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Arooj Aftab

La sua voce sembra custodire ed, al contempo, dischiudere luoghi, lingue e tempi differenti, alla medesima stregua di un filo che attraversa deserti e metropoli, cortili sufi e club newyorkesi, sempre teso tra radicamento e nomadismo. In questo senso, Arooj Aftab non appare soltanto come un’interprete o una compositrice, ma un’artigiana di spazi sonori in cui l’ascolto stesso diventa un atto di migrazione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Arooj Aftab si colloca in un crocevia di geografie sonore e biografiche in cui il retaggio musicale del subcontinente indiano s’innesta su grammatiche armoniche e timbriche di matrice jazzistica, suggestioni minimaliste e vapori elettronici, generando una fisionomia espressiva che sfugge a certe agevoli tassonomie. Compositrice e cantante di origini pakistane, da anni residente a Brooklyn, la sua traiettoria creativa si nutre di un sincretismo che accoglie, in dosi calibrate, la poesia devozionale sufi, l’estasi ipnotica del raga, le rarefazioni della new age, le volute improvvisative dell’avanguardia e persino una certa sensualità sospesa, vicina alle nebbie vocali di Melanie De Biasio. Le collaborazioni con personalità come Vijay Iyer e Shahzad Ismaily. coronate dal progetto «Love in Exile» (2023), attestano una propensione a muoversi in territori di reciproca contaminazione linguistica, dove la trama collettiva talvolta rischia di eccedere in una sorta di comfort sonoro, pur restando sorretta dall’altissima perizia esecutiva dei protagonisti. In altri contesti, l’impronta di Aftab rivela affinità inattese, come una Norah Jones cresciuta ad infusioni di chai o un’eco remota delle architetture asian-jazz di Trilok Gurtu.

La stessa artista definisce la propria voce come «un’alchimia di spostamento, reinvenzione, esilio, caos, femminismo e l’esasperante fucina di amore, perdita e tragedia nel mondo». Nata a Lahore nel 1985, cresciuta tra Pakistan e Arabia Saudita, approda negli Stati Uniti nel 2005 per studiare al Berklee College of Music, intraprendendo un percorso che la condurrà, nel 2022, a divenire la prima musicista pakistana insignita di un Grammy Award, con «Mohabbat» dall’album «Vulture Prince» (2021). La sua presenza scenica si articola in un gioco dinamico di prossimità e distanza: a volte la linea vocale si dissolve nel tessuto strumentale come un timbro aggiunto, tromba o contrabbasso, altre volte si staglia nitida, evitando ogni ridondanza virtuosistica. La discografia più recente, con «Night Reign» (2024), approfondisce un immaginario notturno che non si limita alla dimensione atmosferica, ma si fa simbolo di introspezione e metamorfosi. I testi, in urdu e in inglese, si avvolgono su orchestrazioni sofisticate che intrecciano arpa, chitarra e pianoforte; in «Raat Ki Rani» e «Whiskey» emergono storie di amori non corrisposti, erranze urbane e gesti quotidiani, sospesi tra delicatezza lirica e fluidità ritmica. Il jazz statunitense vi appare filtrato da un gusto per la sospensione temporale, mentre le venature folk e i timbri acustici radicano la narrazione in una fisicità terrena. L’eclettismo della Aftab, pur spesso accostato alla world music, resiste a qualsiasi riduzione etichettaria. Il suo modus agendi costituisce piuttosto un dispositivo di transito culturale, in cui la memoria sonora di Lahore dialoga con l’orizzonte cosmopolita di New York, e dove ogni inflessione melodica diviene un atto di traduzione poetica. Non sorprende dunque che, dopo l’uscita di «Night Reign», siano giunte due nuove nomination ai Grammy, come Best Alternative Jazz Album e Best Global Music Performance, a suggello di una ricerca che, pur attraversando le coordinate del presente, mantiene una tensione verso una dimensione atemporale. In concerto, la sua voce sembra custodire ed, al contempo, dischiudere luoghi, lingue e tempi differenti, alla medesima stregua di un filo che attraversa deserti e metropoli, cortili sufi e club newyorkesi, sempre teso tra radicamento e nomadismo. In questo senso, Arooj Aftab non appare soltanto come un’interprete o una compositrice, ma un’artigiana di spazi sonori in cui l’ascolto stesso diventa un atto di migrazione.

