Andy Bey, il cantante jazz-soul-blues che dava voce all’indicibile

Andy Bey
La sua ugola era come un paesaggio carsico: a tratti sommersa, avvolta nel mistero, altrove emergente con forza viscerale. La tecnica, per nulla ostentata, era fondata su un senso assoluto del respiro e su un uso del tempo quasi meditativo. Spesso, più che cantare in mezzo al tempo, egli sembrava farlo contro o intorno ad esso, avvolgendolo come uno sciamano che danza attorno al fuoco sacro della melodia.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nell’accidentato ed impervio paesaggio del jazz vocale del Novecento, pochi artisti hanno incarnato con pari profondità la ricerca espressiva, la coerenza etica e la tensione spirituale di Andrew W. Bey. Nato a Newark nel 1939 e scomparso il 26 aprile 2025, Bey ha attraversato epoche, mode e metamorfosi stilistiche mantenendo una traiettoria artistica intransigente e, per molti versi, visionaria. In un contesto musicale spesso dominato dall’estroversione e dal virtuosismo spettacolare, egli ha scelto la strada più impervia: quella dell’interiorità, della sottrazione e dell’ascolto profondo. Molti cantanti contemporanei, da Gregory Porter a Kurt Elling, hanno riconosciuto il debito nei confronti di Bey. Porter, in particolare, ha assorbito da lui l’idea che la voce possa essere uno strumento narrativo ed indagatore, capace di coniugare soul, jazz e spiritualità senza soluzione di continuità. Elling, pur molto diverso per approccio tecnico e repertorio, ha spesso citato il cantante di Newark come modello di integrità artistica: un artista che ha scelto la la qualità al posto della popolarità, la lentezza al posto dell’effetto. Non si può comprendere Andy Bey senza prenderne in considerazione la vita come percorso di consapevolezza e di resistenza esistenziale. Omosessuale dichiarato e sieropositivo in un’epoca in cui entrambe queste condizioni erano circondate da stigma e paura, egli ha vissuto la sua identità non come vessillo, ma come prisma attraverso cui filtrare la musica. Bey non si è mai fatto portavoce di una militanza esplicita, eppure ha incarnato una forma di attivismo musicale sotterraneo, radicato nella coerenza e nell’abissale emotiva. Negli anni della maturità spirituale – scanditi dalla pratica dello yoga, dal vegetarianismo, e da uno stile di vita votato alla contemplazione – il suo canto aveva assunto sempre più le sembianze di un’offerta laica, quasi liturgica.
La voce di Andy Bey era uno strumento che sfuggiva a qualsiasi classificazione facile. Baritonale per tessitura naturale ma dotata di un’estensione che toccava agilmente i registri acuti del falsetto, la sua ugola era come un paesaggio carsico: a tratti sommersa, avvolta nel mistero, altrove emergente con forza viscerale. La tecnica, per nulla ostentata, era fondata su un senso assoluto del respiro e su un uso del tempo quasi meditativo. Spesso, più che cantare in mezzo al tempo, egli sembrava farlo contro o intorno ad esso, avvolgendolo come uno sciamano che danza attorno al fuoco sacro della melodia. Il suo fraseggio era riflessivo, carico di risonanze interiori, come se ogni sillaba venisse meditata, assaporata, lasciata cadere nello spazio tra le note con la gravitas di un mantra. L’influenza di giganti del jazz vocale come Billy Eckstine, Sarah Vaughan e soprattutto Billie Holiday si avverte, eppure, Andy Bey ha rapidamente trasceso i modelli per sviluppare una poetica del tutto personale. Il pianoforte, strumento che suonava con sobrietà ma grande raffinatezza, diventava un’estensione della sua voce e viceversa: spesso le due linee si intrecciavano in un dialogo intimo, come nel capolavoro «Ballads, Blues & Bey» (1996), dove ogni canzone è una miniatura spirituale cesellata nel silenzio.
