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Kamasi Washington

Washington non si limita a citare o ad omaggiare le grandi voci del jazz post-bellico. Egli ne rielabora i codici attraverso una pratica di sintesi culturale che incorpora estetiche hip-hop, spiritualità etiopica, orchestrazione hollywoodiana, black-consciousness e cosmopolitismo diasporico. In un’epoca frammentaria e post-genere, la sua musica si propone come forma di resistenza ed appartenenza, nonché come teologia sonora dell’interconnessione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Kamasi Washington rappresenta una figura-ponte tra la memoria e la trasformazione, tra la liturgia del passato e la fluidità del presente. La sua opera non si delinea come mero tributo agli archetipi del jazz post-bellico, bensì come rielaborazione organica di una tradizione viva, permeabile, intergenerazionale. Il suo lessico musicale non ricalca, ma rilancia: è un linguaggio che media tra spiritualità e materialità, tra coscienza storica e desiderio di rinnovamento.

Il sassofonista losangelino, classe 1981, si conferma come una delle figure più emblematiche della rinascita jazzistica contemporanea, capace di unire l’istanza della tradizione afroamericana con una costante tensione verso l’innovazione formale e contenutistica. Sassofonista, compositore e arrangiatore, Washington ha saputo elaborare una poetica musicale che si nutre tanto delle radici del jazz spirituale e modale, quanto delle contaminazioni con il funk, la fusion e, in maniera sempre più marcata, con il linguaggio dell’hip-hop e della cultura urbana. Il suo più recente lavoro discografico, «Fearless Movement» (2024), quinto album in studio, rappresenta un ulteriore tassello di un percorso artistico coerente e ambizioso, in cui il movimento fisico e simbolico viene tematizzato attraverso la metafora della danza. Pur non configurandosi come un album «da ballo» nel senso più stretto del termine, esso pone al centro la corporeità come veicolo di espressione, come elemento fluido, mutevole ed elastico. Tale prospettiva si collega in maniera organica ai nuclei concettuali già esplorati nei precedenti «The Epic», monumentale opera tripla, consacra la sua visione musicale fondata su un sincretismo tra spiritualità, coscienza sociale e rigore formale, ricevendo ampi consensi critici e tre premi dalla rivista DownBeat. (2015) e soprattutto «Heaven And Earth» (2018), nel quale il sassofonista sviluppava una riflessione sulla trasmissione intergenerazionale e sulla contaminazione dei linguaggi musicali. Formatosi nell’ambiente creativo di Los Angeles e cresciuto in una famiglia di musicisti, Washington ha saputo affermarsi a livello internazionale grazie a un approccio creativo profondamente collettivo e multidisciplinare. Centrale nel suo percorso è la collaborazione con l’album «To Pimp a Butterfly» di Kendrick Lamar (2015), crocevia fondamentale tra jazz e hip-hop che segna una svolta epocale nel panorama della Black Music. La poetica di Washington si struttura su una concezione relazionale della musica, in cui l’individualità del musicista si dissolve in una dimensione comunitaria. Tale ethos collaborativo si riflette tanto nelle frequenti interazioni con artisti come Robert Glasper, Terrace Martin, Thundercat e George Clinton, quanto nella composizione di lavori destinati a contesti differenti, come la colonna sonora del documentario Becoming su Michelle Obama, che gli è valsa una doppia candidatura ai Grammy ed agli Emmy.

In particolare, il legame con John Coltrane costituisce l’asse portante della poetica washingtoniana. Tuttavia, ciò che emerge non è una filiazione mimetica, bensì un dialogo trasversale. Kamasi raccoglie la tensione spirituale del Coltrane più tardo (A Love Supreme ed Ascension), la carica escatologica del suo suono, ma la traspone in strutture orizzontali, largamente orchestrate, di respiro cinematografico. Mentre Coltrane scavava nella verticalità ascetica della ricerca tonale, Washington costruisce affreschi sinfonici su lunghe arcate modali, inserendo voci corali, elettronica atmosferica, elementi funk e hip-hop. John Coltrane rappresenta, per Washington, molto più che un punto di riferimento stilistico: è un riferimento fondativo, quasi mitico, che incarna la possibilità di un jazz capace di trascendere la forma per accedere a una dimensione trascendentale. Le grandi suite modali di Coltrane costituiscono l’archetipo del jazz come esperienza mistica, come viaggio interiore e collettivo, come preghiera sonora. Washington raccoglie questa eredità spirituale, aggiornandola alle sensibilità contemporanee: la sua musica, come quella di Coltrane, aspira a essere al contempo un grido di protesta ed un atto di guarigione, un gesto comunitario ed una ricerca personale. Tale eredità si manifesta non solo nei toni solenni e nell’uso di strutture estese , ma anche nell’approccio alla spiritualità come forza compositiva. Washington, come Coltrane, attribuisce alla musica un potere sacrale, rifuggendo tanto la leggerezza dell’intrattenimento quanto il formalismo sterile. La scelta della lingua della tradizione ortodossa etiope, si inserisce esattamente in questo quadro: è una testimonianza di un’arte che guarda all’Africa non come ornamento esotico, ma come fonte primaria di senso e identità.

