//di Guido Michelone //
Avevano lasciato Sonia Spinello, contitolare assieme al pianista Roberto Olzer del notevole Silence (2022) in quartetto con Eloisa Manera (violino) e Daniela Savoldi (violoncello): un sound cameristico con dodici brani, in puro stile europeo, dove la splendida voce è contrappuntata da interventi limpidi ma soffusi, quasi a ribadire il valore dell’introspezione anche in musica, con il canto jazz femminile che torna in Italia a frequentare la ricerca, tentando via una autoctona e originale, come accade anche al nuovo album Flow, di cui la protagonista tratta in questo lungo approfondito dialogo, in esclusiva per Doppio Jazz.
D: In tre parole chi è Sonia Spinello?
R: Eclettica, sperimentatrice, curiosa.
D: Raccontaci in breve la tua attività professionale.
R: Sono una cantante, una compositrice, un’insegnante di canto e una terapista olistica. La mia attività professionale è varia e articolata: per la maggior parte del tempo mi dedico all’insegnamento, ho una Scuola di Musica, siamo in dodici insegnanti, e mi occupo dei miei allievi a 360°. Per come vivo il mio lavoro non riesco a scindere “corpo, energia e voce”. Porto in giro per l’Italia e l’estero i miei seminari e laboratori esperienziali che intrecciano i miei due “amori”: la voce e il mondo olistico. Per questo motivo continuo a studiare, aggiornarmi e fare ricerca per poter crescere dal punto di vista professionale, mentre il resto del tempo lo dedico ai concerti, scrivo, compongo, indago e mi circondo di musicisti meravigliosi con cui condividere idee, esperienze, progetti discografici e teatrali.
D: A che età e come hai scoperto la musica? Che ricordi hai da bambina?
R: In realtà prima dei miei ricordi ci sono quelli di mia madre e di mia nonna che mi raccontavano che i miei primi “suoni” sembravano cantati, ho iniziato a camminare e cantare praticamente nello stesso momento, è sempre stato il mio modo di esprimermi e comunicare nel mondo. In casa mia si è sempre ascoltata tanta musica, la radio era accesa per la maggior parte della giornata, mia madre canticchiava in continuazione, lei mi ha trasmesso un amore infinito per Stevie Wonder ed io imparavo tutte le melodie che sentivo alla radio, alla TV o da qualsiasi parte mi trovassi. Ero attratta dalla musica in una maniera “viscerale”: memorizzavo e riproducevo, a volte cambiando alcuni frammenti, inventavo canzoncine, insomma cantavo sempre. Un giorno ci trasferimmo dal Lago Maggiore in provincia di Milano e scoprii presto che il mio vicino di casa, un ragazzino che all’epoca aveva solo uno o due anni più di me suonava il pianoforte. Per me fu un’illuminazione: avevo dieci anni e il mio obiettivo era tornare a casa da scuola, finire i compiti in fretta per potermi sedere sotto al portico di fianco al muretto che divideva le nostre case e poterlo ascoltare. Lui studiava e suonava molto, avrei voluto essere al suo posto, aveva un bellissimo pianoforte mezza coda, il suono mi incantava, sapevo che la musica avrebbe fatto parte della mia vita, avrei voluto diventare una pianista cantante, lo sapevo già a dieci anni.
D: Cin sono state all’epoca delle illuminazioni?
R: A circa dodici anni scoprii Billie Holiday e qualcosa in me cambiò definitivamente. La storia è lunga e particolareggiata: se penso alla mia infanzia mi sembra di guardare un film che per certi versi non mi appartiene. A quindici anni cantavo con delle band nelle cantine e nei sottoscala, a diciassette anni ho iniziato a studiare canto e a girare nei locali con i primi gruppi. Da lì in poi non ho mai smesso di studiare e cantare, ho fatto tanta gavetta e tante esperienze diverse, ho conosciuto centinaia di musicisti che mi hanno insegnato molto, rifarei tutto, sono stata fortunata. Dopo parecchie difficoltà e peripezie sono riuscita a realizzare il mio “sogno” almeno in parte: non sono diventata una pianista, mi accompagno e uso il pianoforte solo per comporre, però vivo di musica, scrivo ed insegno… sono felice!
