Eric Dolphy: Il Magnificatore

Ogni nuovo libro di Francesco Cataldo Verrina rappresenta un una storia nella storia, un itinerario non prevedibile, specie se trattasi di una monografia, in cui si aprono scenari inediti sulla figura del personaggio in oggetto – in questo caso Eric Dolphy – che viene spesso ricontestualizzato ed analizzato con strumenti non convenzionali, offrendone una differente chiave di lettura ed evidenziandone talune zone d’ombra o certi lati oscuri, sovente tralasciati dalla critica, vuoi per dimenticanza, vuoi per non conoscenza.

D Innanzitutto perché ha scelto questa definizione per Dolphy: il magnificatore?

R. Magnificatore è colui che magnifica, esaltatore, decantatore, ma soprattutto chi apporta magniloquenza in un qualsiasi ambito del sapere e della conoscenza. Si pensi, ad esempio, ad una frase semplice e banale come «acque pure e polveri meravigliose» che il D’annunzio trasformò in qualcosa di poetico: «acque angelicali e polveri mirifiche».

D. Quindi per una questione estetica?

R Sai, «Magnificatore» è un termine poco usato in Italia, specie in riferimento ad una persona fisica, ma Eric Dolphy è stato soprattutto questo: un artista capace di ingrandire e rendere speciale tutto lo scibile sonoro con cui veniva a contatto.

D In ogni caso la carriera di Dolphy è stata piuttosto in salita?

R Certo, la parabola ascendente della sua breve vita terrena si è consumata in un contesto ambientale e sociale accidentato e pieno di insidie, nonché esacerbato da una critica ostica e supponente che ne metteva costantemente in discussione l’incessante lavoro di sperimentazione e di ricerca; soprattutto quel suo modo di suonare in maniera non convenzionale, in cui sembrava voler divorare le note, e mai ligio alle normative vigenti del dilagante bop che, dopo la rivoluzione operata da Parker, aveva vissuto di rendita per oltre quindici anni. Il jazz appariva fermo ed avvitato su sé stesso, mentre, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, musicisti come Dolphy tentavano di rimodularne sia la sintassi che le regole d’ingaggio.

D Va detto, però, che i pareri su Dolphy siano sempre stati contrastanti. Non so se lei sia d’accordo?

R Nell’arco di pochi anni Dolphy divenne un ingranaggio importante nella produzione di alcuni jazzisti che vedevano oltre l’orizzonte di una ripetitività manieristica, una comoda «normalità» o certe posizioni acquisite, ma che come lui erano animati da un perforante desiderio di cambiamento. Per contro, molti colleghi avevano il timore di suonare con lui; tanti, come lo stesso Miles Davis, ne criticarono l’operato; altri invece ne intercettarono le potenzialità, ne compresero il talento e ne trassero vantaggi accogliendolo nel loro team di lavoro come sideman, arrangiatore o co-leader. Tra questi, John Coltrane che ne intuì le potenzialità rimanendo perfino influenzato da quel metodo compositivo ed esecutivo del tutto inedito e non conforme al vernacolo tradizionale. Le parole di Trane sono alquanto eloquenti: «Eric si trovava a New York, dove il mio gruppo stava lavorando, e aveva voglia di suonare. Così gli ho detto di unirsi a noi e lui l’ha fatto, trasformandoci tutti. Fino a quel momento mi ero sentito a mio agio con un quartetto, ma lui è arrivato ed è stato come avere un altro membro della famiglia. Aveva trovato un altro modo per esprimere la stessa cosa che noi stavamo cercando di fare in modo diverso».

D Anche Mingus, sin dall’inizio, gli diede molta fiducia, forse più di chiunque altro?

R Verissimo! Charles Mingus, per lungo tempo, ne fece il suo alter ego imponendolo come uomo di punta in alcuni capolavori discografici ad imperitura memoria. Con Mingus, Dolphy fu partner perfetto e suggeritore, capace di compensare spesso le carenze di altri componenti del line-up.A proposito di «Meditations On Integration», capolavoro del genio di Nogales, contenuto in «Charles Mingus: More Than A Fake Book», il contrabbassista racconta: «Nel nostro tour europeo del 1964 la gente non ha mai sentito «Meditations» nel modo in cui doveva essere eseguita con una tromba (…) La maggior parte della melodia fu lasciata fuori perché Johnny Coles svenne sul palco all’inizio del tour. Non me ne sono nemmeno reso conto, non me ne accorsi finché Eric Dolphy continuò a suonare, richiamando la mia attenzione sul fatto che qualcosa non andava». Lo stesso Mingus raccontò che questa canzone «nacque da un articolo di giornale che Eric Dolphy lesse, in cui si descrivevano le condizioni del Sud, compreso il fatto che le persone venivano separate in prigioni costruite specialmente per quelli di pelle più scura, con filo spinato e recinzioni elettriche (…) Non avevano ancora forni e rubinetti a gas, ma avevano recinzioni elettriche. Così ho scritto quel pezzo».

