// a cura di Irma Sanders //
(Michelone): A tuo parere, può essere sociologicamente giusta una distinzione tra jazzologo (studioso di jazz), jazzofilo (amante del jazz) e jazzomane (maniaco del jazz)?
(Verrina): A volte si può essere tutte e tre le cose insieme: uno studioso è al contempo un amante di quella quella specifica disciplina e la segue in maniera maniacale. È difficile immaginate uno studioso di calcio, per esempio, che non sia anche appassionato e tifoso. Anche se sono due dimensione differenti, ho sempre avuto la sensazione, ma anche la convinzione che chi si occupa di musica e di sport a vari livelli, mantenga, sia pur inconsciamente, un atteggiamento sempre infantile. In fondo, come diceva Bennato: sono solo canzonette!
(Michelone): Nell’odierno immaginario collettivo, il jazzofilo – termine ormai sempre più usato per indicare l’ascoltatore-tipo o il serio appassionato di musica jazz – viene rappresentato come una persona culturalmente aperta alle più diverse sollecitazioni artistico-intellettuali. Ma è davvero così?
(Verrina): A volte è il contrario, il jazzofilo vive all’interno di enclave culturale, in preda ad un corto circuito mentale. Sovente si sente un eletto solo per il fatto di essere un appassionato di jazz e questo pone molti limiti alla conoscenza e all’apertura mentale. Non si può generalizzare in assoluto, ma in questo equivoco sono spesso caduti anche i cultori della musica classica che, per lungo tempo, si sono sentiti degli unti dal signore. La stessa idea di musica colta e musica popolare ha creato molte disfunzioni, specie in Europa, dove i vari fenomeni musicali contemporanei di tipo ritmico sono tutti importati e sono di derivazione americana o afro-americana. Quasi tutti sono stati catalogati per molto tempo nell’ambito del pop del folk o altre categorie «leggere», con l’intento di voler preservare una presunta superiorità della musica dotta europea. Una volta sdoganato, il mondo del jazz si è spesso auto-investito di una sorta di aulicità o di esclusività rispetto ad altri stili ritenuti musicalmente più «poveri» e di massa.
(Michelone): Permangano, sempre all’interno (oppure all’esterno) di questo stesso immaginario, alcuni luoghi comuni che dipingerebbero il suddetto jazzofilo via via come spocchioso, esclusivista, cinico elitario o all’opposto generoso compagnone; sono posizioni di comodo, di invidia, di superficialità o di altro ancora?
(Verrina): Non penso che si possa generalizzare, schematizzare e suddividere in maniera netta tra buoni e cattivi, migliori e peggiori. Parto dal concetto che gli interessi di una persona siano in parte il riflesso di una condizione sociale, a volte anche di una situazione economica e culturale, ma sono in massima parte, quando entriamo nella sfera del «voluttuario», un’esigenza dello spirito e lo specchio dei una certa personalità. L’individuo spocchioso, esclusivista, cinico, elitario, piuttosto che generoso, compagnone o invidioso ed arrivista, se tale è la sua natura, lo sarà anche quando si tratta di questioni di lavoro, di relazioni sociali a vario titolo, di automobili, di abbigliamento, di educazione dei figli e non solo di interessi culturali, artistici o relativi al consumo di tempo libero.
(Michelone): Da quanto si può dedurre dal gradimento di articoli e recensioni su riviste e social, il ‘miglior’ jazzofilo contemporaneo vede (o meglio ascolta) il jazz quale ‘opera aperta’ (nel senso conferitole da Umberto Eco) dunque non un unico spesso assoluto referente musicale, ma un suono in mezzo ad altri in interrelazione. Però è visto con sospetto dai jazzomani che sono spesso puristi a oltranza (cultori ad esempio dei soli dischi Blue Note o peggio di quelli ECM). Sono posizioni inconciliabili? Che si può fare?
(Verrina): Anche in questo caso non penso che ci sia una netta dicotomia tra un cultore di jazz con una visione aperta e contemporanea ed un jazzofilo conservatore arroccato su certe posizioni, quale templare di un «purismo» che nel jazz non esiste, essendo già per sua stessa natura, una musica di sintesi e con maglie molto larghe e permeabili. Un esempio banale: molti di coloro che amano le cosiddette forme aperte di jazz, adorano magari lo stile ECM spesso votato ad una sorta di classicheggiante ed improbabile «terza via», per contro disdegnano il jazz contaminato dell’hip-hop e viceversa. Il «purismo» nel jazz viene confuso spesso con una sorta di attaccamento alla tradizione che, di certo, non è un male. In questo ambito si muovono musicisti, appassionati e addetti ai lavori, i quali intendono il jazz come un costrutto concettuale coerente basato su alcune regole auree: utilizzo delle scale di blues, ritmo swing, interplay ed uso di strumenti acustici. Tutto ciò si estrinseca spesso nella produzione di quello che oggi viene chiamato jazz straight ahead, piuttosto che mainstream, sotto forma di un post-bop aggiornato. Diversamente le categorie di jazz incoerente o non-jazz sono molteplici. Spesso si preferisce, per motivi di comodità ed interesse editoriale o di semplice esigenza catalogatoria (uno dei mali della nostra epoca), utilizzare il termine jazz in luogo di inqualificabili blob sonori che di base non hanno nulla da spartire con il jazz stesso. La contaminazione sonora o l’invasione di corpi alieni, più o meno graditi, sono argomenti che si dibattono dai tempi della fusion e da quando Miles Davis decise di elettrificare il jazz.
