Poetiche del disincanto: Carla Bley e le genealogie femminili della composizione jazz

Carla Bley
Passando dalla molteplicità dissonante al minimalismo timbrico, l’evoluzione della scrittura di Carla Bley non obbedisce ad un percorso lineare di affinamento tecnico o di progressiva rarefazione stilistica, quanto piuttosto a una dialettica interna tra proliferazione e sottrazione, tra eccentricità polifonica ed essenzialità discorsiva.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel vasto atlante del jazz novecentesco, costellato da voci femminili spesso costrette ad imporsi nei territori dell’interpretazione vocale o dell’eccellenza strumentale, la figura di Carla Bley si staglia come un’irregolarità radicale. Non tanto per l’originalità timbrica o per l’audacia sperimentale, pure innegabili, quanto per la tenacia con cui ha saputo esercitare il pensiero compositivo come gesto critico, architettonico e lucidamente antigerarchico. La scrittura, sempre inquieta, costantemente obliqua, non si limita ad occupare uno spazio nel canone jazzistico, ma lo problematizza, lo mette in scena e lo scardina dall’interno. Questo mia analisi si propone di ricostruire – per traiettorie incrociate e non per linee genealogiche rigide – la posizione di Bley nel contesto delle scritture femminili postbelliche e contemporanee, fino ad approdare a figure come Stefania Tallini, nei cui lavori si avverte un’eco consapevole di quella medesima esigenza di interrogare il suono come spazio drammaturgico e significante, e non semplicemente come veicolo emotivo o identitario.
Figura sui generis nell’alveo del jazz contemporaneo, Carla Bley, nata Lovella May Borg ad Oakland, 11 maggio 1936 e scomparsa a Willow, 17 ottobre 2023,ha attraversato oltre cinque decenni di fermenti estetici senza mai aderire pedissequamente ad una scuola o ad una poetica dominante, bensì elaborando un lessico compositivo personalissimo, dove ironia e disincanto convivono con uno spiccato rigore formale. A volte aassociata al movimento free jazz degli anni sessanta, per la collaborazione con la Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e con artisti come Steve Lacy, Don Cherry, Roswell Rudd, Jack Bruce, Robert Wyatt e con il batterista dei Pink Floyd Nick Mason, il suo excursus, in apparenza disinvolto e talvolta volutamente eccentrico, cela in realtà un controllo strutturale meticoloso, mutuato tanto dalla musica colta europea del Novecento quanto dalla prassi improvvisativa afroamericana. In tale interstizio – tra l’irriverenza dadaista e la compostezza della forma-sonata – si situa la sua originalità, refrattaria tanto all’accademismo quanto al dilettantismo. In Carla Bley, il concetto stesso di orchestrazione assume una valenza quasi drammaturgica; non si tratta mai di semplice distribuzione timbrica, bensì di un vero e proprio gioco teatrale tra le sezioni strumentali, le quali si rincorrono, si mimano e si sabotano. Le sue partiture per big band, spesso animate da un umorismo caustico, sovvertono le gerarchie canoniche dell’arrangiamento jazzistico, preferendo invece una disposizione narrativa del suono, prossima alla logica del montaggio cinematografico. Ne risulta una scrittura mobile, stratificata ed incline alla citazione colta come al pastiche, ma sempre guidata da un’intelligenza critica che non indulge mai al compiacimento fine a sé stesso.
Artista di formazione autodidatta, ma sorretta da una cultura musicale vasta e non convenzionale, Bley ha saputo coniugare l’urgenza sperimentale dell’avanguardia newyorkese con una visione squisitamente compositiva, tanto da rendere ogni sua opera un laboratorio d’idee più che una semplice occasione performativa. A 21 anni sposa il pianista canadese Paul Bley, del quale manterrà il cognome anche dopo il divorzio, ma sarà il morganatico artistico con Paul Haines – che diede vita all’ambizioso e straniante oratorio «Escalator Over The Hill» – a segnare uno snodo decisivo nella sua traiettoria, non soltanto per la vastità dell’organico impiegato, quanto per l’ibridazione linguistica tra jazz, rock, musica concreta e teatro sonoro. In questo ciclo monumentale si coglie appieno la sua volontà di sovvertire le coordinate del genere, trasformando la suite jazzistica in una sorta di Gesamtkunstwerk postmoderno (opera d’arte totale). Sebbene il suo strumento d’elezione sia il pianoforte, la Bley non ha mai concepito la tastiera come fulcro virtuosistico o solistico, bensì come punto d’innesto, quale nucleo gravitazionale armonico da cui si dipanano le traiettorie degli altri strumenti. La presenza scenica, misurata ma incisiva, riflette la stessa attitudine di un pensiero musicale sobrio, ironico ed inclassificabile. Nell’ambito del jazz europeo, la sua influenza si è irradiata silenziosamente, sedimentandosi in quell’area liminare dove la scrittura orchestrale dialoga con l’improvvisazione senza subordinarsi ad essa.