La sua discografia è un percorso a ostacoli, disseminato di gemme spesso ignorate dal mercato. Il visionario «Experience and Judgment» (1974), che fondeva soul, spiritualità e psichedelia, è un unicum nella storia del canto nero americano: un album che, come certe opere di Sun Ra o Alice Coltrane, non cerca né il consenso né la compiacenza. Ma è con i dischi pubblicati negli anni Novanta e Duemila, quali «Shades Of Bey» (1998), «American Song» (2004), «The World According To Andy Bey» (2013), che si rivela pienamente la sua vocazione «mistica». Standard come «Laura», «Someone to Watch Over Me» o «Lush Life» vengono reinterpretati in maniera radicale: i tempi rallentati fino all’estasi, le armonie quasi sospese, le parole cantate con un’intimità tale da sembrare sussurrate all’orecchio del tempo. Pur estraneo alle logiche dell’industria musicale e al sistema delle classifiche, Andy Bey ha generato attorno a sé un culto silenzioso, alimentato da una serie di registrazioni che oggi vengono considerate pietre angolari di una vocalità jazz profondamente introspettiva. Come già accennato, è «Experience And Judgment» (1974), senza dubbio, il suo climax più efficace e penetrante. All’interno di questo disco, autentico oggetto di culto per appassionati di jazz-funk e soul spirituale, si staglia con forza «Celestial Blues», traccia che racchiude in sé la tensione mistica dell’intero lavoro. La sezione principale ruota attorno a un ostinato armonico che alterna Em7 – A13 – Bm7 – A13, con occasionali deviazioni verso accordi di dominante secondaria. L’uso del voicing aperto e del sintetizzatore crea un’atmosfera sospesa, quasi cosmica. L’armonia non è funzionale in senso classico, ma modale, con un’aura di stasi meditativa. Bey canta su un registro medio-alto, con un timbro vellutato e leggermente nasale, e un uso calibrato del falsetto. Il fraseggio è ritmicamente libero, spesso in anticipo o in ritardo rispetto al beat, creando un effetto di fluttuazione temporale. L’articolazione è morbida, quasi sussurrata, ma sempre centrata. Il testo è un invito alla meditazione e all’espansione della coscienza che Bey trasforma in un mantra laico. L’effetto è quello di una trance spirituale, in cui la voce guida l’ascoltatore verso un altrove interiore. Questo brano ha avuto un singolare destino: trascurato alla sua uscita, è stato successivamente riscoperto e campionato da DJ e produttori europei e americani, divenendo un totem della club culture più raffinata e consapevole. In esso, la scrittura modale, l’uso di pattern armonici ipnotici e la vocalità estesa di Bey, sospesa tra recitazione liturgica e canto soul, rendono il tema una sorta di preghiera cosmica in chiave funk. Brani come «You Should’ve Seen The Way» e «The Power of My Mind» mostrano un autore-performer capace di fondere il lessico armonico del jazz con la filosofia della musica soul e la sperimentazione timbrica ereditata da certi ascolti coltraniani. Si tratta di composizioni che, pur nella loro struttura semplice, custodiscono un rigore concettuale e una tensione spirituale rara.

Sul versante del repertorio più canonico, Bey ha lasciato interpretazioni di standard che sfuggono alle logiche della rivisitazione «stilizzata» o pirotecnica, preferendo percorsi più meditativi. Nella sua versione di «It Never Entered My Mind», contenuta in «The World According To Andy Bey» (2013), dove il tempo è dilatato al punto da assumere una qualità metafisica. Bey non si limita a reinterpretare un classico; lo ripiega su di sé, lo svuota di nostalgia e lo restituisce come un frammento esistenziale lacerante. È un’interpretazione che, per pathos e sofferenza, può essere paragonata soltanto alle esplorazioni vocali più tarde di Abbey Lincoln o Jeanne Lee. Lo standard di Rodgers & Hart in forma AABA, in tonalità maggiore, ma il cantante di Newark lo trasfigura armonicamente, introducendo accordi sostitutivi (tritone subs, diminuiti ed aumentati) e modulazioni temporanee che destabilizzano la prevedibilità della progressione. L’accompagnamento pianistico è scarno ma sofisticato, con voicing quartali e spazi di silenzio che amplificano la tensione armonica. Qui Bey canta in un registro più grave, con un vibrato lento e profondo, e un uso sapiente del rubato. Ogni frase è cesellata con cura, con respiri strategici che diventano parte integrante della narrazione. Il controllo dinamico è assoluto: da pianissimi quasi impercettibili a mezzevoci dense di pathos. Egli non interpreta il brano come una ballata romantica, ma come una confessione esistenziale. Il testo, già malinconico, diventa sotto la sua voce una riflessione sul rimpianto e sull’illusione. L’uso del tempo lento e delle sospensioni armoniche trasforma la canzone in un monologo interiore.
Altro esempio rivelatore della sua poetica è «River Man», omaggio meditativo a Nick Drake, inciso in «Shades Of Bey» (1998). La scelta di affrontare un brano proveniente dal folk britannico, e di trasfigurarne l’impronta malinconica in una dimensione quasi spirituale, rivela la porosità culturale dell’estetica beyiana: una concezione del jazz non come genere chiuso, ma come linguaggio dell’anima, capace di accogliere e trasmutare ogni tradizione. Bey conserva la metrica irregolare ma ne dilata il tempo interno, rendendola quasi impercettibile. L’armonia viene arricchita da tensioni estese (9ª, 11ª, 13ª) e da voicing dissonanti che evocano un senso di deriva. La voce si muove con estrema libertà, spesso sovrapponendosi al tempo dispari con frasi che sembrano galleggiare. Il timbro è scuro, quasi crepuscolare, e il fraseggio è lirico ma non sentimentale. Il cantante di Newark usa il registro di testa con naturalezza, senza soluzione di continuità con il registro pieno. «River Man» diventa, sotto la sua voce, una meditazione sull’impermanenza. Il fiume non è solo un luogo fisico, ma un simbolo del tempo che scorre, della memoria e della perdita. Andy canta come se stesse navigando dentro il brano, lasciandosi trasportare dalla corrente armonica e poetica. In tutti e tre i casi, ciò che colpisce è la capacità di Andy Bey di trasformare la canzone in un’esperienza rituale, in cui armonia, tempo e voce si fondono in un unico gesto espressivo. La sua tecnica non è mai fine a sé stessa, ma sempre al servizio di una verità emotiva che si svela lentamente, come un segreto condiviso solo con chi è disposto ad ascoltare davvero.
