«In To Not Forget The Stars»: orbite e risonanze, un viaggio musicale con Zennaro e Scandroglio (Auand, 2025)

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Una traiettoria in cui ogni episodio costituisce un’orbita distinta attorno a un nucleo tematico comune: la ricerca di un altrove sonoro capace di evocare il cielo, la memoria e la distanza, senza mai ridursi a mera illustrazione evocativa, ma esperienza immersiva, un dispositivo di ascolto e contemplazione che sospende il tempo e riporta lo sguardo verso l’alto.

// di Cinico Bertallot //

«In To Not Forget The Stars», Luca Zennaro e Michelangelo Scandroglio proseguono e approfondiscono un sodalizio già germinato in «Gently Broken» (Auand, marzo 2024), ora pienamente consacrato in un progetto che si colloca all’intersezione fra ricerca timbrica e meditazione poetica. L’album, pubblicato ancora una volta sotto l’egida di Auand Records e sostenuto dal contributo di Nuovo Imaie, si configura come un itinerario sonoro e visivo al contempo, capace di evocare l’ampiezza siderale ed il fascino inafferrabile della volta notturna.

Il duo – Scandroglio al basso elettrico e ai samplers, Zennaro alla chitarra e agli apparati elettronici – si avvale di una compagine strumentale che ne amplifica la visione: Stefano «Beko» Bechini, artefice di un sofisticato intreccio di batteria, sintetizzatori e sound design; Edoardo Battaglia, cui si devono interventi percussivi di calibrata energia; e un nucleo di ospiti illustri quali Francesco Bearzatti, Federico Calcagno, Simone Graziano e Alessandro Lanzoni, ciascuno portatore di un apporto idiomatico distinto. L’ordito musicale, intessuto di elementi provenienti dal jazz, dal folk e da un certo minimalismo contemporaneo, procede per stratificazioni sottili ed aperture improvvise, rifiutando ogni irrigidimento categoriale. Ne emerge un paesaggio acustico in cui ogni fraseggio sembra tendere verso un orizzonte immateriale, dove la melodia non si limita a descrivere, ma si erge a vera e propria cartografia dell’altrove. Le composizioni originali, affidate ora a Zennaro ora a Scandroglio, si dispiegano come frammenti di un unico racconto astrale: un continuum narrativo che non conosce soluzione di continuità fra contemplazione e tensione dinamica. Il titolo stesso, To Not Forget the Stars, rivela la matrice concettuale del progetto. Come afferma Zennaro, esso intende preservare il legame con ciò che resta remoto e intangibile, ma nondimeno presente nella coscienza collettiva: le stelle come custodi silenziose della memoria umana, come depositarie di sogni e inquietudini. Scandroglio vi riconosce una dichiarazione d’intenti, un gesto di resistenza alla dissipazione dell’essenziale, un invito a sostare nell’enigma e a riconoscere la bellezza che alberga nell’ignoto. Questa tensione alla trascendenza trova espressione nella varietà timbrica dei singoli episodi. Ogni sezione sembra affacciarsi su un diverso firmamento, pur rimanendo parte integrante di una costellazione unitaria.

In apertura, «Somewhere In Between» di Michelangelo Scandroglio introduce immediatamente la cifra poetica dell’album: un andamento sospeso, quasi anfibio, che si muove fra densità armoniche e rarefazioni improvvise. Il basso elettrico non assume soltanto un ruolo fondativo, ma agisce come guida narrativa, alternando fraseggi lirici a impulsi ritmici di sottile irregolarità. Le chitarre di Zennaro, ora eteree ora granulate da effetti di modulazione, dialogano con un tessuto elettronico che non invade mai, ma vela e sfuma i contorni, suggerendo un orizzonte in perenne mutamento. La forma si sviluppa per accumulo di micro-cellule, più che per progressione lineare, e questo accentua l’impressione di trovarsi in uno spazio intermedio, fra sogno e veglia. «I Hope It Works» si colloca su un versante più intimo e introspettivo, quasi un appunto diaristico trasformato in linguaggio musicale. Qui la chitarra di Zennaro assume la funzione di voce narrante, intessendo linee melodiche che sembrano farsi e disfarsi nella stessa misura. L’uso parco della batteria crea un senso di sospensione, come se il tempo metrico fosse una variabile elastica. Le armonie si muovono per gradi impercettibili, evitando risoluzioni definitive, e ciò produce un clima emotivo di attesa e incertezza, in perfetta coerenza con il titolo. La title-track, «To Not Forget the Stars», si presenta come una dichiarazione estetica: ampio respiro formale, sviluppo graduale delle dinamiche, interplay calibrato fra il basso di Scandroglio e il clarinetto di Federico Calcagno, la cui timbrica vellutata diviene il centro emotivo della composizione. L’andamento modulare e la reiterazione di cellule melodiche agiscono come un mantra, favorendo un ascolto contemplativo. L’effetto è quello di una lenta ascensione, in cui ogni intervento strumentale appare come una nuova stella che entra nel campo visivo.