Anziché rifugiarsi nel manierismo di una poetica consolidata, Bley ha saputo rinnovare costantemente il proprio linguaggio, spostando l’asse del discorso musicale verso una pluralità di registri: il lirismo spiazzante, la tensione centrifuga e la visionarietà surreale. Ogni ciclo compositivo agisce come un prisma critico attraverso cui rifrangere le convenzioni del jazz e della musica colta, senza mai cadere in un sincretismo innocuo. In lei si manifesta una forma di libertà intellettuale rara, ossia quella che non ostenta la trasgressione, ma la esercita con levità, con una sapienza artigianale che nulla concede all’estemporaneità vacua. La sua musica, apparentemente svagata, si rivela spesso architettonica, fitta di rimandi impliciti, a tratti volutamente sfuggente. In questo risiede, forse, la sua eredità più duratura: nella capacità di ridefinire i confini del jazz non attraverso lo scontro ideologico, bensì per mezzo di un’ironia lucida, di un’intelligenza compositiva che sa farsi teatro, critica, metafora. Ecco, dunque, Cinque fra i suoi dischi fondamentali, osservati attraverso una lente musicologica che intreccia analisi strumentale, emozionale e pentagrammatica, con riferimenti accordali e costrutti formali.
Più che un semplice album, «Escalator Over The Hill» (1971) si sostanzia come un’epopea sonora postmoderna, un oratorio anarcoide in cui il jazz da camera si fonde con frammenti di rock psichedelico, musique concrète, cabaret brechtiano e visioni da teatro dell’assurdo. Il tessuto orchestrale risulta spesso deliberatamente eterogeneo, dove sezioni di fiati sgraziati si contrappongono a tappeti vocali stratificati, mentre cellule ritmiche ipnotiche (basate su figure iteranti di semiminime in 6/8 o 12/8) sorreggono strutture armoniche in cui la tonalità si sgretola a favore di campi modali mobili. In «Hotel Overture», Bley fa uso di accordi politonali stratificati (es. un Fm7 sovrapposto a una triade di D maggiore), generando un senso di instabilità narrativa che anticipa la frammentazione emotiva dell’intero lavoro. Il contrappunto tra voci e strumenti, più teatrale che contrappuntistico in senso stretto, evoca la logica del Singspiel più che la forma-sonata. L’effetto complessivo è quello di un’opera totale che, pur nella sua apparente dispersione, denuncia un rigore strutturale degno di un Frank Zappa in vena sinfonica. Con «Dinner Music» (1976), Carla abbandona il gigantismo teatrale per esplorare un linguaggio più intimo, che si serve di organici ridotti ma altrettanto articolati, in bilico tra il jazz da salotto e la parodia orchestrale. Il tono, apparentemente disimpegnato, appare attraversato da una sottile vena malinconica: si pensi all’uso dell’organo elettrico Hammond, che Bley manipola con consapevolezza timbrica, dosando glissandi e vibrati come tratti calligrafici su una tela impressionista. Dal punto di vista armonico, l’album mostra una predilezione per accordi sospesi, spesso su pedali statici (si noti l’uso reiterato del quartalismo, in particolare combinazioni di 4e giuste ed aumentate sovrapposte), che creano un senso di stasi contemplativa. In «Song Sung Long», ad esempio, la sezione centrale ruota attorno a un campo tonale di C Lydian, con il basso fisso sul C e la sovrapposizione di F#maj7 e G6/9, producendo una tensione rarefatta, quasi cinematografica.