In «Vulture Prince» (2021) la sua scrittura armonica si fonda su una predilezione per progressioni modali statiche, spesso ancorate a un centro tonale che evita risoluzioni funzionali canoniche. Brani come «Mohabbat» si dispiegano su pedali armonici e lievi oscillazioni intervallari, privilegiando il colore rispetto alla tensione–risoluzione tipica della tradizione tonale occidentale. In tale cornice, le armonie emergono più come gradienti timbrici che non come successioni logico-funzionali. Un procedimento affine a certe estetiche dell’ambient ed alle pagine minimaliste di Harold Budd o Gavin Bryars, in cui il tempo armonico si dilata fino a divenire quasi immobile. Sul piano vocale, «Vulture Prince» manifesta un uso costante della sospensione dinamica. Aftab impiega uno stampo setoso e privo di vibrato ampio, preferendo attacchi morbidi e code sonore che s’integrano nell’impasto strumentale anziché dominarlo. La voce non risulta mai declamata in maniera frontale; tende piuttosto ad insinuarsi nel tessuto orchestrale come elemento paritetico, tanto da poter essere percepita come un’ulteriore linea strumentale. Tale scelta è coerente con la poetica dell’artista, che rifiuta la centralità obbligata della voce ed opta per un orizzonte sonoro, dove le parti si fondono in un continuum. Con «Night Reign» (2024), la scrittura armonica si amplia in direzione di un maggiore dialogo con gli idiomi jazzistici contemporanei. Se «Vulture Prince» si affidava prevalentemente a pedali e droni modali, «Night Reign» introduce movimenti accordali più articolati, pur mantenendo l’assenza di cadenze marcate. In «Raat Ki Rani», ad esempio, il giro armonico alterna centri tonali contigui in intervalli di terza maggiore e minore, generando un senso di fluttuazione senza approdo. In «Whiskey» l’armonia sfrutta accordi quartali e sovrapposizioni di triadi a distanza di intervallo inconsueto, richiamando tecniche care a Wayne Shorter ed Herbie Hancock, ma depurate di qualsiasi urgenza virtuosistica. La voce, in «Night Reign», assume una funzione ancor più camaleontica. In taluni passaggi si ritrae, lasciando che strumenti come l’arpa o la chitarra definiscano la cornice armonica; in altri, emerge con un fraseggio più marcato, pur senza mai abbandonare la levigatezza timbrica. L’intonazione, sempre precisissima, è arricchita da micro-inflessioni melodiche che attingono alla pratica ornamentale del qawwali e della musica classica dell’India settentrionale, sebbene inserite in un contesto accordale di impronta occidentale. Questo sincretismo timbrico e melodico è reso più incisivo dall’uso calibrato di riverberi e spazializzazioni, che collocano la voce in un ambiente sonoro tridimensionale, accentuando la percezione di sospensione e distanza. L’elemento distintivo di entrambi i lavori, ma in particolare di «Night Reign», risiede nella capacità di Aftab di trasformare la voce in una sorta di strumento armonico implicito: pur non enunciando accordi, la linea vocale suggerisce tensioni e rilassamenti che vengono poi accolti, o sottilmente contraddetti, dagli strumenti circostanti. Questo procedimento, in cui il canto diventa agente modulante della percezione tonale, avvicina il suo lavoro a certe esperienze di jazz cameristico europeo e alla scrittura vocale di Meredith Monk, ma con una componente lirica e melodica più pronunciata. La differenza strutturale fra «Vulture Prince» e «Night Reign» risiede nell’evoluzione dall’armonia sospesa e modale verso una tessitura più mobile, benché sempre priva di cadenze funzionali tradizionali; e nella progressiva libertà della voce di oscillare fra ruolo solistico e funzione strumentale. Entrambi i lavori si inscrivono in una poetica della lentezza e dell’attenzione, in cui ogni suono viene concepito come evento autonomo ma intimamente collegato al respiro complessivo della composizione.

