«Ci troviamo di fronte ad un’inedita accoppiata tra un iconoclasta del jazz e un docente di conservatorio, ma il costrutto sonoro del Monaco funzionò egregiamente».

// di Francesco Cataldo Verrina //

Anche il più inesperto dei jazzofili, scandagliando la discografia di Monk, si accorge che molti album fondamentali provengono da registrazioni live. Tutto ciò ha determinato una certa similitudine delle track-list dovuta alla scelta dei pezzi eseguiti. Sappiamo che il Monaco non amava molto ricorrere agli standard o alle composizioni di altri musicisti. Fortunatamente un live-set, però, non è una compilation e le performance dal vivo risultano diverse l’una dall’altra, tanto da evitare l’effetto stucchevole della ripetitività dei brani da un disco all’altro.

La grandezza di Monk sta proprio nell’aver diversificato le versioni dei suoi componimenti più noti: quelle in solitaria sono differenti rispetto alle esecuzioni in trio, per non parlare dai cambiamenti apportati a quelle proposte in quartetto o quintetto. Con «Thelonious Monk Orchestra At Town Hall» si entra in una dimensione del tutto insolita, dove una manciata di classici monkish vengono eseguiti da una mini big band di dieci elementi. L’album in oggetto riflette il paradosso della musica di Monk, inizialmente descritta come spigolosa, idiosincratica, abrasiva cubista e, per i puristi del pianoforte, foriera di non poche stranezze ed incongruità. Negli anni ’40, ai primordi del bop, il Monaco non aveva mai ricevuto la medesima accoglienza di Dizzy Gillespie, Charlie Parker e di altri innovatori del jazz, ma negli anni ’50, progressivamente, il pianista divenne un punto di riferimento per l’universo jazzistico dell’epoca, raggiungendo il climax del consenso nel 1964, quando ebbe l’onore della copertina della rivista Time. Sembrava che il mondo circostante si adeguasse all’unicità del suo modo di sentire le cose, ma soprattutto la sua musica dimostrava di essere fruibile in qualunque dimensione o condizione.

Ne è la dimostrazione lampante questo concerto del febbraio 1959, dove i componimenti monkiani furono interpretati da un nutrito ensemble magnificato dagli arrangiamenti di Hal Overton, proveniente della Juilliard School of Music. Ci troviamo di fronte ad un’inedita accoppiata tra un iconoclasta del jazz e un docente di conservatorio, ma il costrutto sonoro del Monaco funzionò egregiamente, mostrando estrema adattabilità alle più disparate esigenze di performance e di arrangiamento. I due avevano lavorarono minuziosamente su parecchi originali del pianista prima di convocare un ensemble per alcune prove, quindi per il concerto e la registrazione. Hal Overton puntò su arrangiamenti piuttosto semplici guarnendo il suono senza mai infittirlo, ma soprattutto scegliendo strumenti che potessero favorire le dinamiche melodico-armoniche tipiche del modulo monkiano fatto di tonalità basse e ricche di cromatismi scuri e bruniti.

Il risultato fu un album vivace e coinvolgente, grazie ad Hal Overton che riuscì a trasportare i lemmi sonori di Monk in un’ambientazione di gruppo fruibile ed aggraziata. Spiccano su tutte «Little Rootie Tootie» e «Thelonious», ma il vero climax si raggiunge con «Monk’s Mood», che brilla grazie al trombone di Eddie Bert ed un ottimo bridge eseguito dal trombettista Donald Byrd, al quale Monk pare avesse detto: «Non suonare bebop sulle mie canzoni. Devi conoscere la melodia!»; dal canto suo Charlie Rouse si contiene al fine di conferire più compattezza all’impianto complessivo del brano. Monk risulta tonico e brillante per tutto il tragitto, ma specialmente in «Monk’s Mood» dove i suoi spostamenti ritmici producono effetti quasi allucinogeni. Nell’impasto orchestrale complessivo fu determinante anche la combinazione fra la tuba di Jay McAllister, il basso spugnoso di Sam Jones, il profondo sax baritono di Pepper Adams ed il veloce contralto di Phil Woods, che emerge in particolare con il suo volo ad uccello (parafrasando Bird) su «Friday The 13th». In «Little Rootie Tootie», l’intera prima linea della band esegue all’unisono l’assolo originale scritto da Monk unicamente per pianoforte. Una mossa azzardata in considerazione dell’affollamento e della diversità degli strumenti in gioco: tanti fiati che cercano di agglutinarsi insieme svilupparono un assolo vagamente frastagliato e qualche lieve incomprensione tra i sodali, ma impercettibile dal pubblico in sala e dai fruitori del disco. L’album alterna momenti esaltanti e malinconici, non sono da meno le insolite riletture orchestrali di altri due importanti voci di spesa del libro mastro monkiano come «Crepuscule With Nellie» e «Off Minor».

Dal punto di vista storico c’è da sottolineare che quando nel 1959 il pianista registrò «The Thelonious Monk Orchestra at Town Hall» la sua carriera era all’apice ed egli non veniva più considerato un outsider, a volte deriso, ma riconosciuto come uno dei principali architetti del jazz moderno. Il concerto registrato alla Town Hall ricevette molta attenzione mediatica quale tentativo da parte di Monk di presentare la sua musica in formato diverso dal solito. Ciononostante l’iniziale accoglienza della critica, relativamente alla performance dell’orchestra, fu alquanto tiepida. Erroneamente alcuni commentatori sostennero che i membri della band non avessero afferrato del tutto il senso della musica del Monaco, né il suo senso del ritmo.

Molti anni dopo, ex-post, sgomberato il campo dai soliti critici preconcetti, l’album e stato rivalutato e, come si usa dire, continua ad invecchiare bene come un vino di pregio, se non altro perché costituisce un unicum nel format dell’ensemble allargato, fatta eccezione per la successiva performance orchestrale del 1963 al Lincoln Center. Il fatto più evidente è che Monk compie l’impresa di aggiornare ancora una volta la sua discografia, modificando le stesse composizioni fino a renderle irriconoscibili ad ogni esecuzione. Nello specifico lo sforzo combinato di tutti i musicisti risulta fantasioso, anche se un po’ eccentrico. Sebbene se la maggior parte dei critici jazz raccomanderebbe «Thelonious Monk Trio», «Genius of Modern Music» piuttosto che «Brilliant Corners» o «Misterioso» come rito iniziatico e punto d’approdo alla religione del Monaco, anche «The Thelonious Monk Orchestra At Town Hall» potrebbe essere una rassicurante partenza per i neofiti di ogni razza, colore, età e provenienza geografica, nonché di qualsiasi ceto e censo.

Thelonious Monk

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