«Social Studies» (1981) segna un momento di austerità strutturale ed al contempo di raffinatezza poliritmica. La pianista affina la scrittura per piccoli ensemble ampliati, rinunciando agli eccessi teatrali in favore di una narrazione musicale più geometrica. «Reactionary Tango» rappresenta forse il motivo più emblematico, un tango che si autodissolve, decostruendosi in fasi successive, ciascuna delle quali esplora un diverso livello ritmico o timbrico del materiale iniziale. La composizione si apre su una ostinato in 5/8, deformazione del consueto 2/4 tanguero, su cui la melodia, affidata al sax tenore, si libra con intervalli spezzati e cromatismi obliqui. A livello armonico, Bley impiega modulazioni non funzionali, che non obbediscono a progressioni tonali canoniche, ma piuttosto a un principio di slittamento atmosferico (es. passaggi da E♭m a Gm7 senza cadenze di quinta, ma per pivot tonali interni). Il senso generale è quello di uno humour rarefatto, una parodia strutturale più che tematica. In «The Very Big Carla Bley Band» (1991), Carla riscopre l’organico della big band, ma lo trasfigura in una macchina narrativa opulenta, stratificata, mai compiaciuta. Il suo trattamento dell’orchestra jazz non è mai convenzionale, poiché evita il call-and-response ed i riff tradizionali per privilegiare l’alternanza di blocchi timbrici, spesso composti da sottogruppi atipici, ad esempio, l’unione di trombone basso, clarinetto contrabbasso e tuba, tesi a creare bordoni cavernosi, come in «All Fall Down». Il fraseggio melodico appare ironicamente angoloso, mentre l’uso sistematico di intervalli di settima maggiore e nona aumentata nelle linee principali genera un senso di deragliamento tonale, volutamente anti-cantabile. Nei brani più articolati, ella mette in atto una forma di contrappunto cinetico, in cui ogni sezione dell’orchestra si materializza come un personaggio autonomo, dotato di un proprio gesto ritmico e armonico. Così sovrapposti, tali frammenti producono un effetto di collasso controllato, quasi una sinfonia caotica per archetipi jazzistici. «Trios» (2013), frutto di una lunga collaborazione con Andy Sheppard e Steve Swallow, rappresenta una sorta di apoteosi della scrittura intimista, tutta giocata su respiri, silenzi, microvariazioni timbriche. L’assenza della batteria obbliga i musicisti a ridefinire il concetto di pulsazione interna, in cui è lo spazio tra gli attacchi a creare il groove, più che il ritmo stesso. In «Les Trois Lagons», Bley costruisce una forma tripartita in cui ogni sezione risulta basata su un differente modo (E Dorian, B♭ Mixolydian, G Lydian augmented), ma con un comune senso di sospensione e ambiguità tonale. A livello accordale, domina l’uso di voicing aperti, spesso quartali o con sovrapposizioni di triadi distanti (come B♭ e E♭ in stato fondamentale combinati a creare uno spettro armonico ambiguo). Il pianoforte diventa più che mai un veicolo per il silenzio, in cui le frasi sono brevi, smozzicate, tanto che la Bley sembra interessata a quello che non suona, in una sorta di zen compositivo che riecheggia certe rarefazioni tardo-debusiane. L’emozione è quella di un’intimità spoglia, disadorna, e per questo tanto più penetrante. Passando dalla molteplicità dissonante al minimalismo timbrico, l’evoluzione della scrittura di Carla Bley non obbedisce ad un percorso lineare di affinamento tecnico o di progressiva rarefazione stilistica, quanto piuttosto a una dialettica interna tra proliferazione e sottrazione, tra eccentricità polifonica ed essenzialità discorsiva. Più che un cammino di maturazione, si tratta di una trasformazione strategica dell’ironia in struttura e del gioco in forma.
Nel panorama del jazz postbellico Carla Bley appare come un’anomalia lucida e resistente, difficilmente assimilabile ai paradigmi entro cui si è soliti inquadrare le musiciste – e ancor più le compositrici – nella storia del jazz. Il suo percorso non è mai stato né quello della vocalist riconvertita, né quello della strumentista militante in territori prevalentemente maschili. Ella ha esercitato sin da principio una funzione di compositrice-regista, più prossima alla figura del demiurgo che a quella dell’interprete. In tal senso, le relazioni, i contrasti e le differenze con altre figure femminili del jazz novecentesco e contemporaneo si caricano di implicazioni tanto estetiche quanto strutturalmente politiche. Se si vuole trovare un antecedente possibile, si deve guardare a Mary Lou Williams, la prima vera compositrice-arrangiatrice nel jazz afroamericano con piena autonomia strutturale. Ma le due donne operano in contesti differenti: la Williams agiva ancora all’interno di una sintassi fondamentalmente swing, anche quando si spingeva verso soluzioni modali o anticipava tangenze dodecafoniche nei suoi lavori più tardivi. La sua scrittura resta ancorata a una logica funzionale, anche nella sperimentazione. Bley, invece, si emancipa completamente da ogni criterio di derivazione idiomatica, non evolve dal jazz, lo deforma fin dall’origine, lo osserva dall’esterno, come un linguaggio culturalmente già sedimentato e dunque potenzialmente disarticolabile. Dove la Williams tende alla trasfigurazione spirituale (pensiamo al «Zodiac Suite» o ai brani liturgici del periodo «Harlem Renaissance»), Bley si muove in una dimensione profana, ironica e demistificante.
