Sartoris

// di Guido Michelone //

Fresco dell’esperienza con il noto bandeonista Daniele Di Bonaventura nel Cd Notturni (Caligola Records), il giovane pianista torinese sarà protagonista domenica al prestigioso Museo Borgogna di Vercelli di un recital dove presenterà questo disco che richiama subito alla memoria i capolavori di Frédéric Chopin, con il quale si apre e si chiude un lavoro in duo, appunto per pianoforte e bandoneon, dove i rimanenti brani si rifanno ad atmosfere romantiche, innestando al contempo una vis jazzistica, lavorando intensamente a creare una sorta di nuova third stream music, davvero riuscita, forse perché assai poco frequentata dagli altri jazzmen italiani. “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui s’aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti” come spiega Marco Brunello. La recentissima inedita intervista è invece un resoconto dell’intensa attività creativa del protagonista.

D. Emanuele, ci racconti brevemente la tua vita di musicista passata, presente e… futura?

R. Molto volentieri, fin da ragazzino sono rimasto affascinato dalla musica afroamericana. In particolare dal blues. Intorno ai 16 anni ho consumato i CD di B.B King, John Lee Hooker Muddy Waters e tantissimi altri bluesman. Non so nemmeno io bene per quale motivo fossi così fissato, ma il Blues avevo deciso fosse una parte necessaria e fondamentale della mia esistenza. Probabilmente é così ancora oggi. Quel ritmo costante, così diverso da tutto ciò che conoscevo, quel lamento, quel suono carico di racconto  erano tutti tratti che letteralmente mi esaltavano. Sono andato avanti così in maniera ostinata fin quando non ho compreso che nel jazz avrei riscontrato una libertà ancora maggiore. Il passaggio che sembrava breve é arrivato con calma, quando ho compreso che il blues era la base di tutta la musica moderna, che era un elemento fondamentale anche per suonare il jazz. Frequentando il conservatorio di Torino invece sono letteralmente caduto nella tana del bianconiglio, nonostante il mio percorso di studi dovesse essere del tutto votato al jazz ho avuto la fortuna di poter scoprire gli autori classici e sono rimasto del tutto folgorato dalle abilità estetiche ed espressive di Chopin. Fino a quel momento ero rimasto del tutto indifferente alla musica classica,anzi la guardavo con sospetto come qualcosa di inarrivabile ed elitario, quando ho potuto toccare con mano ho compreso la poesia presente nei grandi compositori. Da qui in poi la nuova ricerca per me é stata quella della tecnica e del suono, affinché potessero assoggettarsi alla poesia del racconto. Così é stato. Sono riaffiorati qui i miei ascolti precedenti, e forse avevo compreso quale fosse l’importanza del suono per Bill Evans e Keith Jarrett che tanto ho amato. Oggi continuo a ricercare il mio suono, studio senza sosta tutto ciò che mi affascina e non conosco. Sono arrivato alla certezza di portare a termine la mia vita continuando a studiare con costanza tutto ciò che é bello e desidero comprendere, che si tratti della vita di Salvador Dalì, che ci si riferisca alla poesia di Mallarmé o che si faccia riferimento alla grandezza poetica delle straordinarie variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. Il futuro é riservato alla costante ricerca e alla volontà di trascendere l’esclusiva componente musicale unendola in sinestesia con altre arti. Fresco di registrazione é il lavoro con il grande fotografo Roberto Cifarelli in cui come in un vero quattro mani collaboriamo fondendoci. É un lavoro in cui credo fermamente e che davvero é stato il risultato di un connubio in cui il mio pianoforte é entrato nel suo obiettivo e la sua macchina fotografica é entrata nella mia martelliera.

