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Siamo alle prese con un costrutto di alta tensione estetica, un documento esistenziale che si colloca in quella zona liminale dove la musica incontra la filosofia, la pittura, la poesia. Un pellegrinaggio, certo, ma non verso una meta, bensì verso un’intensificazione della percezione, una dilatazione dell’ascolto che ci restituisce, miracolosamente, alla nostra stessa umanità.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Come accade raramente nella produzione discografica, vi sono opere che si sottraggono alla cronologia dell’ascolto, che si pongono cioè al di là del tempo e delle sue categorie, come se la loro fruizione implicasse un rito di sospensione ed un’eclissi del contingente. «The Pilgrim And The Stars», esordio di Enrico Rava per l’etichetta ECM, è uno di questi dischi. Più che un semplice manufatto sonoro, l’album si attesta come una liturgia profana, un cammino iniziatico attraverso l’ombra e la luce, l’anelito e la caduta, il respiro lirico e l’abrasione ritmica.

Inciso nel giugno del 1975 presso il Tonstudio Bauer di Ludwigsburg sotto la curatela produttiva di Manfred Eicher – prestidigitatore sonoro della magia ECM – l’album si offre all’ascolto come una narrazione sonora coesa, compatta, che rifiuta la frammentarietà a favore di un flusso continuo e sensorialmente ipnotico. L’organico strumentale è quanto mai essenziale e sofisticato: la tromba di Rava dialoga con la chitarra elettrica, liquida ed a tratti inquieta, di John Abercrombie, la gravità rarefatta del contrabbasso di Palle Danielsson e la percussione dilatata, quasi impressionistica, di Jon Christensen. Ogni membro del quartetto sembra più che esecutore, un demiurgo di spazi sonori, una figura necessaria nella costruzione di un orizzonte visionario. In Rava, il canto dello strumento non è mai grido narcisistico ma affermazione di un’intimità aperta, fragile e audace. La sua pronuncia ha qualcosa della lingua poetica di Montale: asciutta, essenziale, eppure percorsa da fratture telluriche che ne fanno tremare la superficie. La sua è una tromba che interroga, non proclama; che suggerisce, non impone. Dal canto suo, Abercrombie, con il suo stile franto e viscerale, impersona il Virgilio ideale di questo viaggio dantesco, quasi una guida discreta ed una presenza silenziosa ma decisiva, in grado di orientare il discorso senza mai dominarlo. Danielsson e Christensen, infine, sono più che comprimari, sono l’aria e la terra, la gravità e l’evanescenza, l’architettura invisibile su cui il discorso si erge. Siamo alle prese con un costrutto di alta tensione estetica, un documento esistenziale che si colloca in quella zona liminale dove la musica incontra la filosofia, la pittura, la poesia. Un pellegrinaggio, certo, ma non verso una meta, bensì verso un’intensificazione della percezione, una dilatazione dell’ascolto che ci restituisce, miracolosamente, alla nostra stessa umanità.

L’itinerario sonoro tracciato da Rava e compagni si diffonde come un unico lungo respiro, costellato da episodi che, pur distinti nella loro fisionomia, appaiono legati da un’intelligenza formale e affettiva sotterranea, simile a quel filo rosso che lega i quadri di un ciclo pittorico o le sequenze di un film d’autore in cui ogni scena, pur autonoma, rimanda a una tensione più ampia e irrisolta. Non vi è qui nessuna cesura, nessuna pausa intesa come chiusura, ma piuttosto una continuità carsica che attraversa le tracce, restituendo al disco un’unità espressiva che si dà attraverso la variazione più che per ripetizione. Con la title-track, «The Pilgrim And The Stars», il fruitore viene gettato da subito in una condizione di attesa, come se l’opera ci stesse preparando, in silenziosa solennità, ad un’esplorazione interiore, un microcosmo autarchico, un lungo preludio onirico, denso di reticenze e sospensioni, che pare scaturire da una intima necessità più che da un intento formale. Il timbro di Rava, malinconico e interrogativo, si libra come una figura kafkiana che tenta una fuga non dal labirinto, ma attraverso di esso. V’è un’eco lontana, ma non gratuita, della cinematografia di Michelangelo Antonioni, come L’eclisse o Professione: reporter, la quale si situa in una zona di confine tra il silenzio e l’evento, tra ciò che sta per accadere e ciò che è già stato dimenticato. La tromba, che emerge dopo un’introduzione sospesa, pare incarnare non tanto un soggetto musicale quanto un principio di visione, un gesto primigenio che s’incarna nella tessitura armonica con la forza delle cose inevitabili. Non c’è alcuna urgenza nel suo fraseggio: ogni nota sembra ponderata come se provenisse da un luogo remoto, da un pensiero che ha preso il tempo di meditare prima di esprimersi. L’ingresso della chitarra, con il suo fraseggio in bilico tra calligrafia e erosione, introduce un moto centrifugo che non esplode mai in maniera prevedibile, ma si avvolge su se stesso in spirali ellittiche. Abercrombie, dal canto suo, non accompagna, ma interviene come un pittore che lavora per trasparenze, stratificando armonie spezzate e suggestioni timbriche che si aggirano ai bordi del linguaggio tonale, senza mai sfociare nell’astrazione pura. In questa prima traccia, il gruppo non tanto suona insieme, quanto sembra condividere un pensiero musicale comune, una medesima interiorità diffusa in quattro strumenti. «Parks» appare come una miniatura cameristica, quasi un haiku sonoro, dove la tromba e la chitarra si sfiorano come due corpi che si riconoscono nel buio, introducendo un gesto diametralmente opposto, come in un film di Ozu dove, dopo una sequenza carica di pathos, troviamo un’inquadratura fissa di un oggetto domestico o un paesaggio immobile. La tensione si placa in una miniatura che, nel suo breve arco temporale, riesce a racchiudere una tenerezza struggente. La scrittura è rarefatta ma non minimalista; vi è una cura per l’infinitesimo, per il dettaglio timbrico, che richiama certe pagine della musica da camera novecentesca, dove il non detto ha più forza del detto.