Le influenze di Arooj Aftab legate al jazz afro-americano sono meno dirette di quelle di un’interprete immersa fin dall’inizio in quel linguaggio, ma risultano profonde e selettive, filtrate attraverso un’estetica contemplativa ed ibridata con le tradizioni del subcontinente indiano. Non si tratta di un’adesione idiomatica al bebop o al mainstream post-bop, bensì di un’assimilazione di alcuni principi cardine del modern jazz e delle sue avanguardie, che poi riplasma all’interno di un contesto sonoro trans-culturale. Sul piano armonico e compositivo, la sua scrittura rivela – come spiegato – un’attenzione per le strutture modali e per l’uso di accordi sospesi e quartali, soluzioni che trovano corrispettivi nella lezione di Miles Davis e di Wayne Shorter. In particolare, il Davis di «Kind Of Blue» e il Shorter di «Speak No Evil» o «Adam’s Apple» sono punti di riferimento impliciti, dove la centralità dell’atmosfera, la predilezione per la sottrazione ed il gusto per ambiguità tonali lasciano respirare la melodia. Dal punto di vista timbrico e dell’arrangiamento, si possono intravedere affinità con la scuola dell’ECM e con il pianismo cameristico di Keith Jarrett o il lirismo di Charles Lloyd, specialmente nel modo in cui Aftab integra strumenti acustici, amplificando lo spazio tra le note. Tale sensibilità si lega anche alla capacità di trattare il silenzio come materia musicale, un approccio che richiama il Bill Evans più meditativo o certe rarefazioni di Paul Motian. Sul versante vocale, pur non derivando da tradizioni scat o blues-based, Aftab ha assimilato la lezione di interpreti afro-americane che hanno ridefinito il rapporto fra voce e ensemble. In questo senso, Abbey Lincoln e Cassandra Wilson offrono modelli di libertà espressiva e di profondità timbrica: la prima per la capacità di fondere impegno poetico e ricerca sonora; la seconda per l’uso di tessiture gravi e un fraseggio parlato-cantato che destabilizza i confini tra canto e narrazione. L’aspetto improvvisativo della sua poetica, pur non sviluppandosi in assoli estesi, risulta debitore delle pratiche di ascolto reciproco ed interplay tipiche delle formazioni afro-americane. Qui si coglie l’eredità di un’idea di jazz come dialogo in tempo reale, piuttosto che come mera esposizione tematica. Un principio che Aftab applica nelle interazioni con musicisti come Vijay Iyer e Shahzad Ismaily, dove il materiale sonoro si costruisce e si trasforma nell’atto stesso dell’esecuzione.

La relazione ideale fra Aftab e Lincoln non risiede in una somiglianza timbrica, quanto in una comune concezione della voce come veicolo narrativo e filosofico. Lincoln, a partire da «Straight Ahead» (1961), ha ridefinito il ruolo della cantante jazz non come interprete decorativa, ma come autrice di un discorso poetico e politico, fondendo l’intensità del testo con un fraseggio che poteva farsi spigoloso, persino volutamente non levigato. Aftab condivide questa centralità della parola come nucleo di senso, pur adottando un’estetica opposta sul piano sonoro: se Lincoln usava un’emissione talvolta aspra e una dinamica drammatica, Aftab predilige un registro vellutato, privo di bruschi contrasti, quasi meditativo. In entrambe, tuttavia, la melodia non è mai mero abbellimento, ma ogni nota è portatrice di significato extramusicale, ancorata a un immaginario letterario e ad una visione del mondo. Con Wilson la parentela appare più stretta sul versante timbrico ed atmosferico. Nelle sue prove più celebri («Blue Light ’Til Dawn», 1993 e «New Moon Daughter», 1995), Wilson ha rinnovato il jazz vocale infondendovi una densità armonica mutuata dal blues, dalla folk-song e dagli idiomi rurali afro-americani, filtrati attraverso arrangiamenti spaziosi ed a bassa densità orchestrale. Aftab opera un processo affine, sostituendo alla matrice blues il repertorio melodico-ornamentale del qawwali e della musica classica dell’India settentrionale. Entrambe usano l’abbassamento del centro tonale vocale (tessitura medio-grave) come cifra espressiva e mantengono una dizione rilassata, lontana da virtuosismi ornamentali gratuiti. Inoltre, condividono la pratica di collocare la voce all’interno dell’ensemble come un elemento timbrico interdipendente, piuttosto che come fulcro costante dell’attenzione. Il nesso ideale fra Arooj Aftab e alcune figure cardine del jazz afro-americano come Abbey Lincoln e Cassandra Wilson non si riduce ad un parallelismo superficiale di stile, ma si fonda su affinità di visione e di poetica, pur nella distanza delle coordinate culturali e geografiche. Il tratto comune alle tre è il rifiuto della voce intesa come spettacolo tecnico. In tutte, il canto si sostanzia quale strumento narrativo e luogo di incontro fra memoria ed invenzione. Divergono, invece, le matrici di riferimento: la Lincoln risulta radicata nell’esperienza afro-americana e nel fervore politico del suo tempo; Wilson legata alla sedimentazione del blues ed alla ruralità del sud statunitense; Aftab collocata in un crocevia diasporico in cui Lahore, New York ed i linguaggi del jazz contemporaneo s’intrecciano senza che uno prevalga in maniera definitiva. In questo senso, il rapporto di Aftab con il jazz afro-americano non è imitativo né derivativo, ma dialogico, assorbendo dal modern jazz e dalle sue voci più consapevoli l’attenzione per la qualità timbrica, per lo spazio sonoro come elemento compositivo e per la funzione della voce come agente narrativo e rielaborando il costrutto sonoro entro un orizzonte che appartiene pienamente al XXI secolo ed alla condizione transnazionale dell’artista.