D. Parliamo del tuo strumento, il pianoforte. Come e quando lo hai ‘approcciato’?

R. È arrivato per caso , ma ho la certezza che non sarei stato in grado di suonare nient’altro in questa vita. Ho iniziato il mio percorso insieme ad una persona sinceramente buona e generosa, Don Giuseppe Rosso, il parroco della cappellania di fronte a casa mia. I miei genitori gli hanno chiesto di impartirmi delle lezioni e lui ha stabilito che a dieci anni sarei stato pronto per iniziare. Così un giorno Don Giuseppe si é presentato a casa nostra dicendo che era ora di iniziare e che da lì a poco ci sarebbe stato recapitato un vero pianoforte a casa in sostituzione dell’invereconda tastiera che aveva acquistato mio fratello e così é stato. Grazie alla lungimiranza di Don Giuseppe ho potuto da subito confrontarmi con una vera meccanica di pianoforte verticale formando subito la mia mano. É stato determinante, Don Giuseppe era un uomo saggio e paziente che mi ha fatto comprendere l’importanza della musica. Ho compreso anni dopo una sua frase “ Il pianoforte é un amico“. Solo di recente ho compreso che nella sua semplicità don Giuseppe voleva farmi comprendere la natura consolatoria della musica e di quanto la stessa fosse un toccasana per l’intimità dell’intelletto umano. Sono persuaso del fatto che in veste di uomo di fede avesse chiaro l’enorme trascendenza che la musica incarna nella sua natura comunicativa.

D. Quali sono i pianisti a cui ti sei ispirato e quali riconosci fondamentali nella storia del jazz?

R. La prima volta che ho sentito il concerto di”La Scala” piuttosto che il “Köln Concert” ho capito che Keith Jarrett era il pianista a cui volevo fare riferimento. Sentire quella poesia mista a spiritualità ricerca e suono mi hanno lasciato atterrito, c’era una grande ricerca della purezza, qualcosa di realmente onesto e pulito. Da lì ho iniziato ad ascoltare tutte le registrazioni di Jarrett cercando di capire il concetto e l’idea che le governavano, dal trio con Peacock e De Jonnette fino ai quartetti europeo ed americano. La sua musica ed il suo rigore restano per me uno dei più alti riferimenti a cui votarsi. Poi impossibile non citare Bill Evans, il suo cambio di stile, la sua ricerca armonica e sonora in controcorrente con il suono degli altri piano trio é stato sicuramente un apripista per i pianisti di oggi. Dischi come “You Must Believe In Spring” e “Sunday At Village Vanguard” sono cime inarrivabili. Tuttavia non sono solo i pianisti i riferimenti per il mio suono e le mie idee, penso al recentemente scomparso Wayne Shorter e a quanto il mio modesto sistema compositivo debba tutto alla libertà e la grandezza delle sue idee e del suo stile personale e azzardato sia nella composizione che nella ricerca stilistica durante i soli. Con la scomparsa di Shorter abbiamo perso un visionario generoso, non mi era mai capitato, ma poco dopo la sua scomparsa ,tenendo una lezione per i ragazzi su di lui, mi sono ritrovato in lacrime leggendo la sua lettera aperta alle nuove generazioni di musicisti co firmata con Herbie Hancock. Le belle persone danno origine a bella musica, più ho la fortuna di conoscerne più sono affiliato a questa idea, si é ciò che si suona.

D. Negli ultimi anni incroci sempre più la musica classica nei tuoi lavori: ma come giudichi l’esperienza colta (scritta, non improvvisata) come jazzman?

R. Non nego che alla domanda precedente avrei citato Scriabin Chopin e Liszt tra i miei riferimenti pianistici. Lo studio della componente tecnica derivante dalla musica classica, la ricerca della poesia del proprio stile compositivo e del proprio suono per me non può fare a meno di confrontarsi con chi ha ricercato ed offerto così tanto sul pianoforte. Resto letteralmente atterrito di fronte alla grandezza di questi pionieri che hanno cambiato la storia della musica, oggi qualsiasi pianista ha un debito anche con loro. Il mio gioco sempre più frequentemente é quello di mischiare le carte, avviene ancora spesso che le persone ed i critici non sappiano se io sia un pianista classico pentito o un musicista di jazz con la passione per la musica classica. La verità é che amo ricercare ovunque possa imparare qualcosa di nuovo, che si tratti di analizzare un solo di Bud Powell o che si tratti di studiare le variazioni Goldberg. Se c’è qualcosa che mi fa star bene e mi rende sereno é proprio lo studio analitico della musica classica. Dimostrare che si può improvvisare su un notturno di Chopin trattandolo come uno standard del jazz é per me un esercizio di stile identico all’applicazione dello stesso comportamento su uno standard. Se suono Bach cerco di improvvisare in stile barocco lavorando per capire la moda del suo stile, idem se studio Charlie Parker. Non vedo alcuna differenza tra Parker e Bach né nel genio ne nell’approccio, tantomeno nel contributo alla storia della musica, entrambi ricercano con il loro linguaggio in una direzione innovativa. 