Più radicale e simbolico è il confronto con Alice Coltrane, la cui traiettoria appare tutta interna ad una spiritualità sonora che trasforma il jazz in misticismo cosmico. Alice Coltrane scrive e suona come se il jazz fosse un veicolo verso l’altrove, fondendo il linguaggio modale ereditato da marito John con suggestioni vedantiche, scale indiane, arpeggi arcaici. L’uso dell’arpa e dell’organo è estatico, rituale, lontanissimo dalla teatralità urbana e grottesca di Carla Bley. Bley non cerca l’ascesi ma il sabotaggio; non spiritualità ma sovversione semantica. Laddove Alice tende a elevare il linguaggio musicale a rito, Carla lo disinnesca, lo decostruisce, ne espone le impalcature. È la differenza tra una liturgia ed una satira. Entrambe costruiscono mondi paralleli al jazz dominante, ma di segno opposto, ossia uno sacrale, l’altro caustico. La figura di Geri Allen, brillante pianista e compositrice attiva soprattutto tra gli anni ’80 e 2000, rappresenta una traiettoria alternativa che unisce l’eredità afroamericana (da Herbie Hancock a Betty Carter) con uno slancio post-free e post-bop. La sua scrittura armonica risulta densissima, stratificata, ma sempre interna ad un discorso jazzistico organico. Allen è un’intellettuale del pianoforte, ma il suo progetto resta lirico, sebbene avanguardistico. Con Carla Bley, pur condividendo l’interesse per la complessità formale, manca la componente teatrale, lo scarto comico, la torsione parodica. Allen è figlia del jazz come continuum, Bley è una mutante del linguaggio, con un piede nel Dada e l’altro nel cabaret. Un paragone interessante sul piano orchestrale potrebbe essre quello con Maria Schneider, che negli ultimi trent’anni ha ridefinito il ruolo della compositrice per big band nel jazz contemporaneo. Ma la Schneider, pur nella sofisticazione armonica (profondamente influenzata da Gil Evans), agisce in una chiave lirico-paesaggistica, dove l’orchestrazione diventa ecfrasi atmosferica, quasi cinematografica. Bley, al contrario, usa la big band per creare strutture ironicamente sovversive: gli unisoni vengono sabotati, le sezioni strumentali si rincorrono come in una parodia della retorica orchestrale. Se Schneider costruisce epifanie sonore (basti pensare a «Sky Blue«), Bley produce narrative oblique, spiazzanti ed anti-epiche.
L’eventuale erede di Carla Bley non va cercata tanto tra le orchestratrici raffinate o le pianiste «intellettuali« del nostro tempo, quanto tra quelle figure che vedono nel jazz un linguaggio da deformare, un contenitore da esplodere, non da «rappresentare«. Un nome possibile, sebbene ancora in formazione, è quello della svedese Lina Nyberg, che lavora con organici eterogenei e tende a piegare la vocalità e l’orchestrazione verso strutture meta-narrative, con ironia sottile e forte coscienza formale, ma non ne ha, forse ancora, la radicalità visionaria. Un altro possibile punto di contatto si trova in Nicole Mitchell, soprattutto nei lavori con l’Ensemble Black Earth, dove l’uso dell’ensemble come dispositivo narrativo, la centralità della scrittura rispetto alla performance, e l’attenzione al collage politico-sonoro hanno una prossimità d’intenti con Bley, sebbene virati verso una matrice afro-futurista. Tuttavia, ad oggi, nessuna figura femminile – e pochissimi compositori tout court – sembrano ereditare davvero l’insieme di variabilità compositiva, sarcasmo strutturale e libertà anarchica che definisce Carla Bley. La sua posizione resta irriducibilmente singolare, non solo per il suo essere donna in un mondo maschile, ma per il suo sguardo obliquo, che ha fatto del jazz non una casa, ma un teatro da sovvertire, una lingua da tradurre in commedia, in sogno ed in macchina scenica.