Arooj Aftab si colloca in una geografia musicale globale in cui le traiettorie diasporiche del XXI secolo hanno generato linguaggi ibridi, spesso refrattari a classificazioni tradizionali, nonché capaci di mettere in discussione la stessa nozione di appartenenza culturale. Rispetto a molti fenomeni analoghi in ambito americano ed europeo, il suo lavoro si distingue per la capacità di tenere in equilibrio tre dimensioni che, nelle produzioni di altri artisti, tendono talvolta a prevalere l’una sull’altra: la fedeltà alla memoria culturale d’origine, l’assimilazione consapevole delle forme musicali occidentali e l’elaborazione di un’estetica personale riconoscibile. Nel contesto statunitense, figure come Somi o Meshell Ndegeocello hanno saputo far dialogare radici africane o afro-caraibiche con jazz, soul e sperimentazioni elettroniche. Aftab si muove in un territorio affine, ma evita deliberatamente la dimensione performativa più energica o politicizzata che caratterizza alcune di queste esperienze, optando invece per una poetica rarefatta, quasi meditativa, in cui il gesto musicale risulta sempre contenuto e sottratto. Se Somi può incarnare la diaspora come testimonianza e racconto, Aftab tende ad incarnarla come contemplazione e sospensione. In Europa, il panorama offre esempi come Dhafer Youssef, Anouar Brahem o Nitin Sawhney, musicisti che intrecciano tradizioni mediorientali o sudasiatiche con il jazz europeo e la musica elettronica. Anche qui Aftab presenta punti di contatto, in particolare con la spiritualità quasi ascetica di Brahem, ma introduce una centralità della voce come strumento timbrico primario, laddove molti di questi progetti mantengono una prevalenza strumentale. La sua scrittura, inoltre, appare meno incline alla polifonia ritmica complessa di certi ensemble europei legati al jazz mediterraneo e più orientata verso l’uso del tempo lento, sospeso, ereditato tanto dalla musica modale indiana quanto da certa avanguardia minimalista occidentale. Rispetto ad altri artisti diasporici che puntano su una forte teatralità identitaria, spesso rivendicata anche visivamente e concettualmente, Aftab si muove con un’identità meno “dichiarata” e più sotterranea. La sua appartenenza culturale non si manifesta come segno di riconoscimento immediato, ma come tessitura profonda, percepibile nel disegno melodico, nella scelta della lingua. Questo le consente di dialogare con pubblici e musicisti di aree geografiche differenti senza incorrere nel rischio di esotizzazione, che talvolta accompagna le narrazioni sulla diaspora in ambito europeo e nordamericano. In definitiva, Aftab non si limita ad inserirsi nel flusso delle musiche diasporiche contemporanee, ma ne rappresenta una declinazione in cui la globalità non è somma di elementi esotici, ma condizione di base del processo creativo. Il suo operato dimostra come la diaspora, nel terzo millennio, possa diventare non solo un tema narrativo o un dato biografico, ma un vero e proprio principio compositivo, capace di generare spazi sonori in cui le geografie si dissolvono e ciò che resta è un lessico emotivo universale.

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