Diversamente da Ornette Coleman, di cui non adotta l’armolodia né la radicalità formale, Washington incarna però lo stesso ethos libertario. L’idea di una musica che decostruisce la gerarchia, che si nutre dell’improvvisazione collettiva e della stratificazione dei significati, è comune ai due. Nel suo ensemble, la leadership è distribuita; la narrazione è plurale, non lineare, e ogni sezione è portatrice di autonomia espressiva. Washington non adotta direttamente le soluzioni atonali e frammentarie del free jazz classico, ma ne assorbe l’impulso liberatorio. Nei suoi lavori, la libertà non è caos, ma apertura; la forma non è abolita, ma resa porosa, mobile, aperta alla contaminazione. La centralità dell’improvvisazione collettiva, la fluidità delle transizioni e la vocazione utopica del suono testimoniano quanto l’insegnamento di Coleman sia stato assimilato in profondità: Washington costruisce un jazz che non è definito da una grammatica, ma da una visione del mondo.

Il legame con Miles Davis, invece, si manifesta soprattutto nell’adesione alla contaminazione e al sincretismo. Il Miles elettrico di Bitches Brew e On the Corner è il punto di contatto più evidente: groove ciclici, timbriche sature, sovrapposizione di layers. Tuttavia, laddove Miles cercava il punto zero della forma attraverso la sottrazione, Washington costruisce monumenti narrativi, strutture cumulative in cui la densità sonora è veicolo di trascendenza e coralità. Davis è stato forse il musicista che più di ogni altro ha rifiutato la fissità stilistica, attraversando con lucidità ogni fase del jazz moderno, dal bebop al cool, dal modalismo all’elettronica, fino alle avanguardie afro-futuriste. Washington, nel suo dialogo costante con l’hip-hop, la musica cinematografica, il soul e il funk, si iscrive pienamente in questa linea. Come Davis, Washington costruisce un universo sonoro stratificato, in cui la tecnologia, la produzione e la forma canzone si affiancano all’improvvisazione e alla spiritualità. Anche la scelta di circondarsi di collettivi creativi – come l’ormai celebre West Coast Get Down – richiama l’intelligenza relazionale di Miles, capace di elevare i suoi collaboratori a coautori dell’opera.

L’influsso di Charles Mingus si avverte nella strutturazione delle grandi formazioni, nell’alternanza tra momenti lirici e improvvisi scoppi tellurici, nella capacità di far convivere tensione politica, ironia e virtuosismo collettivo. Come Mingus, Kamasi è compositore e curatore di processi, più che solista egemone. Con Charles Mingus, Washington condivide una visione orchestrale della composizione jazzistica che è, allo stesso tempo, intima e collettiva, viscerale e strutturata. L’approccio monumentale di «The Epic» riecheggia le ambizioni narrative e la ricchezza polifonica dei lavori più elaborati di Mingus, come «The Black Saint And The Sinner Lady» (1963). Entrambi concepiscono il jazz come una forma sinfonica afro-americana, capace di raccontare la storia di un popolo, i suoi dolori e le sue rivolte. In Mingus, l’espressione dell’alterità nera passa attraverso strutture complesse, fratture ritmiche, dissonanze controllate e gesti teatrali. Washington riprende questa tensione drammatica, traducendola in una lingua più accessibile ma non meno potente: le sue composizioni costruiscono paesaggi sonori dove la spiritualità si intreccia alla denuncia sociale, dove l’arrangiamento è uno strumento di affermazione culturale.