L’accostamento tra Carla Bley ed una figura come Stefania Tallini – pur nella distanza di contesto, generazione e tradizione idiomatica – non è arbitrario, soprattutto se si considerano alcuni nuclei poetici comuni: la centralità del gesto compositivo, una visione del pianoforte non ridotta a puro veicolo espressivo ma pensata come struttura portante, e soprattutto una sensibilità per l’intreccio tra musica e narrazione, talvolta verbale, talvolta implicita, che avvicina la scrittura alla scena, al gesto teatrale, alla drammaturgia. Raffronti possibili possono essere enucleati dalla poetica del piano quale tessuto narrativo. Come Bley, anche Tallini si pone in una posizione liminale tra generi, senza la preoccupazione di rientrare in un’estetica predefinita. Entrambe rifiutano l’idea di «jazz» come recinto idiomatico. Bley ne sovverte i codici attraverso l’ironia e la sovrapposizione postmoderna di stili, mentre Tallini lo espande attraverso moduli compositivi mutuati dalla musica colta europea, dalla canzone d’autore, dalla tradizione brasiliana e dalla forma poetica. Se Bley ha fatto dell’organico orchestrale un teatro di maschere timbriche, Tallini si muove verso una raffinata espressione cameristica della suggestione. Il suo uso del pianoforte – si pensi a dischi come «Intimidade» o «Musica con Vista» – privilegia la scrittura armonica stratificata, spesso mediante voicing aperti, bicordi sospesi, progressioni non funzionali che costruiscono un senso di tempo armonico dilatato, affine per certi versi alla rarefazione degli ultimi lavori di Bley («Trios» su tutti). In entrambi i casi, il piano è più tela che pennello:ù, uno spazio in cui si stagliano le altre presenze sonore (voce, fiati, elettronica e testi poetici). Un altro punto di contatto è l’interesse per la multidisciplinarità e drammaturgia del suono. Se Bley ha incorporato nella sua poetica elementi teatrali, poetici, cinematografici – basti far mente locale su «Escalator Over The Hill» come ad un oratorio dadaista contaminato dal cabaret e dal free jazz – anche Tallini ha cercato, specie negli ultimi anni, di innestare il suo universo musicale in forme ibride, con concerti che diventano dialoghi tra voce, testo, gesto ed immagini; opere da camera in forma di racconto sonoro; interazioni con la parola poetica che non fungono da mera giustapposizione, ma da tessuto polifonico parallelo. Nei progetti che fondono musica e poesia («Riflessi», ad esempio), Stefania dimostra un’intenzione affine a quella di Carla, ossia la predisposizione a comporre spazi sonori narrativi, che non si limitano ad esprimere, ma che metabolizzano linguaggi ed operano per trasformazione reciproca. Tuttavia, alcune differenze restano significative. La scrittura di Bley è intrinsecamente politica, nel senso brechtiano del termine, dove ogni gesto musicale diviene anche un commento sul linguaggio stesso ed una sovversione semantica. Tallini, invece, si muove in una tensione più lirica e contemplativa, in cui la complessità armonica resta al servizio di un’emotività spesso raccolta, quasi meditativa. Laddove Bley spezza e riassembla, Tallini distilla e modula. Sul piano armonico, Stefania tende ad un uso più tonalmente sfumato, che attinge alla politonalità gentile (sovrapposizioni di triadi distanti, ma non conflittuali), ai modi esatonali o lidio-misolidio, con escursioni frequenti nel campo modale mediterraneo e brasiliano. In Bley, l’armonia diventa spesso veicolo di spaesamento o ironia, laddove in Tallini si sostanzia come un veicolo di chiaroscuro interiore. In conclusione, sarebbe forse più fruttuoso leggere il legame tra Carla Bley e Stefania Tallini non come quello tra «maestra» ed «erede» in senso stretto, ma come ascendenza spirituale. Entrambe concepiscono il comporre come atto drammaturgico e critico, rifuggono i cliché del jazz di maniera, operando in uno spazio fluido dove il suono è voce, la forma racconto e l’armonia paesaggio e scarto. Laddove molte figure femminili nel jazz hanno dovuto rivendicare il diritto alla performance e alla visibilità, Bley e Tallini, ciascuna a suo modo, hanno scelto il terreno più esigente, ossia quello della composizione come forma di pensiero e della musica come cosmopoiesi.
Il nome di Carla Bley resta inscritto nella storia del jazz come quello di una figura radicalmente altra: compositrice, pianista e regista di forme orchestrali eccentriche, ironicamente sovversive, la cui vera eredità non consiste tanto in uno stile riconoscibile, quanto in un modo di intendere la composizione come campo di resistenza e invenzione. Per contro, artiste come Stefania Tallini, pur muovendosi in territori poetici differenti, sembrano raccogliere quel medesimo impulso ad abitare la musica come forma di pensiero, come spazio di relazione tra i linguaggi, come luogo in cui la molteplicità non si riduce al sincretismo, ma si organizza in architetture mobili, drammatiche e vive. In questa linea di fratture e continuità, si disegna non una scuola, ma una famiglia elettiva della composizione al femminile fatta di voci divergenti, ma accomunate dalla volontà di riscrivere, ogni volta da capo, le condizioni stesse del suono.
