Miles Davis è divorato dalla necessità di cambiare, pur mantenendo l’alto rendimento degli anni precedenti: dopo l’elettroshock di «Bitches Brew» i suoi esperimenti continuano a spaventare i musicisti e ad allontanare i vecchi cultori del jazz, ma gli portano una nuova messe di consensi proveniente dai quattro punti cardinali della musica

/ di Francesco Cataldo Verrina //

Osservando l’inarrestabile parabola evolutiva di Miles Davis ci si accorge che qualcosa di «maledetto» deve averlo perseguitato per davvero. Il futuro scorreva dentro di lui, rifluendo nella sua arte, attraverso un continuo crepitio sovrumano che lo consumava fisicamente. Si potrebbe dire che abbia sacrificato parte del corredo neuronale al suo spasmodico desiderio di cambiare. Se da una parte Davis sembrava perdere qualcosa lungo il cammino, per contro la sua tromba assumeva una dimensione quasi ieratica, con linee sonore che colpivano l’orecchio dell’ascoltatore, per citare Lester Bangs, «come colpi di passione distillata».

Miles soffre e ne subisce anche le conseguenze dal punto di vista nervoso, divorato dalla necessità di cambiare mantenendo l’alto rendimento degli anni precedenti: dopo l’elettroshock di «Bitches Brew» i suoi esperimenti continuano a spaventare i musicisti e ad allontanare i vecchi cultori del jazz, ma gli portano una nuova messe di consensi proveniente dai quattro punti cardinali della musica. Il Davis sperimentatore coinvolge gli scrittori di cronache rock ed i musicologi: come oggetto di indagine divenne più attraente; per gli studiosi a vario titolo sarà una cavia, un mutante genetico su cui riversare assurde congetture, accuse infamanti di tradimento. Il musicista, ma anche l’uomo, conoscerà l’elogio, l’encomio solenne e parole di esaltazione da parte di torme di appassionati di funk, progressive rock, elettronica e musica d’avanguardia, subendo, per contro, l’assalto all’arma bianca, le critiche feroci e l’aspro sapore dell’ingiuria da parte di schiere di jazzofili retrivi e reazionari. Come il Napoleone di manzoniana memoria, a volte nella polvere, a volte sull’altare.

Il Miles elettrico va inquadrato seguendo almeno tre direttrici: musicalmente, simbolicamente e politicamente. Dal punto di vista musicale Davis stava canalizzando e deviando nel suo costrutto sonoro l’acida asperità di Jimi Hendrix, la tribalità psichedelica di Sly Stone ed il rumore lacerante dell’inquietudine razziale di James Brown, ma non suonava come nessuno di loro.

Miles aveva inventato un genere ed un linguaggio musicale tutto suo che non esisteva in natura. L’intreccio di elementi molteplici stava creando un coacervo sonoro meticcio e multistrato che il mondo avrebbe chiamato «fusion». Sul piano simbolico la sua musica rappresentava uno sgorgante ed inarrestabile flusso di creatività sempre a pieno regime e quasi indistinguibile – come già detto – dalla distruzione estetica e personale necessaria per fissarne i parametri e le regole d’ingaggio. Politicamente, Miles era un artista nero militante ma autonomo, si potrebbe dire isolato, un uomo del suo tempo che disprezzava i bianchi, ma ci sapeva convivere e che aveva piegato a suo vantaggio, con i numeri ed i risultati, le contraddizioni del regime discografico: la musica come la intendeva lui divenne una dichiarazione d’intenti ed un manifesto politico.

Se «In A Silent Way» era stato un lavoro fluido, in definitiva tranquillo, una specie di rivoluzione pacifica, per contro «Bitches Brew», agli occhi dei soliti bacchettoni, nasceva da una tribù d’invasati che aveva dissotterrato l’ascia di guerra e fatto rullare i tamburi, prosperando sul conflitto con tutto il resto del mondo jazz; un album che lacerava il tessuto sonoro e le strutture del bop acustico sempre armi in pugno, con l’illusione che quella sarebbe stata solo l’inizio di tante battaglie future. Davis stava costruendo qualcosa che presto avrebbe visto andare in frantumi, saltando sulle mine anti-jazz che lui stesso aveva seminato. Per intenderci: dov’è il vero successore di «Bitches Brew», in cui il caos organizzato venne interpretato come la corrente principale? Qualcuno conosce il follow-up di quel disco che nessuno, all’indomani della sua uscita, sapeva dove collocare e che qualcuno definì come roba sconvolgente, divisiva e visionaria, finalizzata a smuovere le acque del mercato, complice una major discografica disposta a sostenere la causa di un musicista capriccioso, attraverso un’operazione costosa e con molte ipoteche? E se «Bitches Brew» fosse stato un insuccesso? La scommessa fu vinta su tutti i fronti, gli anni Settanta erano ad partas e premevano per entrare. Oltremodo, «Bitches Brew» aveva introdotto nel jazz anche il concetto di «studio come strumento»: il produttore Teo Macero trattò il suono con loop, attacchi ritardati, camere di riverbero ed effetti eco. Il mondo del jazz era cambiato nella forma e nella sostanza, ma nella discografia di Davis il vero successore di «Bitches Brew» non ci fu mai.

Pur continuando ad utilizzare l’arte del jazz psichedelico, «Live-Evil» non fu il seguito di «Bitches Brew» come originariamente previsto. L’album è avvolto in una corteccia più dura ed abrasiva come la carta vetrata. Tale sensazione scaturisce dal fatto di essere un prodotto imbastito e ricucito in studio, legando una serie di registrazioni dal vivo tratte dal passaggio di Davis e compagni al The Cellar Door. «Live-Evil» si sostanzia pesantemente più come un disco di rock sperimentale e meno come album jazz, incorporando a tratti corposi groove e taglienti linee funkified, tra gli esotici svolazzi brasiliani di Hermeto Pascoal ed Airto Moreira e lo street-gospel americano di Gary Bartz.

L’ascoltatore si trova di fronte ad una incongrua alternanza di brani lunghi che impastano fumanti pastiche fusion e brevi ballate concepite come camere di decompressione o pause di meditazione. L’ascolto complessivo, assai impegnativo ma accessibile, che oltrepassa i cento minuti di durata, ha indotto i critici a coniare definizioni stravaganti nell’illusoria speranza di assecondare lo spirito ed il contenuto dell’album: Hindu Heavy Metal, ossia «pesante rock metallico induista», oppure Barroom Brawl Action Funk, che potremmo tradurre come «rissa da bar a suon di funk». Qualcuno si avventurò in definizioni surreali come «sessualmente eccitante ed inquietante».

«Live-Evil», in verità, è un album che, se ascoltato attentamente, disegna con largo anticipo le coordinate di molti stili e linguaggi che si svilupperanno per partenogenesi dal jazz. Una matrioska ad incastro piena di miniature complesse che si staccano da strutture giganti. Un’attenta e seria analisi dell’album fa emergere il congenito trasformismo davisiano, il quale non poteva ripetersi in un altro album di studio simile a «Bitches Brew», di cui non disperse il potenziale, ma lo elaborò attraverso una sorta di contraddizione in termini che diventa la forza di un album forse il più controverso ed estroverso tra quelli che si aggirano intorno al perimetro elettrificato da Miles, ma fondamentalmente pulito nel flusso sonoro e nel plot narrativo: miracoli dello studio e della tecnica.

MIles Davis & Hermeto Pascoal

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *