«Uncaged Bird» di Lisa Manosperti, tra rispetto ed autonomia, tra memoria ed innovazione (Dodicilune, 2025)

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Essere uccello senza gabbia non significa volare, ma scegliere quando non farlo. Manosperti non vola via, ma resta, s’insedia nelle pieghe tematiche, le studia, le pronuncia come versi di un diario che non è suo, ma che sente. Non ha paura del confronto, perché non lo cerca.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Non c’è recinto né imitazione nel canto di Lisa Manosperti. In «Uncaged Bird», la voce non prende in prestito, ma prende posizione. Riconosce una genealogia, sì, quella di Abbey Lincoln, ma decide di esplorarne la radice, non i rami. È come se ogni brano fosse una stanza di memoria, arredata non con reliquie ma con gesti nuovi, suoni che rispettano ma non si inchinano. Lincoln, attivista e testimone delle tensioni razziali negli Stati Uniti, viene evocata nella sua funzione di griot contemporanea. Il richiamo diretto alla suite di Max Roach, «We Insist! Freedom Now Suite», evidenzia il nodo affettivo e ideologico che lega Manosperti alla tradizione afro-americana. Non sorprende, dunque, la predilezione per brani del periodo francese – sotto la direzione di Jean-Philippe Allard – in cui Lincoln manifestava una maturità compositiva e poetica del tutto svincolata dagli stilemi canonici.

«Uncaged Bird», firmato dalla vocalist pugliese Lisa Manosperti e pubblicato dall’etichetta Dodicilune nel 2025, si presenta come un esercizio critico e interpretativo di rara densità, imperniato sulla figura complessa e radicale di Abbey Lincoln. Lungi dal semplice tributo, l’album si attesta come una riflessione polifonica sul concetto di eredità artistica, dove la rilettura e la risignificazione diventano atti di responsabilità e consapevolezza storica. La scelta di Manosperti di non riproporre, dunque, pedissequamente le versioni originali di Lincoln, ma di selezionare e modellare un’antologia personale di undici brani che attraversano quarant’anni di produzione, rivelando un intento filologico e creativo. L’approccio, filtrato sulla scorta di arrangiamenti originali ed una gamma espressiva calibrata, restituisce una vocalità intrisa di dignità ed autonomia: non una semplice emulazione, ma l’assunzione di una prospettiva interpretativa che dialoga con la fonte originaria senza asservirvisi. L’apporto del quartetto appare tutt’altro che ancillare: Roberto Ottaviano al sassofono, Umberto Petrin al pianoforte, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria costruiscono un impianto sonoro complesso e versatile, capace di rifrangere le sfumature poetiche di ciascun brano. Essi non si limitano a sostenere, ma sono complici nel reato artistico. Intervengono, si ritirano, commentano e aprono varchi. Figura cardine del jazz italiano, Ottaviano è noto per la sua profondità interpretativa e per una ricerca timbrica che affonda nel lirismo coltraniano. Il suo strumento diventa motore emotivo, espandendo le possibilità del dialogo con la voce. Petrin porta in questo progetto la sua sensibilità poetica ed il suo gusto per l’armonizzazione inquieta. La sua tastiera sembra costruire spazi interiori, aprendo varchi narrativi e sostenendo la voce con delicatezza e inventiva. Bolognesi, strumentista rigorosa e creativa, la sua presenza è spina dorsale e voce sommersa del disco. Il contrabbasso agisce spesso in funzione ritmico-melodica, partecipando a una tessitura che sa essere elastica e viscerale, mentre il suo suono pulsa come memoria incisa. Percussionista poliedrico, capace di coniugare groove e astrazione, Calcagnile conferisce all’album una dinamica sempre cangiante. La sua batteria non accompagna, piuttosto interroga, commenta, disturba e seduce.