Quando Bey interpreta gli standard del Great American Songbook, come «Someone To Watch Over Me», non si limita a riproporre il testo: lo trasfigura. La canzone, che in origine è una tenera preghiera d’amore, diventa sotto la sua voce una invocazione esistenziale, quasi una supplica per una presenza che dia senso e direzione al proprio smarrimento. La figura di ’«angelo custode» evocata nel testo assume una valenza metaforica: è la ricerca di un principio ordinatore, di un centro affettivo o spirituale che possa guidare l’io smarrito. In ambito più propriamente jazzistico, spiccano interpretazioni di «Lush Life», «Never Let Me Go» e «Prelude to a Kiss», in cui ogni nota, ogni respiro, sembra pesato con la meticolosità di un miniaturista. Bey non «canta» questi pezzi: li racconta da dentro, come se li stesse riscrivendo in tempo reale. Questo approccio lo rende, nei fatti, un compositore dell’interpretazione, un autore di senso, più che un mero esecutore. Per completare il quadro, va menzionata anche la sua fase più giovanile con il gruppo Andy And The Bey Sisters, in particolare nella versione del 1965 di «Feeling Good». Incisa prima che Nina Simone ne consacrasse la fama planetaria, questa lettura si distingue per energia, freschezza e swing, rivelando una matrice gospel che, negli anni, il cantante di Newark avrebbe sublimato in direzione introspettiva. Dunque, più che «successi» in senso commerciale, quelli di Andy Bey sono luoghi di meditazione sonora, tappe di un percorso che ha trasformato ogni canzone in un atto di rivelazione personale. La sua voce, in queste incisioni, non cerca l’effetto, ma la verità. Ed è proprio in questa fedeltà all’essenziale che risiede la sua grandezza. In sintesi, i testi cantati da Andy – siano essi originali o riletture – parlano di solitudine, desiderio, fede, trasformazione e ascolto interiore. Sono testi che non cercano di spiegare il mondo, ma di abitarlo poeticamente, con la voce come strumento di rivelazione. Potremmo dire che Bey canta come se ogni canzone fosse un sacramento profano. La sua tecnica , mai esibita ma sempre presente, è quella dell’equilibrio tra controllo e abbandono. Il vibrato è usato con parsimonia, il falsetto come un filo di luce che squarcia le tenebre, la cavata della voce sempre rotonda, vellutata, intrisa di malinconia. Ma non è solo la forma a stupire: è il contenuto che la sua voce veicola. In un’epoca in cui molte interpretazioni vocali cercano l’effetto immediato, il cantante di Newark preferiva il lento accumulo di senso, l’allusione, il sottinteso. È un cantore dell’invisibile.
Il cantante di Newark non ha lasciato dietro di sé una «scuola», né tanto meno uno stile replicabile. Quello che ha trasmesso è un atteggiamento artistico radicale, una postura esistenziale nei confronti del repertorio, della performance e – in definitiva – del pubblico. Ed è proprio in questa invisibile eredità che si manifesta la sua influenza: non nell’imitazione, ma nella trasformazione. Per concludere, l’influenza di Andrew W. Bey va letta non nei tratti vocali che altri potrebbero averne mutuato, ma nella lezione etica che la sua arte continua a suggerire: che cantare può essere un atto di verità, una forma di resistenza interiore, una pratica di presenza radicale in un mondo distratto. All’indomani della sua morte , il mondo del jazz ha perso non solo una voce eccezionale, ma un pensatore sonoro, uno dei pochi artisti capaci di interrogare il repertorio americano da una prospettiva interrogativa e non nostalgica. La sua eredità resta viva non tanto in termini di emulazione stilistica – perché il cantante di Newark è, per sua natura, inimitabile – quanto nella lezione profonda che ci ha lasciato: la musica come atto di verità, come linguaggio del cuore che non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare. In definitiva, l’influenza di Andrew W. Bey non si misura in termini di «scuola» o «stile», ma in termini di atteggiamento artistico; egli ha aperto uno spazio per una vocalità jazz più intima, più spirituale, più autentica, soprattutto in un’epoca in cui la velocità e la spettacolarizzazione dominano, la sua eredità è un invito a rallentare, ad ascoltare, a cercare il significato profondo dietro ogni nota. In definitiva, analizzare e comprendere Andy Bey non significa solo comprendere un cantante. Vuol dire interrogarsi sulla possibilità di una voce autentica nel mondo contemporaneo, su come l’arte possa essere un luogo di resistenza interiore, su cosa significhi «cantare» nel senso più profondo del termine, ossia dare voce all’indicibile.