Con «Bella» l’ensemble ritrova un respiro più ampio, toccando forse il suo vertice narrativo, ma non abbandona la sua vocazione alla misura. Qui l’energia non è mai sfrontata, ma sempre trattenuta, canalizzata con sapienza artigianale. Rava alterna impulsi più decisi a momenti di quasi afasia, come se la voce dello strumento si spezzasse sotto il peso dell’emozione. Il dialogo tra Rava e Abercrombie si anima di un’urgenza che richiama la scrittura di Faulkner: densa, sincopata, animata da un fluire che rifiuta la linearità per abbracciare la simultaneità dei piani temporali e affettivi. Il chitarrista s’inserisce con un fraseggio che sembra quasi voler sabotare ogni aspettativa tonale: accordi ellittici, arpeggi che si spengono in eco liquide, e quell’uso sapiente del sustain che lo rende affine a un Debussy elettrico. Il contrabbasso di Danielsson, con i suoi interventi talora timbrati con l’arco, talora pizzicati con una precisione chirurgica, conferisce gravità e profondità al discorso. La batteria di Christensen non detta mai il tempo ma ne suggerisce l’ombra, operando più per sottrazione che per enfasi: le sue percussioni sembrano pietre gettate in uno stagno, capaci di generare onde che si propagano nell’aria con una lentezza inesorabile. In fondo, l’intervento del contrabbasso e della batteria non ha nulla di ornamentale: sono fibre del tessuto, vene che pulsano in un corpo che non ha bisogno di parole per affermare la propria esistenza. «Pesce Naufrago» si apre come un esperimento di astrofisica sonora: un coagulo di eventi che faticano a darsi forma, come se il brano nascesse dall’attrito tra le particelle musicali stesse. Il quartetto accede a una dimensione metafisica: ogni suono pare affiorare da un fondo archetipico, come se fosse la reminiscenza di un canto originario, emerso dalle profondità abissali di un oceano interiore, Contestualmente, si percepisce un uso raffinato della dinamica, con un fraseggio frammentato che si ricompone lentamente, secondo logiche non lineari. La tromba si muove come un sonar in un fondale incerto, mentre la sezione ritmica costruisce un paesaggio onirico in cui il tempo pare dilatarsi oltre misura. Eppure, non vi è mai la deriva: tutto è mantenuto in una zona di equilibrio precario, dove ogni suono acquista un significato preciso proprio in virtù della sua fragilità. A questo punto, «Surprise Hotel» irrompe come una cesura nervosa, un atto di sabotaggio deliberato, una parentesi convulsa che richiama alla mente le incursioni del primo free europeo, ma filtrate da un gusto per la forma che impedisce la dispersione. Non è tanto un’esplosione quanto un cortocircuito controllato, dove ogni musicista spinge il proprio strumento verso un’esteriorità più marcata, ma sempre mantenendo una coerenza profonda con l’ethos complessivo del disco. La tromba non urla, ma punge; la batteria non travolge, ma scompone; la chitarra non accompagna, ma disorienta con gesti spigolosi che sfuggono alla scansione metrica. Con «By the Sea» si ritorna a una cantabilità più serena, quasi pastorale, ma qui con una diversa qualità: il fluire non è più quello denso e opaco del naufragio, bensì quello terso e ciclico della marea. Il tema portante, affidato al dialogo tra chitarra e basso, ha qualcosa dell’elegia, e la tromba si inserisce come voce narrante che osserva dall’alto ciò che è già accaduto, come se rievocasse un ricordo filtrato dalla distanza emotiva. Vi è in questo episodio una sorta di dolcezza disillusa, una malinconia che non si lascia sopraffare ma che anzi si fa carburante per un’espressione pura, quasi pacificata. La scrittura collettiva raggiunge qui un punto di equilibrio che non è staticità, ma quiete attiva, come in certi finali di racconto in cui la verità non viene rivelata, ma solo suggerita attraverso un dettaglio marginale. Il tema si ripropone come una figura ossessiva, un motivo che insiste senza logorarsi, sempre identico e sempre mutato, come le onde del mare che battono sulla riva. La tromba vola sopra questo paesaggio come un gabbiano metafisico, libero e insieme inquieto, mentre la chitarra fende l’aria con tocchi che evocano i suoni marginali della natura: versi di uccelli, sibili del vento, fremiti della vegetazione. Infine «Blancasnow» chiude il cerchio senza sigillarlo. Il brano si apre con un’andatura libera, quasi improvvisata, come se i musicisti si stessero orientando in un paesaggio innevato dove ogni passo lascia una traccia effimera. La tromba vola sopra un tappeto ritmico che si sfalda e si ricompone in tempo reale, e il timbro si fa vellutato, contemplativo, quasi immobile. Ma proprio quando tutto sembra sfumare in una dissolvenza, ecco che emerge un’eco folk, una melodia che richiama alla memoria antichi canti contadini, non è mai concessione al gusto popolare, ma una risonanza ancestrale, una memoria che riaffiora come in certi fotogrammi di Tarkovskij, dove la semplicità si carica di una densità spirituale quasi ieratica. Nel movimento finale di questa sinfonia invisibile i segni si fanno labili, i contorni sfumano, mentre l’ascoltatore viene lasciato in una condizione di sospensione emotiva.