Ancor più profonda è la consonanza con Pharoah Sanders. Il sax tenore si fa medium sciamanico, capace di evocare dimensioni rituali e ancestrali. In entrambi, il suono è corpo e preghiera, ferita e guarigione. L’uso di scale orientali, canti liturgici, preghiere in ge’ez e tessiture percussive rimanda a una visione della musica come spazio sacro, come luogo di rigenerazione dell’identità diasporica. La visione afro-futurista di Sun Ra trova eco nella cosmologia sonora di Washington. Senza adottarne l’estetica surrealista o teatrale, Kamasi ne condivide però la filosofia: la musica come viaggio siderale, la performance come rito di liberazione, il jazz come sonic fiction. L’universo simbolico evocato da «The Epic» o «Heaven And Earth» non è meno cosmico, anche se mediato da forme orchestrali più canoniche. Washington non si limita a citare o ad omaggiare le grandi voci del jazz postbellico. Egli ne rielabora i codici attraverso una pratica di sintesi culturale che incorpora estetiche hip-hop, spiritualità etiopica, orchestrazione hollywoodiana, black-consciousness e cosmopolitismo diasporico. In un’epoca frammentaria e post-genere, la sua musica si propone come forma di resistenza ed appartenenza, nonché come teologia sonora dell’interconnessione. Non un erede, ma un cartografo sonoro del presente, in grado di trasformare il passato in una materia viva e polifonica, aperta alla sperimentazione e alla memoria condivisa. Il sassofonista di Los Angeles non si limita, dunque, a rievocare il passato: lo interroga da una prospettiva radicalmente contemporanea, innestando nel linguaggio jazzistico elementi tratti dalla black music urbana, dal funk all’hip-hop, dalla spoken word alla beat culture, che riflettono la realtà sociale e culturale del XXI secolo. In questo senso, la sua attività si colloca pienamente nella traiettoria tracciata da artisti come Herbie Hancock nei loro momenti più innovativi, ossia quando il jazz si è aperto alle contaminazioni come gesto necessario di sopravvivenza e trasformazione. Washington, dunque, si fa portavoce di una tradizione che non si chiude su se stessa ma si rinnova, mantenendo viva la vocazione utopica del jazz come linguaggio della libertà. Se Coltrane aveva affermato che «la musica è la mia via per parlare con Dio», Washington sembra rispondere ampliando quel dialogo: non più solo con il divino, ma anche con la storia, con la comunità, con il corpo e con il futuro.

Il Black Arts Movement (BAM), nato negli anni Sessanta come espressione culturale e politica del Black Power, ha rappresentato un momento cruciale nella definizione di un’estetica nera autonoma, radicale e profondamente impegnata. Artisti come Amiri Baraka, Sonia Sanchez, e musicisti come Charles Mingus e Archie Shepp, promossero una produzione artistica che non era mero intrattenimento, ma strumento di liberazione politica, affermazione identitaria e denuncia sociale. Kamasi Washington, pur operando in un contesto temporale distante, può essere interpretato come una figura che prosegue e riformula l’eredità del BAM in una chiave contemporanea, ibridando quella radicalità con un linguaggio aperto e inclusivo. La sua musica, come quella del movimento degli anni Sessanta, assume una funzione di attivismo culturale, veicolando messaggi di resistenza, comunità e rinascita spirituale. Non a caso, la sua opera complessiva si radica profondamente nella tradizione afro-americana, affrontando temi quali l’identità nera, la memoria collettiva, la lotta contro le oppressioni sistemiche e la celebrazione della resilienza. In particolare, Washington recupera la visione del BAM di un’arte «totalizzante», che coinvolge non solo la musica, ma anche la dimensione sociale, politica e spirituale dell’esistenza nera. Il suo lavoro si inscrive in una genealogia che vede il jazz come veicolo di coscienza critica e di trasformazione sociale, in continuità con la visione di artisti del movimento che vedevano la musica come una forma di «resistenza sonora». Kamasi differisce dal BAM originale per la modalità di espressione e per l’approccio inclusivo e intergenerazionale.

Mentre il Black Arts Movement spesso privilegiava una retorica militante e militante, Washington introduce nella sua musica una dimensione di apertura, dialogo e fusione di generi, che riflette la complessità della cultura nera contemporanea. La sua collaborazione con artisti di hip-hop, la sua attenzione al concetto di «movimento» e trasformazione personale, così come l’uso di linguaggi spirituali universali, segnalano una rielaborazione e ampliamento dell’eredità del BAM verso una dimensione più fluida e interdisciplinare. In questo senso, Kamasi rappresenta una sorta di ponte culturale, che collega la radicalità degli anni Sessanta con le esperienze artistiche e sociali del ventunesimo secolo, incarnando una visione del jazz come spazio di riflessione politica e spirituale, ma anche di guarigione e celebrazione della vita nera in tutte le sue sfaccettature. Il corpulento tenorista non incarna, dunque, la figura di un epigono, ma di un erede trasformatore. Mingus gli offre il modello della narrazione orchestrale della blackness, Coleman l’impulso alla disarticolazione del canone e alla creazione di spazi di libertà sonora, Davis la strategia della mutazione continua, dell’ibridazione e del superamento delle barriere di genere. In lui, queste tre linee genealogiche non si sommano, ma si fondono in un’estetica nuova, figlia della diaspora ma figlia anche della contemporaneità urbana, digitale, transmediale. Washington non imita il passato: lo reinventa, lo fa vibrare nel presente e lo proietta in un futuro possibile.

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