D: Perché proprio la voce o il canto?
R: Già da bambina sognavo di cantare. Ho scoperto molto presto gli effetti benefici della voce: quand’ero molto piccola chiedevo a mia sorella di cantare delle piccole e semplici melodie che mi inventavo, ed io contemporaneamente a lei armonizzavo e costruivo altre melodie. In realtà solo dopo molti anni scoprii che quello che stavo creando, quel “cantare” insieme a lei, ci tranquillizzava entrambe, mi faceva stare bene e già nelle mie prime esperienze con le prime band ho sempre ricercato l’aspetto corale, l’uso della voce in tutte le sue forme. Mi sono appassionata ed avvicinata sempre di più a questo stupendo strumento, ho voluto conoscerlo, esplorarlo, andare in profondità, anche dal punto di vista energetico, fisiologico e strutturale . La voce è una cura, la voce è purezza di espressione, i miei studi e le mie ricerche mi hanno condotta e mi stanno conducendo sempre di più in questo sconfinato universo. Perché la voce? “Perché non saprei come altro raccontare di me, di quello che mi circonda, perché conosco il suo potere, la forza che risiede nell’esprimersi attraverso di essa, curare ferite, aiutare le persone, lasciare tracce di una vita attraverso il suono primordiale che ci rende riconoscibili e unici”.
D: Parliamo ora di Flow: innanzitutto il titolo, perché?
R: Non poteva essere diversamente: Eugenia ed io ci siamo immerse dal primo istante in una “bolla”, in una modalità quasi “meditativa”, abbiamo composto e creato i brani in una sorta di flusso di coscienza, siamo scivolate in un fiume di emozione e ci siamo abbandonate, galleggiando e lasciandoci cullare l’una dall’altra, tutto è arrivato in maniera così naturale e profonda, come se sgorgasse dalla terra. “Flow” è il raccolto della primavera, è il fiore che spunta dal cemento, è una margherita che si apre timidamente dal disgelo dell’inverno, è il vento che ti sorprende e ti accarezza dolcemente il viso, è il tormento che esce per non ferire più, è il messaggio chiuso in una bottiglia gettata nel mare.
D: Come nasce la collaborazione con Eugenia Canale?
R: Sono stata io a contattare Eugenia. Nel periodo della pandemia, costretti in casa, ho ascoltato ancora più musica, conoscevo Eugenia perché avevamo collaborazioni in comune, entrambe ci stimavamo e ci ascoltavamo a vicenda, ma non ci eravamo mai incontrate. Un giorno la chiamai per proporle di incontrarci, avevo in mente un progetto musicale e mi sembrava una buona occasione per conoscerci umanamente e professionalmente. Il nostro colloquio telefonico fu di grande intesa fin da subito, così iniziammo a lavorare insieme su “IncantAutrici”, un progetto che coinvolse anche Francesca Corrias e Daniela Spalletta, ma in realtà il tempo ci portò sempre di più verso quello che poi divenne “Flow”.
D: Gli altri musicisti: una formazione anomale rispetto al jazz o al pop: scelta consapevole?
R: Scelta pensata, dettata dalla ricerca timbrica. Man mano che avanzavano le composizioni avevamo sempre più chiaro il “suono” che volevamo su ogni brano e il suono globale del disco. Cercare strumenti come il duduk, il liuto curdo o il violoncello è stato naturale: avevamo in testa un mondo sonoro che necessitava non solo di quegli strumenti ma anche di quei musicisti. Ognuno di loro, con la sua storia e la sua personalità, ha contribuito ad arricchire questo nostro flusso musicale.
D: Con quali modalità (anche personali) ti rapporti con i tuoi ‘colleghi’ o con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?
R: Credo che ogni incontro sia fonte di scambio e di crescita personale e credo di mettermi sempre dalla parte di chi sa ascoltare, non mi pongo limiti, se sento che dall’altra parte c’è sintonia e autenticità, “lascio andare”, condivido il mio vissuto musicale e personale. Scambiare le esperienze è un grande arricchimento, cerco di dare tutta me stessa, mi ritengo una persona generosa e spesso incrocio persone che lo sono nei miei confronti. Più il tempo scorre e più ho bisogno di circondarmi di persone profonde con cui “scavare” nell’intimo dell’essenza personale e musicale.
D: Ora le musiche, ovvero forme e contenuti dell’album. Di cosa parla o’racconta’?
R: Ogni brano ha una storia, una sua personalità, un suo messaggio “racchiuso”. Il disco si apre con “In every existence”: una sorta di mantra che invita a riflettere sulla bellezza dell’esistenza, attraverso ogni giorno che passa. “In ogni esistenza, risiede un miracolo che si manifesta attraverso i raggi del sole che nutrono il nostro corpo e la nostra anima”. La seconda traccia, “Embrace”, parla di come si può definire l’amore e l’abbraccio, del potere di essere abbracciati e saper abbracciare, parla di spiritualità, di come il divino risieda in ognuno di noi e di come dovremmo essere in grado di riconoscere chi ci può sostenere durante il nostro cammino. La quinta traccia, “Answers from the fog”, è nata da uno stato di “trance”: questo brano è arrivato come la pioggia, all’improvviso, ha scatenato una vibrazione profonda, un brivido in tutto il corpo. Le parole sono nate insieme con la melodia, sovrapponendosi ai tasti e alle corde del pianoforte, e in meno di dieci minuti il brano era venuto alla luce. Questo brano parla della suggestione che mi ha dato la nebbia, di un luogo in cui mi sono ritrovata, un luogo senza tempo, dove l’anima riconosce di aver viaggiato di corpo in corpo, parla di esperienze lontane, di ricordi sospesi a metà tra il mondo reale, il modo onirico e il ricordo di un mondo che ora non c’è più. Posso senz’altro dire che è un disco che ha una grande profondità di suoni, di messaggi e di culture, questa musica racchiude melodie ed echi di culture diverse e lontane, sogni e speranze.
D: Si avvertono molte influenze nel disco: musica jazz, folk, etnica, classica, contemporanea: secondo te c’è un sound prevalente?
R: Non credo che nessuna di queste “influenze” prevalga sull’altra. In questi brani, in questo mondo sonoro che nessuno finora ha ancora ben definito, c’è quel “flusso” spontaneo che ha raggiunto la giusta fusione di timbri, colori, melodie ed espressione per essere autentico, naturale e vivo.
D: Il tuo pensiero sulla musica jazz?
R: Per me il jazz è molte cose. Sicuramente qualcosa di cui mi sono innamorata molti anni fa e, con l’evoluzione e le contaminazioni che questo “genere” ha avuto negli anni, il cambiamento di stile è avvenuto insieme a quello mio personale, sia in termini di età che di maturazione personale. Ho amato quasi tutti questi “cambiamenti” e contaminazioni, anche se alcune fasi del jazz le ho “bypassate”.
D: A parte Flow, dei dischi da te registrati quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari?
R: Flow è il settimo disco che pubblico. Uno di questi mi vede solo nelle veste di arrangiatrice: è un disco per sestetto vocale dove ho curato arrangiamenti e scrittura di alcuni brani inediti ma non canto, mentre per gli altri sei ci sono situazioni diverse a seconda degli album. Senza dubbio il disco a cui sono più legata è “Sospesa”, uscito nel 2019 sempre per Abeat Records, perché è il primo di cui mi sono occupata di scrittura, arrangiamenti, scelta degli strumenti e produzione, con l’aiuto di Roberto Olzer che si è occupato di alcune parti dedicate agli archi . “Sospesa” è un disco autobiografico, un racconto della mia esistenza fino a quel momento.
D: A che cosa stai lavorando ora e nei prossimi mesi?
R: In realtà sto continuando a scrivere per un “continuum” di Flow. Per me questo disco ha aperto una porta su un mondo che mi appartiene e mi risuona in maniera incredibile e nelle prossime settimane Eugenia Canale ed io ci troveremo per parlarne e sperimentare, quindi, credo proprio che ci sarà una “seconda parte”. Nel frattempo ho appena ultimato la scrittura di un nuovo progetto insieme ad Alessandro Bianchi che sarà proposto in quartetto con musicisti splendidi e, dopo anni, torneranno a farne parte la batteria e il contrabbasso.