D Ci fu anche una certa stampa che si mostrò alquanto ostica nei confronti di Eric Dolphy. Esiste una motivazione ben precisa?

R Purtroppo Dolphy venne maltrattato in vita dalla stampa e da taluni scribacchini, per ovvia miopia e scarsa lungimiranza, ma rivalutato post-mortem con tutti gli onori, perfino con una serie di riconoscimenti ufficiali. Il motivo vero è che fosse troppo avanti rispetto a quanti avevano un visione del jazz ristretta e conservativa. Nonostante l’esigua produzione discografica, solo sette album in studio, molti live, tanti pubblicati dopo la sua morte, il polistrumentista californiano si è trasformato nel corso dei decenni in un’icona, nonché in un polo magnetico di attrazione per le avanguardie tout-court fino ai nostri giorni. Riconosciuto come uno dei più geniali innovatori in ambito post-bop, ha finito per diventare una sorta di indicatore di marcia per i dirottatori e per i propugnatori del jazz free-form, pur avendo rispettato sempre la «regola».

D Neppure la fortuna fu troppo dalla sua parte, almeno in vita.

R Quantunque abbia lasciato orme indelebili sul cammino del jazz moderno, venne strappato al mondo degli uomini prima che potesse dare il meglio di sé. Nella sua «Biographical Encyclopedia Of Jazz», Leonard Feather cita Mingus che si complimenta con Dolphy e dice: «Eric conosceva quel livello di linguaggio a cui pochi musicisti potevano arrivare». Per un beffardo gioco del destino, dopo aver registrato il suo disco più famoso, «Out To Lunch», il musicista losangelino rilasciò questa dichiarazione riportata sulla copertina: «I’m on my way to Europe. Why? Because I can get more work there, playing my own music, and because if you try to do anything different in this country, people put you down for it» (Sto andando in Europa. Perché? Perché là posso ottenere più lavoro suonando la mia musica, soprattutto perché se tu cerchi di fare qualcosa di diverso in questo nostro Paese, la gente ti rende la vita difficile).

D Qualcuno ritiene che in tutto questo ci fosse uno strano presagio. Mingus era piuttosto superstizioso.

R Quello di Dolphy fu un biglietto di sola andata. Nonostante sulla copertina dello stesso album, all’interno di un misterioso orologio a sette lancette posto in primo piano ci fosse la scritta «Will be back». Eric non fece mai più ritorno in patria. Anche in questo saluto, più simile ad un battibecco finale tra Mingus e Dolphy, prima del distacco, potrebbe esserci un presagio. Rivolgendosi all’amico Eric, mentre si chiede per quanto tempo egli sarebbe rimasto in Europa, il contrabbassista domanda: «C’è stata forse una lite tra le nostre mamme prima ancora che nascessimo?». Dal canto suo Dolphy borbotta: «Mi mancherà il tuo culo». Era una metafora, perché il genio di Nogales, spesso gli girava le spalle, ma era un segnale prestabilito, che poteva significare cambio di ritmo o indicare il passaggio di consegne ad altro solista. Mingus, specie sul palco, dirigeva i suoi musicisti agitandosi continuamente. Esisteva un codice verbale fatto di grugniti ed uno gestuale basato su strane movenze. Il burbero contrabbassista diceva spesso: «Mi fa male il collo a furia di oscillare o di girarmi da una parte e dall’altra».

D Fortuna, presagi o congetture, ma lei ne traccia un profilo piuttosto solido ed a mio avviso incontestabile, specie sul piano tecnico-strumentale.

R Al netto delle congiunture, delle congetture, delle fatalità e delle coincidenze, non si può proprio affermare che Dolphy abbia avuto una vita facile e che la fortuna sia stata molto spesso dalla sua parte. Nelle pagine di questo libro ho cercato di portare in superficie gli elementi di unicità più caratterizzanti dell’opera dolphyana, attraverso un’analisi della sua discografia, tentando di cogliere quel tangibile contributo di innovazione progettuale che lo ha reso uno degli strumentisti-compositori più studiati e stimati, ma soprattutto uno dei più rilevanti «riformatori» della sintassi jazzistica e della storia della musica improvvisata del Novecento. Oggi, ex-post, nonostante le Parche abbiano pensato di reciderne il filo della vita a soli trentasei anni, Eric Dolphy si staglia maestoso come un gigante in mezzo ad una miriade di figure, alcune diafane ed altre sbiadite, sia pure importanti, longeve e con interminabili discografie.

Le indicazioni dell’autore sono state alquanto esaurienti, dunque vi invito a leggere libro. «Eric Dolphy: il Magnificatore» è certamente il modo migliore per ampliare il vostro spettro conoscitivo rispetto a un personaggio rilevante della storia del jazz moderno. Sul mercato non esiste nulla di simile, almeno con questa tipologia d’impostazione narrativa.

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