// di Francesco Cataldo Verrina //

La musica di massimo Urbani è stata come un forte boato capace di svegliare dal torpore improvviso il jazz italiano, che in quello stralcio del secolo scorso, specie a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, annaspava in un mondo di indecisioni, sbattuto tra fusion, contaminazioni ed alterazioni armoniche. Massimo Urbani era un musicista nitido nelle intenzioni e chiaro nella sua capacità di essere jazz nel senso più letterale del termine: un moderno Charlie Parker che, senza scimmiottarne lo stile, suonava con la rabbia di John Coltrane, la spiritualità di Pharoah Sanders e l’insofferenza di Ornette Coleman e Archie Shepp per le normative vigenti del vernacolo jazzistico manieristico e «tradizionalista» (non tradizionale). Quel mondo di regole che mal si attagliavano ad una vita vissuta ad alta velocità, come se volesse divorare il mondo in un battibaleno. Massimo Urbani è stato una lunga sensazione in un tempo piccolo. Infinito ed immortale il suo tempo come divinità del jazz europeo, piccolo il tempo degli uomini: solo trentasei anni, fino a quel tragico 23 giugno 1993, quando le Parche decisero di recidere l’esile filo della sua vita. Un’esistenza giocata a carte scoperte sul ciglio di un burrone e alimentata da un’inquietudine interiore che era lo specchio di una musica priva di mezze misure e compromessi. Il 23 giugno del 2023, a trent’anni esatti dalla morte dello sventurato Urbani, la nuova Red Records di Marco Pennisi ha immesso sul mercato un disco inedito del sassofonista romano tratto da un concerto registrato a Bologna il 15 dicembre del 1982 e pubblicato con l’emblematico titolo di «30».

In quel periodo Massimo Urbani, venticinquenne, era nel pieno delle sue possibilità espressive ed attraversava un momento artisticamente vigoroso ed assai prolifico. L’album «Aeutopia» del 1979, acclamato dalla stampa internazionale, l’aveva consacrato portandolo a vincere il 18º Premio della Critica Discografica Jazz nel 1980. Fu proprio in quegli anni che Urbani regalò al mondo degli uomini alcune delle performance più cristalline e convincenti, quale testimonianza di un non comune talento, talvolta incontenibile e straripante. L’inedito «30» recentemente pubblicato dalla Red possiede tutta la forza espressiva di un indomito artista in grado di rivoltare la sintassi del vernacolo jazzistico, senza mai deragliare da un impianto melodico-armonico intellegibile, dove tutti gli eccessi e le eccedenze tecniche erano racchiuse in formula espressiva e in una tecnica d’ingaggio, sottesa da uno naturale sturm und drang, la quale non snaturava mai la regolarità tematica, la congruità del processo improvvisativo o la capacità di innescare una circolarità armonica ed armoniosa con i propri sodali. Nello specifico: Pietro Tonolo al sax tenore, Riccardo Zegna al piano, Luciano Milanese al basso e Gianni Cazzola batteria, tutti musicisti dall’ottimo pedigree capaci di stendere intorno al contralto di Urbani un rete a maglie larghe, permeabile e propedeutica alle sue potenti escursioni.

Il disco si snoda attraverso la riproposizione di cinque standard mediamente dilatati oltre i dieci minuti, a partire dalla classica «I’ll Remember April», che nelle mani di Urbani diventa brunita e sfuggente, sottolineando la capacita del sassofonista romano di essere anche un convincente balladeur, ma senza accomodanti smancerie di sorta, finalizzate ad una ludica captatio benevolentiae ma, soprattutto ne evidenzia l’abilità nel saper condurre un evergreen piuttosto logoro, su terreno espressivo non convenzionale, specie nella progressione finale, dove i demoni creativi lo trascinano senza sosta verso l’infinito, mentre la temperatura del groove s’intensifica; «Blue Train» di John Coltrane, e una torta divisa in due fette fra i sassofonisti all’opera: la partenza di Tonolo sembrerebbe dominante e forse esaustiva del tipico mood di Trane; per contro Urbani aspetta il suo momento e abilmente volge il tema verso una terra di confine non mappata, quasi all’interno di uno scenario lunare più sospeso, accidentato e fluttuante, proponendo una lettura della trama sonora del tutto personale e incapsulando il costrutto coltraniano in una dimensione altra, quanto meno sui generis. «Blue ‘N’ Boogie» di Dizzy Gillespie, dilatata sulla distanza di quasi diciassette minuti, diventa un prateria infinita, dove ciascuno dei sodali si lancia al galoppo e in cui Urbani fornisce la prova del nove delle sue capacità multidimensionali e mai ripetitive; «Recorda Me» di Joe Henderson mette sul piatto del line-up tutti gli effluvi, gli esotismi e le propensioni ispanico-caraibiche di Joe Henderson, in cui il tenorista Tonolo sembra sguazzare come un bimbo in un acqua-park trovando immediatamente la sua quasi scolastica compliance con la struttura ritmico-armonica del componimento. L’arrivo di Urbani, però, ricorda al modo che quello è jazz e non una fiesta latina, dove si suona e non si balla, si pensa e non si canta. Il contraltista inverte il percorso, disarcionando il sistema armonico, schiaccia e ingabbia la melodia rendendola molto più continentale, per poi liberarla in un lungo e più sofferto assolo. In «Snappin’ Out» di Hank Mobley, contenuta nell’album del suo autore, «The Flip» del 1969, si ripete lo stesso copione: Tonolo e Urbani si dividono i compiti e inizialmente sembrano piuttosto allineati a restituire alla platea della Tavernetta di Bologna, una versione quasi simile a quella originale, ma nella parte finale le Erinni s’impossessano del corpo di Urbani, il quale si scatena in un assolo devastante e torrenziale da accademia del jazz moderno. Al netto di ogni suggestione, l’inedito «30» di Massimo Urbano si sostanzia non come un viaggio a ritroso nel tempo o un trastullo per nostalgici, ma piuttosto come una pozione magica, tenuta nascosta per lungo tempo, la quale, una volta aperta, emana tutta la sua potenza benefica ed apotropaica, senza che il contenuto abbia perduto, con il passare degli anni, un minimo di efficacia e di modernità.

Massimo Urbani
2 pensiero su “«30», il disco inedito di Massimo Urbani, come una pozione magica liberata dal torpore del tempo”

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