Un personaggio da scoprire o da riscoprire: Bennie Green con «The 45 Session», (Blue Note, 1958 /1975)

L’essenza strumentale di Bennie Green va cercata nel suono che riusciva a riprodurre: più ampio, più «grasso» e più naturale di quello di qualsiasi altro trombonista emerso dopo la fine della seconda guerra mondiale.
// Francesco Cataldo Verrina //
«The 45 Session» è un album postumo del trombonista Bennie Green contenente materiale registrato nel 1958 e per la prima volta pubblicato nel 1975 come «Minor Revelation». La definitiva denominazione nasce dal fatto che i vari brani, originariamente, erano stati destinati al formato 45 giri. Il disco è immerso in un’atmosfera piacevole e rilassante, dove tutto il line-up ha la possibilità di esprimersi, ma senza eccessi o fughe verso l’ignoto: contiene finanche un paio di tracce cantate dello stesso brano. Bennie Green trombone, Eddie Williams sassofono tenore, Sonny Clark pianoforte, Paul Chambers basso, Jerry Segal batteria e Babs Gonzales voce sulle tracce 5 e 9 costituirono un aggregato molto coeso ed affiatato, riuscendo a create quella classica ambientazione del mainstream Blue Note di fine anni ’50, spesso più hard swing che hard bop, con un piede nel presente e due nella tradizione.
Tutte le tracce hanno un eccellente gancio melodico, poiché, come accennato, destinate al mercato dei singoli da 7 pollici, che proprio in quel periodo grazie alla spinta del Rock’n’Roll, stava iniziando a conquistare i giovanissimi. Green fu un eclettico anticonformista ed il suo approccio al trombone non si adattò mai ad un solo linguaggio. L’essenza strumentale di Bennie Green va cercata nel suono che riusciva a riprodurre: più ampio, più «grasso» e più naturale di quello di qualsiasi altro trombonista emerso dopo la fine della seconda guerra mondiale. Armonicamente, Green aveva beneficiato della stretta amicizia di Dizzy Gillespie durante la militanza nell’orchestra di Hines, ma non fu mai un vero bop player; il suo repertorio tipico era fatto di succose ballate, blues, swing e standard molto popolari, a volte arricchiti da un tocco di esoticità caraibica. Green era un vero specialista nei singoli a presa rapida, tanto che tutti i brani contenuti in questo album, provenienti dalla terza di quattro sessioni tenute in casa Lion nel periodo marzo ’58 / gennaio ’59, erano stati emessi dalla Blue Note su solo 45 giri e mai pubblicati su un 33 giri. Una nota curiosa: non si conosce l’autore del brano più incisivo dell’album, l’opener «It’s Groovy», ma potrebbe essere di Green, dato che la linea melodico-armonica ha molto in comune con altri suoi componimenti. Gli assoli più evidenti sono ad appannaggio del band-leader, di Williams e Clark, mentre la retroguardia rimane più defilata. Williams va subito in ebollizione con fraseggi semplici e note ripetute, richiamando alla mente Dexter Gordon in termini di sonorità, ma è molto fluente e arioso in linea con lo stile chicagoano del dopoguerra, tipico dei tenoristi straight-ahead. Sonny Clark si comporta da quell’eccelso pianista quel era, molto apprezzato non solo dalla scuderia Blue Note.
L’ordine di entrata degli assoli segue la medesima procedure anche su «On The Street Where You Live», da «My Fair Lady» che riceve un trattamento di bellezza ringiovanente. Il trombone in sordina di Bennie Green diventa il punto culminante di «Can’t We Be Friends?» che si apre con un convincente assolo di Williams, mentre a seguire Green e Clark danno sfogo alla loro plateale inventiva, sostenuti dal basso di Paul Chambers che innalza un peana agli Dei. In «Ain’t Nothin’ But The Blues», Williams, Benny e Clark disegnano la più semplice delle forme jazz attraverso un mid-range blues molto gradito al capo tribù, mentre i due fiati passeggiano su un tappeto rosso di note steso ai loro piedi dal pianoforte. La prima facciata dell’album si conclude con la prima take di «Encore» in una versione cantata e scandita come un vecchio jive, più secca e ruvida rispetto a quella posizionata sul finale dell’altra facciata. La B-Side si apre con «Bye Bye Blackbird», dove Eddie Williams, tira fuori la cassetta degli attrezzi, improvvisando come il miglior Dexter Gordon, tampinato da Green e Clark come dei segugi intenti a riportare il tema alla struttura iniziale prima di un decisa impennata da parte del bassista Paul Chambers. «Minor Revelation», arricchita da un lieve hand-clapping incoraggia il pianista nell’introduzione del tema, mentre Green entra in scena deciso, pedinato dall’assolo di Williams che innalza la temperatura del brano ed il suo temperamento esecutivo, finendo presto per disintegrarsi tra le spire melodizzanti del piano di Clark. «Why Do I Love You?», di cui si ricorda un’ottima versione di Charlie Parker del 1951, sguazza nei liquidi e scorrevoli assoli di Green, Williams, Clark, mentre Chambers si ritaglia un frammento di gloria sul finale. L’album si conclude con la seconda take cantata di «Encore», in un’irresistibile atmosfera hard-swingin’ dal vago sapore retrò. La collaborazione di Bennie Green con la Blue Note, anche se breve, fu alquanto fruttuosa. Dopo aver lasciato l’etichetta di Lion, il trombonista registrò per la Bethlehem, la Time e la Jazzland, prima di un paio di sessioni finali, insieme a Sonny Stitt, per la Cadet (1964) e la Prestige (1965). La sue ultime apparizioni pubbliche documentate risalgono al Newport Jazz Festival del 1969 e del 1972. Green morì a soli 44 anni, il 23 marzo 1977 dopo una lunga malattia.
