È morto Peter Brötzmann, il dirottatore del free jazz europeo

Peter Brötzmann
// di Irma Sanders //
Peter Brötzmann, geniale ed imprevedibile sassofonista/clarinettista tedesco, è morto ieri a 82 anni. Brötzmann, la cui profonda influenza sul free jazz e sulle avanguardie ha lasciato un’eredità indelebile nel mondo del jazz contemporaneo, divenendo l’epitome di un’espressione artistica non replicabile. Durante la sua carriera ha sondato territori fino ad allora sconosciuti, abbattendo le barriere architettoniche dei generi e degli stili e creando nuovi percorsi all’interno del idioma jazzistico, attraverso un forte espressionismo sempre teso a destabilizzare le regole del banale e del prevedibile. Nato in Germania il 6 marzo 1941 a Remscheid, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, Brötzmann studiò pittura a Wuppertal e fu coinvolto nel movimento Fluxus. La ritrosia e l’insoddisfazione per le gallerie d’arte e le mostre lo spinsero verso la musica, avendo studiato da autodidatta il clarinetto e il sassofono, poiché attratto dall’opera Sidney Bechet. Abbandonata la pittura continuò ad usare la propria abilità per disegnare la maggior parte delle copertine dei suoi album.
Dopo il sodalizio con il contrabbassista Peter Kowald nacque, “For Adolphe Sax”, pubblicao nel 1967, con la partecipazione del batterista Sven-Åke Johansson. Un anno dopo uscì “Machine Gun”, registrato in ottetto. L’album fu autoprodotto della sua etichetta discografica BRO, aprendo nuove strade al jazz d’avanguardia, tanto da diventare una sorta di manifesto programmatico di quella che sarebbe stata la sua visione del free form, dell’improvvisazione temati e della libera interpretazione e combinazione dei suoni.. Peter Brötzmann fu anche membro dell’Instant Composers Pool di Bennink, un collettivo di musicisti che autopubblicava i propri dischi, “democratizzando” la produzione e la distribuzione della musica, sottraendola allo strapotere delle major. L’innata versatilità lo portò ad indagare una vasta moltitudine di generi. Negli anni Ottanta, Brötzmann tentò addirittura una combine con l’heavy metal e il noise rock, registrando alcuni progetti insieme ai Last Exit ed a Bill Laswell, bassista e produttore della band. Oltre ad aver prodotto un’interminabile discografia a titolo personale, il sassofonista renano fu piuttosto aperto a gli scambi osmotici e alle sinergie fra artisti a vario titolo. Tra le tante collaborazioni figurano Cecil Taylor, Keiji Haino, Willem van Manen, Mats Gustafsson, Ken Vandermark, Conny Bauer, Joe McPhee, Paal Nilssen-Love ed il figlio, Caspar Brötzmann. La sua musica, caratterizzata da un’energia cruda e da un’intensità emotiva, quasi dolorosa, ha avuto una forte influenza sul jazz europeo attraverso un’incessante opera di sperimentazione.
Come ha scritto il musicologo Giammi Morelenbaum Gualberto: “La scelta politica dettata dal free-jazz americano non ha conosciuto pause presso alcuni improvvisatori europei, che l’hanno spogliata delle sue vesti africano-americane e l’hanno trasformata in un improvvisazione libera e in agitazione permanente, a costo di finire in un cul-de-sac etico ed estetico. E forse solo Brötzmann ha saputo sfuggire ad un solipsismo eroico quanto velleitario, cieco di un massimalismo combattente: non solo perché la sua era stata una scelta innanzitutto umana e artistica, ma perché della tradizione africano-americana, che egli aveva abbandonato per seguire ciò che gli dettava la propria di tradizione culturale, egli era un ottimo conoscitore, e quella conoscenza, quel bagaglio sapienziale si avvertiva nei suoi giganteschi blocchi marmorei di musica, nei percorsi labirintici delineati con chiara, lucida precisione, nel grigiore illuminato di bagliori, riferimenti, allusioni come nelle opere di Auguste Rodin, di Wolfgang Mattheuer, di Osmar Osten, di Peter Schettler”.
Con la scoparsa di Peter Brötzmann, tutto il mondo della musiica e dell’arte europea e mondiale perde una delle figure più geniali, sia pur controverse e non facilmente perimetrabili, a cavallo fra due millenni.