«Is This Real?» apre invece una prospettiva più ambigua e cangiante. Il prepared piano e i sintetizzatori di Simone Graziano creano un paesaggio sonoro che oscilla fra riconoscibilità tonale e distorsione percettiva, come se la materia musicale venisse costantemente deformata da una lente convessa. Le figure ritmiche frammentate e la sovrapposizione di pattern asimmetrici generano un senso di instabilità voluta, sottolineando la natura interrogativa del titolo. In «I Don’t Like Your Weird Stuff», la complicità tra chitarra, basso e sax tenore di Francesco Bearzatti produce un’energia quasi teatrale. L’elemento ritmico diventa propulsivo, talvolta persino polemico, sostenuto da un sound design che inserisce frammenti di rumore controllato e micro-loop digitali. Formalmente, il brano si avvale di contrasti improvvisi fra episodi di compattezza timbrica e spazi di rarefazione estrema, creando un gioco di tensione e rilascio che si avverte anche sul piano emotivo, fra ironia e frizione. «Ghost In Seoul» adotta una prospettiva più notturna e cinematografica. Il basso elettrico tesse una linea quasi ipnotica, mentre le armonie di Graziano, fra Rhodes e sintetizzatori, producono riflessi cangianti, simili a luci urbane riflesse sull’asfalto bagnato. Le pulsazioni ritmiche, più che scandire, suggeriscono, e l’atmosfera complessiva rimanda a un’immagine in movimento, sfocata e inafferrabile, che resta impressa per la sua qualità onirica. In «Westside», Alessandro Lanzoni al piano introduce un lirismo ampio, quasi cantabile, che si intreccia con le linee elettriche di Zennaro. La costruzione formale procede per aperture progressive, lasciando che l’armonia si dilati e respiri, fino a lambire momenti di intensa coralità strumentale. Il brano, pur radicato in una matrice jazzistica, si lascia attraversare da influssi urbani e cinematografici, fondendo spontaneità improvvisativa e precisione compositiva. La chiusura affidata a «Bul Ma Nak» condensa l’intero arco espressivo del disco: il tema iniziale, pronunciato dal sax di Bearzatti, agisce come epigrafe, subito avvolta da una trama di chitarra e basso che si muove fra pulsazioni regolari e scarti improvvisi. L’impianto armonico, volutamente non conclusivo, lascia l’ascoltatore in una sospensione rarefatta, come se il viaggio verso le stelle restasse in corso, senza approdare a un punto fermo. È una chiusa che rinuncia alla retorica della risoluzione per mantenere aperto lo spazio della contemplazione.

Così, la sequenza delle otto tracce non appare come una semplice giustapposizione, ma come un’unica traiettoria in cui ogni episodio costituisce un’orbita distinta attorno a un nucleo tematico comune: la ricerca di un altrove sonoro capace di evocare il cielo, la memoria e la distanza, senza mai ridursi a mera illustrazione evocativa, ma esperienza immersiva, un dispositivo di ascolto e contemplazione che sospende il tempo e riporta lo sguardo verso l’alto. Un concept che, per ampiezza di visione e finezza esecutiva, si colloca in quel territorio raro in cui la musica riesce a farsi fenomenologia del cielo.

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