D. Parliamo ora più in generale del jazz. Cos’è il jazz per Emanuele Sartoris?

R. Il jazz é un viaggio nell’ignoto. É come quando in un limpido giorno d’estate le fitte fronde di una schiera di vertiginose betulle si accorda con i vento per comunicare con gli uomini attraverso un linguaggio libero e segreto di cui solo loro conoscono il significato. Per me il jazz é la libertà di saper cogliere quel mistero, la libertà di raccontarlo, l’indipendenza di rimanerne affascinati.

D. In quale preciso momento e in che modo ti sei avvicinato al jazz? Cosa ascoltavi da piccolo?

Mi sono avvicinato al jazz perché a forza di sentirne parlare come naturale derivazione del blues volevo comprenderlo. Non dimenticherò mai l’acquisto del mio primo CD di genere: “Now He Sings Now He Sobs” di Chick Corea. Al primo ascolto ero del tutto certo di aver buttato via i miei soldi. Ci ho riprovato poco dopo, la mia dura cervice aveva minato la possibilità di poterlo apprezzare, e dopo qualche ascolto ho iniziato ad entrarci in sintonia e i suoni per me all’epoca strani di Roy Haynes improvvisamente sono diventati poesia, le volate così personali ed autoritarie di Miroslav Vitous un esempio di stile, ed il pianismo vertiginoso esplicito e coraggioso di Chick Corea un modello eroico da imitare. C’è voluto del tempo ed ho compreso cosa avrei adorato e cosa meno. Da piccolo per me esisteva solo il blues, il blues oggi per me è come il nord sulla bussola, so dov’è e se necessario navigo facendone a meno. 

D. Che cos’è per te il jazz sotto vati punti di vista (tecnico, culturale,e filosofico, scegli tu)?

Ti dirò cosa non é per me. Vedo un altissimo numero di adepti che studiano diligentemente a memoria gli assolo per poterne riproporne a loro volta collage di frasi rubate, confondendo quella fase di studio non con un punto di partenza ma come un punto di arrivo. Se Parker si fosse fermato allo studio degli altri grandi prima di lui sarebbe rimasto allo stesso punto, così come probabilmente se Chopin avesse deciso di affiliarsi esclusivamente agli studi di Kalkbrenner senza andare oltre non avrebbe lasciato all’umanità tutto il genio della sua creazione. Ritengo sia necessario studiare per andare oltre. Nel jazz i musicisti sembrano ancor più conservatori di alcuni musicisti classici. In una nota rete TV privata di recente ho avuto modo di tener delle puntate legate alla storia del jazz, si é scelto per mia iniziativa e volontà provocatoria di iniziare da Bach per raccontare le curiosità legate agli improvvisatori classici e a quella componente europea che unita alla radice africana hanno dato nel corso di lunghe trasformazioni vita al jazz, ma guai a nominare Bach a fianco della parola jazz! nonostante le pesanti impronte della musica colta siano palesemente parte della storia del jazz, pensiamo banalmente a Jelly Roll Morton e alla sua frequentazione dei teatri d’opera italiana e a quanto abbiano influito quelle armonie nella sua musica. Insomma, aldilà dell’ignoranza, non é possibile non fare i conti con la natura di contaminazione che fin dal principio ha mantenuto vivo e sempre attuale questo genere musicale. Il jazz per me é libertà espressiva e comunicativa che per sua natura deve mirare ad un costante cambiamento. Dire che dopo Parker il jazz sia morto, dire che sia necessario suonare solo con il linguaggio Be Bop o hard Bop o esclusivamente con swing a mio avviso è come impedire all’universo di poter continuare ad espandersi in libertà. Uno può anche essere tanto stolto da dichiararlo, ma l’universo se ne frega e andando per la sua strada continua la sua costante espansione aldilà dell’ignoranza umana.