Nel corpo vibrante di «Uncaged Bird», Lisa Manosperti non interpreta un repertorio, ma lo attraversa come si varca una soglia segreta, consapevole che quel canto non sia soltanto suono, ma storia che continua a chiedere ascolto. Il percorso si apre con «Should’ve Been», che rivela subito la grammatica sentimentale del progetto. Il tempo non è quello scandito dal ritmo, ma quello affettivo del rimpianto, che la voce modella con pudore e fermezza, mentre il contrabbasso pulsa come memoria trattenuta. Nulla viene dichiarato in modo definitivo; tutto resta sospeso, come le decisioni che non si sono mai prese. La tensione interiore si trasforma in postura sociale in «Straight Ahead», dove Manosperti sceglie di non alzare il tono ma di piegare il senso: da inno di resistenza a ballata riflessiva, il tema perde la durezza per acquisire una sorta di malinconica lucidità, soprattutto è il pianoforte a suggerire deviazioni e il sassofono ad accompagnare il pensiero, come un commentatore silenzioso. Con «The World Is Falling Down» il discorso s’incupisce e si fa denuncia. Non servono proclami, ma basta una voce che conosca la crepa e vi si avventuri senza paura. Il drumming risulta frantumato, la tessitura armonica tesa ed il sax graffiato, dove ogni elemento converge verso una dichiarazione di disincanto che non rinuncia, però, ad un fondo di tenerezza. Poi arriva «Bird Alone», e non esiste metafora più efficace per descrivere la posizione dell’interprete: sola, ma non isolata; libera, ma non dispersa. In trio, senza batteria né fiati, Manosperti si affida al suono essenziale per abitare l’intimità dell’impianto armonico, come se stesse raccontando sé stessa attraverso l’eco di un altro. Un cambio di registro quasi teatrale si manifesta con «You Gotta Pay The Band». L’ironia si fa maschera ed il racconto diventa uno schizzo pungente, brevissimo, ma denso di sottotesto. L’interprete gioca con il ritmo e con il tono, rivelando un’intelligenza scenica che trasforma la voce in gesto. Petrin e Bolognesi reagiscono con vivace complicità, creando un clima da club intimo e nervoso.

Il culmine emotivo e simbolico si raggiunge con «Caged Bird», dove il richiamo al verso di Maya Angelou non è citazione, ma fusione di istanze, ossia il canto come atto politico, la voce come spazio di rivolta. Manosperti non urla, ma insiste, facendolo con una vocalità personale, che assorbe e restituisce senza impadronirsi. Il quartetto le costruisce intorno una struttura coltraniana, pulsante e libera, che vibra come un uccello pronto a spezzare le sbarre non con la forza, ma con la coscienza di esserci. L’uso del megafono, presente nel nono pezzo, sancisce una scelta performativa spiazzante ed efficace, evocando una dimensione teatrale e situazionista. In «Uncaged Bird» nulla è accessorio. Ogni nota, ogni accento, ogni pausa, concorre a costruire un’identità interpretativa che non copia ma trasforma, che non illustra ma interroga. La voce di Lisa Manosperti diventa così il centro mobile di questo universo narrativo. Una vocalità che conosce la lincolniana arte del raccontare con onestà, ma sceglie di farlo con la propria lingua, tra pensiero e suono. A conti fatti, «Uncaged Bird» non costituisce soltanto una registrazione, ma una dichiarazione estetica ed etica. L’interprete, muovendosi tra rispetto ed autonomia, tra memoria ed innovazione, costruisce uno spazio vocale in cui la voce non canta soltanto, ma testimonia. Essere uccello senza gabbia non significa volare, ma scegliere quando non farlo. Manosperti non vola via, ma resta, s’insedia nelle pieghe tematiche, le studia, le pronuncia come versi di un diario che non è suo, ma che sente. Non ha paura del confronto, perché non lo cerca. Per contro, tenta una somiglianza emotiva, un’eco che diventa voce, ed in quella voce, qualcosa di Abbey continua a vivere, non come monumento, ma come impulso. «Uncaged Bird» rappresenta un lavoro che reclama attenzione, non per la sua adesione ad un canone, bensì per la sua capacità di trasformarlo.

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