GUIDO MICHELONE INTERVISTA MASSIMO MANZI PRINCIPE DEI TAMBURI
// di Guido Michelone //
D. Così, a bruciapelo chi è Massimo Manzi?
R. L’essere biologico Massimo Manzi nasce verso la fine di un anno molto bello, il 1956, nella città più ricca di Storia del nostro Belpaese, Roma …quindi le premesse erano più che buone e, mi dicono, ero già allora di stazza considerevole. La persona Massimo Manzi invece trascorre la sua infanzia e adolescenza ad Alatri, paese natale di mia madre Olga, ciociara doc ma di ampie vedute culturali. Mio padre Fulvio nacque a Napoli ma dopo il matrimonio con mamma, conosciuta nell’immediato dopoguerra a Roma, si stabili con lei ad Alatri. Io sono il secondo ed ultimo loro figlio, preceduto di un biennio da mia sorella Renata.
D. E come sei cresciuto?
R. Cresco così fra i pregi e difetti di un piccolo paese e faccio i miei studi linearmente fino alla maturità classica conseguita nel liceo locale. In questi anni si delineano i tratti di base del mio carattere…estroverso ma con una certa timidezza di base, appassionato di musica, di fotografia, di animali (a casa non mancavano gatti e uccellini, e un mio zio aveva pure qualche cane) , della buona tavola, di automobili, di cinema e scacchi. Mi piacevano pure le donne ma le più carine erano per lo più circondate da maschi ‘pericolosi’ e avevo realizzato che le risse non mi erano congeniali
D. C’è un momento di svolta nella tua vita?
R. Sì, il trasferimento, per un upgrade di lavoro di mio padre, a Senigallia nelle Marche. Avevo 20 anni… con già alcune esperienze musicali interessanti nel Lazio, ma sulla costa Adriatica si svilupparono una serie di collaborazioni importanti e incontri umani che fecero di me il Manzi attuale!
D. Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
R. Nel mio ambiente familiare c’era sempre tanta musica anche dal vivo, difficile isolare un primo ricordo… sicuramente una grande emozione sonora collegata per vari anni al periodo natalizio era il passaggio degli zampognari… suonavano in due, casa per casa, raccogliendo piccole offerte… ricordo ancora un motivo popolare che suonavano sempre, più qualche classica nenia di Natale. Mi davano un brivido particolare, che raramente ho ritrovato nelle musiche folcloristiche ascoltate successivamente .
D. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un batterista?
R. Crescendo in un ambiente ricco di musica e potendo anche toccare con mano gli strumenti dell’orchestrina di famiglia la mia infantile attrazione per la batteria si trasformò in vera passione e durante gli anni della scuola media finalmente mi fu regalato un primo strumento usato, e cominciai da autodidatta il mio percorso. Ero già stato colpito dallo stile di alcuni grandi batteristi come Joe Morello e Max Roach ma anche dal drumming più essenziale e aggressivo dei batteristi ‘rock’. Ho convissuto con un mix di influenze e stimoli imparando pure un po’ di ritmi ‘da ballo’ per poter affrontare le prime esperienze in pubblico… Fra il 1973 (prima serata ‘ufficiale’ nel Lazio ) ed il 1975 ho cominciato ad accarezzare l’idea di suonare musica ‘d’ascolto’ e una bella esperienza fu la frequentazione per pochi mesi della Scuola Popolare di Musica del Testaccio, noto quartiere romano. Con Bruno Tommaso per la teoria musicale e Michele Iannaccone per la batteria iniziai a studiare meno empiricamente ed unendo finalmente esercizi di coordinazione e rudimenti a quanto ero riuscito ad imparare “da solo” dai dischi e dall’osservazione dei colleghi più esperti (pure dalla Tv) mi sentii pronto per nuovi e più articolati approcci musicali. In realtà il mio primo ‘concerto jazz’ avvenne nel 1980 ma un’esperienza importante nei primi anni dopo il mio trasferimento a Senigallia fu la militanza col gruppo jazzrock Agorà destinata a una lunga interruzione dopo un bel tour nazionale nel 1979.