D. Quanto gioca l’improvvisazione nel tuo jazz?

R. L’improvvisazione per me è un elemento imprescindibile. Solo lì penso possa vivere e nascere la spontaneità dell’onestà. É come parlare a ruota libera, si dice qualcosa di interessante solo se si ha qualcosa da raccontare ed una direzione. L’improvvisazione non mente, a patto che non sia figlia di cliché e mera imitazione, in quel caso ritengo sia meglio dedicarsi allo studio della cattedrale che Bach ha costruito nelle variazioni Goldberg o l’arte della fuga. Nonostante nel mio percorso stilistico e di ricerca, che tutt’ora perdura e non si dà pace abbia dato un ruolo sempre più importante alle composizioni estese, nei miei brani non manca mai l’elemento improvvisativo, cercando sempre di variarne le possibilità e qualità assoggettandole al mio fine narrativo. Non toglierò mai l’improvvisazione dai miei lavori, anzi , tenderò sempre di più ad essa in modo libero perché solo in quella possibilità trovo l’onestà espressiva di cui ho necessità.

D. Che cosa significa per te l’improvvisazione musicale?

Credo significhi muoversi come un esploratore verso l’ignoto. Lo si fa con il solo bagaglio disponibile: l’ esperienza maturata dall’inizio dell’esistenza fino ad oggi. Ricercare, portare alla luce per se stessi e per l’ascoltatore emozioni ricordi e storie sono l’obiettivo che per me deve imporsi l’improvvisazione. Tuttavia improvvisando più mi addentro più scopro che spogliarsi di ciò che si conosce può rendere il viaggio improvvisativo ancora più sorprendente. L’essenziale , ciò che realmente comunica ed emoziona , alla fine é cristallino e non necessita di orpelli. Come per un buon pittore é necessario conoscere e padroneggiare la storia e la tecnica di chi é venuto prima anche nel jazz occorre conoscere nel miglior modo possibile chi é venuto prima per proseguire. Tuttavia ritengo che la propria strada si debba percorrere con le proprie idee o ci si muoverà sempre sui terreni di altri, con le sicurezze di altri. In questo percorso l’errore é un fedele compagno di viaggio a cui affidarsi, il cui esito in cui che si suona dipenderà proprio dall’esperienza maturata. 

D. A cosa pensi quando suoni o improvvisi?

R. Penso al suono a dove mi dirige o a come posso dirigerlo io perché sia il più vero possibile. Voglio che il suono possa raccontare attraverso me stesso. Ad oggi ho totale fiducia nel suono e lascio sempre più spesso che io sia il suo tramite e che sia lui a guidarmi in direzioni che il pubblico scopre istantaneamente con me. Solo in questo modo mi sento rigorosamente sincero. É una ricerca costante.

D. Pensi che il jazz si debba occupare di politica o della realtà sociale?

R. Il jazz così come la musica in generale spesso é di per sé un veicolo politico importante proprio perché compagno fedele della storia dell’umanità. Ha sempre accompagnato movimenti importanti, pensiamo al free jazz legato alle manifestazioni per i diritti civili degli afroamericani. Penso che il jazz debba raccontare delle storie e che qualsiasi sia il racconto chiunque possa vederci implicazioni di carattere politico, anche dove sembrano non esserci. La musica deve saper descrivere la realtà che ci circonda ed é naturale che la politica ne faccia parte. Se non descrivesse la realtà sociale sarebbe fuori contesto.

D. Come vedi oggi la situazione del jazz in Italia a vari livelli (organizzativo, didattico, culturale, istituzionale, ecc.)?

Vedo che siamo in tantissimi e che il lavoro scarseggia, che non é facile per la nostra generazione viverci serenamente e che sarà necessario fare qualcosa perché per le generazioni future sarà sempre peggio suonare ed essere rispettati nel farlo. Suonare é un lavoro molto serio, può non sembrare importante come il pane o i mattoni di una casa, ma la musica può essere una forma pura di comunicazione che arriva dritto ai sentimenti senza menzogne. aver a che fare con il suono porta inevitabilmente a sviluppare un modo di pensare diverso e alternativo che può risultare vincente facendo apparire la realtà sotto aspetti diversi ed inaspettati. L’aridità che porta con sé la deriva culturale porterà all’estendersi di una delle piaghe dell’umanità: l’ignoranza. Siamo ben lontani da un benessere culturale condiviso, il jazz ne fa parte e dovrebbe essere incentivato come la poesia e la pittura, non é mero intrattenimento, é quel soffio vitale che fa la differenza nella solitudine dell’essere umano. Spero di assistere ad una rivoluzione culturale importante prima di morire perché ritengo sia una necessità primaria dell’essere umano.

Emanuele Sartoris
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