica di apertura e di attraversamento. La sua scrittura non si limita a modulare tra centri tonali, ma tende a dissolverli, costruendo percorsi che si affidano più alla suggestione timbrica che alla risoluzione cadenzale. In «Lovely Day(s)», questa attitudine si manifesta attraverso l’uso frequente di sovrapposizioni modali, accordi politonali e progressioni che sfiorano la dissonanza senza mai perdere il senso della direzione. Magris non cerca l’effetto armonico come fine, ma come mezzo per amplificare la tensione narrativa del costrutto sonoro. L’impiego di voicings stratificati, spesso costruiti su intervalli di quarta o su cluster non convenzionali, rivela una sensibilità che guarda tanto alla tradizione afroamericana quanto alla scuola europea del secondo Novecento. Il pianoforte, trattato come strumento orchestrale, diventa veicolo di una sintesi tra verticalità e orizzontalità, tra gesto armonico e linea melodica. La gestione dell’armonia non si affida alla prevedibilità delle progressioni, ma alla capacità di evocare spazi interiori. Magris lavora su tensioni sospese, su risoluzioni ritardate, su ambiguità tonali che non disorientano, ma invitano all’ascolto. Il risultato è una scrittura che non s’impone, ma si rivela gradualmente, come un tappeto di note che si lascia attraversare.

L’opener, «Blues Clues», unica composizione originale del disco, non si limita a introdurre il programma, ma ne stabilisce la postura. Magris costruisce un impianto narrativo che alterna frasi bluesy a momenti di rubato, con incursioni boogie-woogie nel registro grave e arpeggi che sfiorano l’astrazione. Il pianoforte, trattato come strumento totale, diventa veicolo di una scrittura che non cerca la linearità, ma la molteplicità. La densità ritmica non risulta mai opaca, tanto che ogni gesto conserva una chiarezza interna, una logica di sviluppo che si affida più alla memoria che alla ripetizione. In «Bemsha Swing» di Thelonious Monk, Magris affronta il tema con una velocità che non sacrifica la precisione. Le digressioni, spesso virtuosistiche, mantengono un legame con la melodia originaria, mentre le improvvise transizioni tra contrappunto ed unisono rivelano una padronanza formale che non deborda, ma si lascia scoprire lentamente, al punto che il pianismo diventa gesto teatrale, ma senza retorica. «A Flower Is a Lovesome Thing» di Billy Strayhorn viene trattata con una delicatezza che non indulge nel lirismo. Il tema, esposto con sobrietà, lascia spazio a deviazioni armoniche che non cercano l’effetto, ma la profondità. Magris lavora su registri sovrapposti, alternando la voce interna a quella esterna, implementando un discorso che si muove tra la contemplazione e l’irruzione.

«Lonely Town» di Leonard Bernstein rivela una doppia tensione: da un lato, la malinconia del tema; dall’altro, l’irrequietezza del chorus, dove il pianoforte si fa veicolo di una gioia inquieta, mai pacificata. La scrittura si avvicina alla forma-sonata, con una gestione delle dinamiche che suggerisce una visione quasi orchestrale dello strumento. «Reverend du Bop», già presente in versione trio nel disco «Kansas City Outbound», viene qui riletto con un’intensità che ne trasforma il carattere. La prima sezione si apre come uno spazio aperto, dove Magris esplora le possibilità timbriche del pianoforte con gesti che sfiorano l’informale. La seconda parte, più strutturata, recupera il tema con una lucidità che non cancella la tensione precedente, ma la sublima. I componimenti meno frequentati del repertorio jazzistico – «Verne» di Andrew Hill, «The Time Of This World Is At Hand» di Billy Gault, «Saga Of Harrison Crabfeathers» di Steve Kuhn – testimoniano una scelta curatoriale che non cerca la citazione, ma la risonanza. Magris non interpreta, ma interroga; così ogni composizione diventa occasione per un viaggio interiore, per una riflessione sul suono, sul tempo e sulla memoria. Questa edizione, curata da JMood Records e prodotta da Paul Collins, restituisce con finezza ogni vibrazione, ogni inflessione ritmica, ogni silenzio significativo. Il suono, diretto e trasparente, permette di cogliere la qualità artigianale del gesto, la profondità del pensiero musicale e la tensione emotiva che attraversa l’intero album. «Lovely Day(s)» non documenta soltanto due giornate di registrazione, ma rivela un luogo mentale, un tempo interiore, una postura artistica. Il pianoforte non racconta, ma riflette; il solista non si esibisce, ma si espone; il jazz non si dichiara, ma si lascia abitare.

Roberto Magris

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