Così il viaggio si compie: non come approdo, ma come continua apertura. L’intero disco, attraversato da una poetica dell’incompiutezza e dell’interiorità, dimostra come l’emozione non sia il prodotto di un’estetica sentimentale, ma la conseguenza di una ricerca rigorosa, di un ascolto reciproco profondo e di una tecnica che si fa trasparente fino a farsi dimenticare. In Rava e nei suoi compagni non c’è posa né esibizione, ma la paziente costruzione di un tempo nuovo, fatto di silenzi, di vibrazioni, di ombre sonore che ci parlano ancora oggi con una forza che nessuna moda ha potuto intaccare. «The Pilgrim And The Stars» si chiude – e con esso anche il nostro ascolto ideale – come si concludono certe opere d’arte in cui la fine non è una destinazione ma un punto di sospensione, un varco che invita al ritorno più che all’archiviazione. Rava, in questo suo esordio per ECM, non consegna un manifesto, ma piuttosto un diario segreto scritto con inchiostro evanescente, leggibile solo da chi sappia ascoltare con lentezza e attenzione. Ogni traccia del disco, lungi dall’essere una vetrina di virtuosismi o un capitolo indipendente, partecipa di un disegno più vasto, come affluente di un fiume carsico che scorre sotto la superficie di suoni e timbri. In un tempo storico in cui la musica sembra spesso compressa in formati rapidi, pensata per l’istantaneo consumo e il rapido oblio, questo album resta come un atto di resistenza poetica, sostanziandosi come una riflessione sulla misura, sull’articolazione emotiva come fatto di sottrazione e sull’intelligenza collettiva quale forma superiore d’espressione. Diversamente, rappresenta un concept che ha il coraggio del lirismo, della dolcezza non edulcorata e della malinconia non enfatica: Rava «canta» l’ambiguità luminosa dell’esistere, come pochi altri sanno fare. «The Pilgrim And The Stars» non è un disco da ascoltare: è un luogo da abitare, una soglia da attraversare ogni volta con orecchie nuove. Sta lì, nel suo elegante silenzio di copertina, come certi volumi dimenticati in una biblioteca troppo affollata, eppure, una volta aperto, rivela un mondo in cui ogni nota è una parola necessaria, ogni pausa un frammento di verità.

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