D. Massimo, quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
R. Come ti ho accennato ho avuto la fortuna di essere esposto a diversi modi e generi di fare musica e solo ad un certo punto ebbi chiaro che c’era una differenza importante fra il Jazz ed altre musiche pure articolate quali potevano essere certo Progressive Rock o alcune contaminazioni. Definisco e percepisco, in parole povere, il Jazz come una musica in cui compaiono determinati elementi ritmici (il famigerato ‘Swing’ o almeno una certa ‘intenzione’ che lo contempli) la cui armonia tenda a superare i classici accordi a tre voci o comunque non sia eccessivamente elementare, e soprattutto che la sua realizzazione sia almeno al 50% frutto di creatività estemporanea. Anche come esecutore questi sono i parametri di base, poi a seconda di cosa si suona e con chi si suona cerco di mettere in gioco in modo appropriato la mia sensibilità e la conoscenza del ‘linguaggio’ jazzistico, sempre attento che questo sia una molla che carichi la creazione e non una gabbia che costringa in modalità troppo prevedibili.
D.Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
R. Sicuramente un disco che ricordo con particolare piacere fra i primissimi che ho fatto (uscì solo in vinile per la mitica Philology di Paolo Piangiarelli) è stato il Dies Irae con la Marche Jazz Orchestra diretta da Bruno Tommaso, una formazione con la quale, fra gli anni Ottante-Novanta sono accadute molte cose e c’era molto affiatamento fra i musicisti, di varie generazioni, praticamente tutti amici coi quali ci si frequentava anche in formazioni ridotte e in diversi ambiti. Anni dopo un CD che segnò l’inizio della collaborazione discografica col grande Lee Konitz, qui affiancato da Enrico Rava è stato l’Age mür , ma è difficile scegliere… con Sellani ho suonato ed inciso molto, in trio (con Moriconi) e/o con vari ospiti da mr. Gianni Basso a Irio de Paula, da Bruno Lauzi a Fabrizio Bosso che partecipò anche, nel duemila, al primo CD a mio nome, Quasi Sera…Permettimi ancora di ricordare l’ eccellente Nineteen plus one della Colours Jazz Orchestra diretta da Massimo Morganti con Kenny Wheeler , ed il trittico dedicato a Duke Ellington inciso in Trio col titanico Franco D’Andrea ed Ares Tavolazzi. Io amo la spontaneità del suonare jazz dal vivo ( e non mancano album live nella mia discografia, ad esempio con Massimo Urbani o con Phil Woods & Lee Konitz…) ma fare tanti album mi ha insegnato molto sulla necessità di non strafare e sulla cura dei particolari sia del suono che del proprio fraseggio.
D. E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
R. Tempo fa mi chiesero la stessa cosa ed è veramente difficile dare una risposta definitiva! Citai alcuni jazzisti ma anche Bach e i Beatles… oggi preferisco pensare, in una situazione di costante eremitaggio, di poter avere a disposizione una radio e una buona tastiera che mi permettano di rievocare ciò che ancora riecheggia dentro di me e magari scrivere un brano da affidare all’ oceano dentro una bottiglia prima dell’ ultima nota.
D. Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
R. Ripensando velocemente al mio passato, le figure che hanno maggiormente influito sulla formazione del mio carattere sono state diverse, e a parte ovviamente i miei genitori, mia madre in particolare coi suoi interessi artistici, musicali e letterari, e mio zio Ennio Santachiara che fu il mio primo bandleader, nessuna in modo troppo marcato. Un personaggio il cui pensiero mi ha fortemente colpito è stato Giorgio Gaber, che col suo Teatro-canzone riuscì secondo me ad indicare un utopistico equilibrio fra le ragioni del cuore, quelle della mente e le contraddizioni umane
D. E i batteristi che ti hanno maggiormente influenzato?
R. Limitandomi ai Maestri in campo jazz, ho avuto la fortuna di seguire, fra gli anni Ottanta-Novanta, gli stage di alcuni dei batteristi da me maggiormente apprezzati fra i quali Max Roach, Elvin Jones, Jack De Johnette, Steve Gadd e Peter Erskine… da ognuno ho tratto delucidazioni ed input importanti, in alcuni casi anche facendomi ascoltare da loro. Altri giganti che mi hanno impressionato in concerto sono stati Tony Williams, Philly Joe Jones, Roy Haynes, Billy Higgins. Ma ho preso spunti anche da molti validi batteristi italiani, Tullio De Piscopo, Bruno Biriaco, Emilio De Biase, Gil Cuppini, i fratelli Munari. Nella scena contemporanea c’è un numero impressionante di batteristi fantastici, mi permetto di dire che personalmente preferisco quelli che tendono a far ‘cantare’ la batteria a coloro che stanno massicciamente introducendo suoni e stili più secchi e tecnologici derivati in buona parte dalle trovate dei DJ. Capisco però che ciò è anche conseguenza di certe tendenze della vita ‘globale’ che alcuni artisti riflettono nella loro opera.
D. Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
R. Anche qui mi trovo nell’imbarazzo della scelta… Anche perché dovrei scegliere fra momenti che hanno rappresentato il raggiungimento di una mia personale meta e quelli che hanno lasciato un qualche segno della mia presenza nella storia di questa musica . Come strumentista una grande soddisfazione fu partecipare al Mokke’s Day a Milano nel 1990 un raduno di ‘top drummers’ italiani… fui in scena con Gil Cuppini, Giulio Capiozzo, Alfredo Golino, Walter Calloni, Roberto Gatto e Christian Meyer… Come ‘sideman’ è d’obbligo ricordare il concerto in Trio con Pat Metheny e Paolino Dalla Porta a Ravenna venti anni fa… e come membro stabile di un gruppo la sortita al Birdland per due sere col quintetto di Giovanni Tommaso (con ospite Fresu) unica mia visita finora a New York, e per finire la settimana al Blue Note di Tokyo con l’Italian Trio di Richard Galliano (1999).
D. Massimo, quali sono i solisti con cui ami collaborare?
R. Devo fare una premessa un po’ triste… alcuni musicisti coi quali ho avuto negli scorsi decenni un eccellente feeling musicale purtroppo non ci sono più… penso al chitarrista Augusto “mimmo” Mancinelli, a Renato Sellani, Massimo Urbani, Joe Diorio, ed tanti altri…Comunque nel presente ho la fortuna di avere molte collaborazioni stimolanti, alcune già con qualche decennio di attività alle spalle, ad esempio con Daniele di Gregorio, con Felice Clemente, con Riccardo Fassi, con Vito di Modugno eccetera in una gamma di formazioni che spazia da trii o duetti fino ad ensemble più numerosi. I solisti con cui mi trovo meglio debbono possedere alcune caratteristiche: buon gusto nel fraseggio, conoscenza del linguaggio jazz che però non deve diventare una prigione bensì un common ground per meglio dialogare anche tentando strade meno esplorate, propensione all’ interplay e magari una personalità non priva di calore umano ed empatia. Mi piace esplorare brani originali e se il musicista con cui collaboro è anche compositore, ancora meglio.
D. Come vedi la situazione della musica jazz in Italia e come affronti il tuo futuro di musicista?
R. Senza entrare nel ginepraio del voler definire COSA è classificabile oggi come jazz (probabilmente questa definizione abbraccia oggi più tipologie di espressione musicale in confronto ad alcuni decenni fa) ci tengo a dire che da tempo godo di un paio di punti d’osservazione preziosi e si tratta di due “concorsi” per musicisti jazz mediamente giovani : il “Chicco Bertinardi” gestito dal Piacenza Jazz Club ed il Premio Internazionale Massimo Urbani organizzato da “Musicamdo” in quel di Camerino. Qui vedo molte promesse musicali, a volte con un rapporto capacità/età impressionante. e questo non può che fare piacere . Accompagnando questi nuovi e motivati talenti con musicisti di grande esperienza come Attilio Zanchi, Roberto Cipelli, Andrea Pozza , Massimo Moriconi ed altri si tengono attive le sinapsi e si respira quell’aria di nuovo che evita alla nostra musica di fossilizzarsi. Meno facile del suonare è l’ingrato compito di “giudicare” questi musicisti. Si spera che vivano questa esperienza come un’occasione per farsi conoscere al di là della posizione finale…classifiche e musica sono in genere antitetiche, ma quello che conta, dico a loro, è prendere poi il largo.
D. E domani’?
R. Per il mio immediato futuro spero che ci sia ancora spazio per la musica che amo suonare con i musicisti e gruppi vecchi e nuovi che ho già citato (e mi scuso profondamente con quelli non menzionati), che non spariscano gli album “fisici” (avendone realizzati oltre 170 e continuando a farne!…) e di avere ancora occasioni ed energie per “raccontare” questa incredibile avventura che è stata il mio vivere la musica Jazz non solo coi miei coevi ma con non pochi grandi che ne hanno fatto la Storia, spesso sorprendendomi con la loro umiltà e cito fra questi, concludendo, Tal Farlow, Al Cohn, Franco Cerri, Benny Golson, John Tchicai, Al Grey, Pat Martino.