KEITH JARRETT CON «THE SURVIVORS SUITE» DEL 1977

// di Gina Ambrosi //
Chi analizza i dischi di Keith Jarrett si ritrova ad affrontare l’eterno dilemma di quella che è stata una personalità «bilocata» e divisa tra due situazioni, stilisticamente, assai differenti l’una dall’altra, ma che finiscono per diventare le facciate della stessa medaglia: da una parte il Jarrett accompagnato dal quartetto americano, dall’altra quello legato al suo doppelgänger europeo, una sorta di alter-ego, ma non un’immagine speculare e neppure un surrogato. Resta, comunque, difficile separare nettamente l’attività di Jarrett senza il rischio di disperdersi in un’ampia distesa di nebbia, dove più che un alter-ego, nella vita artistica del pianista campeggia sempre un «ego» smisurato.
Scandagliando le perle della sua discografia, ci si rende conto che Jarrett in alcuni casi risulta più demiurgo, organizzatore e accentratore, in altri più collaborativo, concedendosi il piacere della composizione, ma lasciando molto spazio ai suoi sodali. Quest’ultimo atteggiamento fu molto più frequente nell’ambito del cosiddetto quartetto americano, dove Jarrett agiva in una sorta di solenne consesso inter pares.
«The Survivors’ Suite» ne è una dimostrazione lampante: per quanto l’estroso pianista abbia provato ad imprimere la sua personalità all’album, il debito di riconoscenza nei confronti dei musicisti di supporto è consistente. Da segnalare un appassionato ed ispirato Dewey Redman al sax tenore, il quale crea il giusto contrasto con il pungente soprano suonato dallo stesso Jarrett; l’abilità di Paul Motian, che si dimena tra batteria e percussioni, risulta sostanziale per tutta la tenuta della «suite»; così come Charlie Haden, con il suo basso, gioca un ruolo determinante per lo sviluppo della architettura ritmica, su cui poter innestare, in maniera alquanto fluida, le progressioni armoniche e circonvoluzioni improvvisative provenienti dalla front-line.
«The Survivors’ Suite» è uno dei set più riusciti del «Jarrett americano», disco non facile al primo impatto, soprattutto per i neofiti, e basato su due lunghe tracce, intitolate «Beginning» e «Conclusion», a copertura delle due intere facciate dell’album, che alternano momenti quasi sofferti e dolorosi a ricche aperture melodiche, per poi calare in atmosfere arcane e ritualistiche, dove la magia dei suoni è scandita e punteggiata perfettamente dalla retroguardia ritmica. La frase riportata sulla copertina apre la mente a molti pensieri: «And those that create out of the holocaust of their own inheritance anything more than a convenient self-made tomb shall be known as Survivors». («E coloro che dall’olocausto della propria eredità creano qualcosa di più di una comoda tomba autocostruita saranno conosciuti come Sopravvissuti»).
Le mutazioni di umore e di stile all’interno della lunga cavalcata musicale sono molteplici: si passa dal free jazz infuocato a frammenti sonori esoterici e meditativi o aperti e liberatori, condizionati anche da musiche locali (il disco fu registrato in Germania), soprattutto il cordone ombelicale con la musica del decennio precedente non sembra per nulla del tutto reciso. Jarrett è molto presente sia nel primo che nel secondo lungo brano, ma le sue esecuzioni emergono spesso per aggiungere calore alla suite, mentre l’ossatura scheletrica dell’album è costruita pezzo per pezzo dagli insuperabili sodali, mentre i suoi assoli si espandono e si contraggono rapidamente, sfumando nell’armonia dell’insieme. Registrato nell’aprile del 1976 al Tonstudio Bauer di Ludisburgo, «The Survivors’ Suite» è un album del suo tempo, fatto di aspetti complessi e molteplici, anticipatore di un certo jazz contemporaneo, sia pure radicato alla tradizione.
