…sarebbe incongruo limitare la valutazione del quintetto a una dimensione scarnificata di jazz balcanico, per contro la forma idiomatica utilizzata, partendo da un una cellula creativa autoctona, ma decisamente up-to-date, approda ad un’imbastitura internazionale dell’abito sonoro…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il termine «balcanizzazione» può avere una connotazione negativa o positiva, a seconda dell’angolo visuale. Se parliamo di politica il segno è negativo, per contro il segno è positivo in termini musicali e jazzistici più precipuamente. I musicisti provenienti dall’Est Europa hanno un background musicale polimorfico ed un tasso artistico sovente superiore alla media continentale. La loro conoscenza del vernacolo jazzistico si basa su una lunga storia in massima parte di clandestinità. In quei luoghi, per lungo tempo dominati da regimi totalitari ed, oggi, governati da democrazie fragili, si è sviluppato un sound con marcate caratteristiche autoctone, contraddistinto da una «chiave ritmica locale» affine a quella afro-americana, mostrando una forte laicizzazione rispetto all’ortodossia jazzistica tradizionale.

Al netto di ogni divagazione storico-ambientale, il livello dei musicisti provenienti dall’area balcanica e dai paesi dell ex-cortina di ferro è di ragguardevole spessore compositivo ed esecutivo. L’album «Octave Up» del Shljuka Quintet diventa così una prova inconfutabile della nostra tesi. Ad abundantiam, il pianista, compositore e arrangiatore Aleksandar Jovanović, detto Shljuka, depone a favore della nostra asserzione e non manca di incutere stupore per la bellezza di un album di grana pregiatissima sotto tutti i profili. Le composizioni, ispirate da opere letterarie di autori serbi, dalla vita e dalla natura di quei luoghi, riflettono impressioni personali ed una singolare prospettiva sulle similitudini emozionali, sensorie e sonore tra la musica balcanica e le diverse fasi evolutive del jazz americano. «Octave Up» si sostanzia attraverso otto componimenti originali, dove Jovanović si propone attraverso una narrazione quasi letteraria della scrittura musicale, dalla quale sembrano affiorare fatti e personaggi in un intreccio melodico-armonico molto simile al plot narrativo di un romanzo o di un film. Va da sé, che sarebbe incongruo limitare la valutazione del quintetto a una dimensione scarnificata di jazz balcanico, per contro la forma idiomatica utilizzata, partendo da un una cellula creativa autoctona, ma decisamente up-to-date, approda ad un’imbastitura internazionale dell’abito sonoro, specie nell’assetto modulare del line-up contrassegnato da potenti progressioni basso/batteria/piano che rimandano ad una regola d’ingaggio molto contemporanea ed adottata in USA, in cui tromba e sassofono ricevono costantemente folate di energia pulita e rinnovata con la quale alimentano ed dilatano il range melodico dei singoli temi. Basta ascoltare l’opener «Five Or None» per avere già un quadro piuttosto chiaro della metodologia d’impiego usata da Jovanović e soci: il tema iniziale è introdotto dal pianoforte con un elevato tasso di camerismo classicheggiante, per contro al primo cambio di passo l’atmosfera diventa simile a quella di un’antica danza popolare, quindi un intermezzo più marcatamente jazzistico a tratti fratturato e free-style che sfuma in una finale simile all’idea di partenza. «Blue Danube» è un’avvolgente ballata dal sapore ancestrale, a tratti languida e brunita, resa ancora più amabile dal canto lancinante e sofferente del sax soprano, che sembrerebbe catalizzare tutte le umane inquietudini, placate in un finale più risolto, luminoso e corale. «What If…» si materializza come un costrutto rapsodico caratterizzato da un abbrivio meditativo e da uno sviluppo in crescendo che tocca varie ambientazioni sonore con un taglio funkified che fa pensare sia a una metropoli americana che a una capitale dell’Est. «Missing Part», pur non discostandosi dalla linea di demarcazione prediletta dal line-up, offre uno spaccato di jazz contemporaneo di alto livello, liberandosi completamente dalle catene del melodismo indigeno, ma soprattutto trovando un perfetto punto di pareggio in una struttura ritmico-armonica dal taglio internazionale, dove i cinque sodali danno vita ad un avvincente interplay attraverso il gioco delle alternanze.

Aleksandar Jovanović al piano è sostenuto da quattro fra più accreditati jazzisti serbi: Ivan Radivojevic tromba, Rastko Obradovic alto e soprano sax, Milan Pavkovic contrabbasso e Aleksandar Cvetkovic batteria in grado di scandagliare concettualmente la tradizione territoriale e qualche reminiscenza eurodotta, incorporando l’eredità balcanica nell’innovazione, specie nelle prolusioni, attraverso il fraseggio melodico e con le progressioni ritmiche, ma propugnando un modulo espressivo magnificato sul terreno dell’improvvisazione e dell’ interscambio dinamico, in cui l’individualità e il relativo svincolo esecutivo del singolo strumentista giocano un ruolo significativo nella costruzione collettiva del concept. L’arrivo di «Eleven Changes» avverte il fruitore che Jovanović ed i suoi sodali hanno trovato il break-even-point tra l’idioma jazzistico e le reminiscenze balcaniche, specie la tromba mostra di avere un’insolita blackness, ma il sax non è da meno, mentre la retroguardia ritmica guarda loro le spalle e ne agevola la perifrasi. «Impure Blue», promuove ancora un’ambientazione turistico-sonora tra Occidente ed Oriente, una sorta swing-blues-funk balcanico con qualche coloritura turkish. «Uneven Swing», come dire nomen omen, trattasi di un swing frastagliato e disomogeneo che sembra camminare agilmente come un funambolo su un corda tesa, accidentata però da nodi, strappi e da continui campi di mood. «Which Way», tradisce la tipica vocazione delle formazione dell’Est Europa di volere e saper essere una big band pur trovandosi nella condizione di un semplice combo: il quintetto diventa una piccola orchestra nell’unisono dei fiati e grazie all’affinità del sincronismo nel gioco di squadra che sembrerebbe moltiplicare gli strumenti. Da sottolineare, però, l’assolo del sax, una sintesi da Bignami del post-modale, il pianoforte del band-leader zampillante e fitto di punti, appunti e contrappunti; dal canto suo la tromba espelle dalla campana tutto il genoma bop dei Balcani, mentre basso e batteria non fanno prigionieri. A conti fatti, «Octave Up» del Shljuka Quintet, pubblicato dalla barese A.MA Records, è un prodotto jazz di taglio internazionale in tutta la sua interezza, forte di un sincretismo creativo non comune, ma al netto della provenienza dei musicisti e di tutto quel fardello di esperienze legate alla tradizione locale o ai condizionamenti accademici ed eurodotti.

Shljuka Quintet

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