«Live At Woodstock Town Hall» di Stu Martin & John Surman, tra avant-jazz e sperimentazione rock (Dawn, 1975)

Bastano solo trentasei minuti – questa la durata del disco – per essere risucchiati in una spirale di sonorità abrasive, ispide, ma stimolanti al contempo, in cui emerge la forza della qualità rispetto alla quantità…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando si parla di jazz d’avanguardia, pochi musicisti riescono a bilanciare innovazione e radicalità idiomatica con la stessa intensità di John Surman, polistrumentista inglese, e Stu Martin, vero nome Stuart Victor Martin, batterista americano con collaborazioni altolocate, scomparso a quarantadue anni nel 1980. «Live at Woodstock Town Hall» è la testimonianza di un incontro al vertice tra due artisti non convenzionali che, pur condividendo un background legato ai gruppi di John McLaughlin e Dave Holland, si spingono oltre i confini prestabiliti, abbracciando una forma espressiva anarchica e altamente cinetica. Fin dalle prime battute, si avverte l’influenza della fusion, ma più che rimandare direttamente a McLaughlin, l’album evoca gli esperimenti più spinti dei Soft Machine, in particolare quelli del terzo album. Come nella tradizione della band britannica, il live lascia spazio a lunghe cavalcate strumentali, dove l’improvvisazione diventa i motore mobile, alimentato in perpetuo da una dinamo creativa, la quale guida l’ascoltatore attraverso un flusso sonoro in costante divenire.
Tuttavia, questa è solo una faccia della medaglia. L’altra affonda le sue radici nella cultura avant-jazz anglosassone, una dimensione sonora più astratta e ricercata, che rappresenta il vero cuore pulsante del progetto. Surman, al baritono, si muove con agilità tra perlustrazioni melodiche e acrobazie armoniche, dimostrando una versatilità sorprendente. Martin, dal canto suo, non si limita ad intersecare i fili di un ordito ritmico più regolare, ma arricchisce la performance con l’uso del sintetizzatore, creando una tessitura elettronica che si intreccia perfettamente con gli strumenti acustici. Bastano solo trentasei minuti – questa la durata del disco – per essere risucchiati in una spirale di sonorità abrasive, ispide, ma stimolanti al contempo, in cui emerge la forza della qualità rispetto alla quantità: ogni brano è denso di energia e tensione, lasciando un’impronta indelebile dell fruitore, nonostante la brevità complessiva del progetto.
Surman e Martin riescono a costruire un dialogo musicale sinergico, dove l’improvvisazione non sfocia mai nel caos ma resta sempre guidata da una logica interna, un equilibrio tra istinto e controllo che rende l’ascolto appagante. Il momento più alto si raggiunge con «Master Of Disaster», momento in cui il duo sembra trovare il perfetto connubio tra libertà espressiva e precisione tecnica. L’album è stato successivamente pubblicato come parte di un doppio CD intitolato «John Surman and Friends: The Dawn Sessions» confermandone la rilevanza nell’articolata carriera del sassofonista britannico. Nel complesso, «Live at Woodstock Town Hall» è una gemma rara per gli appassionati di jazz sperimentale, un incontro duale che racchiude inventiva, ricerca sonora e profondità interpretativa, divenendo una scelta imprescindibile per chiunque aspiri ad ottenere un’esperienza totalizzante, quasi olistica, in grado di stimolare sia la mente che i sensi.
«The Incredible Voyage», il brano di apertura, traccia subito la rotta di navigazione dell’album: un itinerario sonoro senza confini, dove sax e batteria s’interfacciano con il sintetizzatore. La struttura è aperta e disinibita, lasciando spazio a momenti di puro lirismo da parte di Surman, il cui sassofono baritono oscilla tra linee melodiche abissali e fiammate improvvisative. In «The Mystery Of The Cloth» il duo perlustra atmosfere più cupe e sospese, emanando un senso di tensione quasi cinematografico. Il sintetizzatore gioca un ruolo chiave nell’imbastitura del tessuto sonoro, generando un’onda pulsante su cui Surman costruisce fraseggi asimmetrici e sdrucciolevoli. Siamo alle prese con un modulo espressivo che esemplifica perfettamente la fusione tra jazz d’avanguardia ed elettronica. «Master Of Disaster» – come già accennato – costituisce probabilmente il momento più incisivo del live, trascinando la compliance e la compattezza del duo all’apice della tensione. Surman si lancia in assoli spiralici, alternando ruggiti di potenza a narrazioni più riflessive. Martin, dal canto suo, sfodera un drumming forsennato, promulgando un senso di urgenza e di dinamismo che rende questo componimento il clou dell’album. «The Pirate» rappresenta il lato più propulsivo ed estremo del disco: Martin alterna pulsazioni elettroniche e interventi percussivi avulsi dalle normative vigenti, mentre Surman si avventura in territori armonici audaci ed accidentati. L’intercapedine fra tensione e rilascio, tra ritmo e spazio è fondamentale, con una struttura che ricorda vagamente la libertà formale del free jazz europeo. «A Tale Of Two Mice», forse il tratto più melodico ed accessibile, dislocato fra momenti di respiro e introspezione. Surman modula il tono in maniera più lirica, quasi evocativa, mentre Martin lo sostiene con un groove più controllato rispetto alle tracce precedenti. Il componimento evidenzia la versatilità del tandem e la sua capacità di distillare ambientazioni dense di significato. In chiusura, «The Falconer» che sembrerebbe condensare tutte le caratteristiche dell’album: improvvisazione, indagine sonora ed un urgente senso narrativo. Il tema iniziale, vagamente meditativo, si dirama in un crescendo di tensione, con Surman e Martin che si spingono sempre più verso territori espressivi inaspettati. Nel complesso, ogni traccia di «Live at Woodstock Town Hall» contribuisce a plasmare una dimensione aurale unica, mescolando il jazz-rock più energivoro con i dettami più estremi del panorama avant-garde.