(Michelone): L’atteggiamento pluralista o democratico del jazzofilo dipende dal fatto che egli proviene spesso da altre esperienze sonore (rock, pop, soul, funk, disco e anche classica e contemporanea) o segue in parallelo ulteriori linguaggi espressivi che vanno dalle stesse musiche afroamericane (oltre quelle citate anche ragtime, gospel, spiritual, blues, folk, r’n’b, ma anche bossa nova, tropicalismo, salsa, afro-beat) alla cosiddetta world music planetaria, estesa ai cinque continenti. Ma, pure qui il jazzomane rifiuta spesso e volentieri i linguaggi black affini per osannare il ‘purismo’ del jazz. Ma esiste davvero il purismo nel jazz musica sincretica, aggregante, trasversale per antonomasia?
(Verrina): Per esperienza personale, avendo fatto io un percorso di studio inverso, non riscontro una grande elasticità mentale nel jazzofilo medio, che spesso è molto arroccato in una sorta di autocompiacimento, ossia il preferire il jazz ad altri genere, sia pure affini, ma considerati a torto minori. Il sincretismo del jazz è fisiologico, cosi come la sua natura di aggregante sintetico, ma storicamente il jazz, a seconda dei periodi storici, si è calcificato in alcuni stili ben precisi e dal tratto caratteristico: dal dopo guerra in poi, ad esempio, bebop, hard bop, soul-jazz, post bop, fusion, jazz-rock, latin-jazz, afro-jazz, free-jazz avevano dei caratteri somatici assai distinguibili. Per contro oggi si tende ad andare alla rinfusa, creando degli ibridi in cui del jazz non rimane neppure un sedimento. Personalmente ritengo che il jazz nella sua naturale inclinazione a fondesi trovi interlocutori più credibili nei generi fratelli di derivazione afro-americana, come il funk e l’hip-hop o i ritmi latini e del Sud del mondo. Lo vedo molto distante dalle nenie germaniche e scandinave.
(Michelone): Anche per l’avvicinarsi, in epoche recentissime, di molti jazzisti alla musica classica, il jazzologo (con qualche jazzofilo, pure) è sempre più incline a conoscere musiche lontane (polifonia, barocco, romanticismo) o vicine (Il Novecento, l’avanguardia, il post-moderno) nel tempo onde trovare affinità, parallelismi, incroci, tra forme e contenuti delle ‘sette note’, che proprio sette non sono a guardare oltre i trattati di armonia occidentale. Non è una sorta di eurocentrismo il ricercare a ogni costo (come fanno Piras, Zenni, Bragalini) le matrici dotto occidentali nella black music, fino a esaltare partiture ‘classiche’ inedite dei vari James P. Johnson o Eric Dolphy a scapito dei dischi veramente grandiosi che hanno inciso?
(Verrina): Su tutte le congetture intorno alle relazioni tra jazz e musica classica, emerge un dato storico: il tentativo di creare una «terza via» è naufragato nel nulla o in alcuni maldestri tentativi di commistione che non erano né l’una né l’altra cosa. Che molti studiosi abbiano voglia di almanaccare su questi argomenti, oltremodo noiosissimi per l’ascoltatore medio, è anche lecito. Come diceva Roger Bastide: «Gli intellettuali parlano sempre fra di loro ed ogni tanto con Dio». Nella black-music esistono molte componenti occidentali, ma non perché lo dicano Piras, Zenni o Bragalini, ma perché gli USA sono un melting-pot di razze e soprattutto una propaggine dell’Europa ed è evidente che il jazz ed altre forme autoctone si siano sviluppate mettendo in gioco tutte quelle componenti culturali presenti sul territorio. Gli Americani e gli Afro-americani studiavano lo stesso sistema armonico esistente in Europa, ma già da qualche secolo. Non è che i primi jazzisti siano venuti in Europa a prendere lezioni di armonia e poi abbiano creato il jazz, così come non sono andati in Africa a prendere lezioni di ritmo. Vorrei precisare che soprattutto gli Afro-Americani non sono Afro-Africani, ma Americani e cittadini del mondo occidentale. Quella che pretendiamo di definire cultura europea è invece cultura occidentale o, come direbbe Amiri Bakara, cultura settentrionale che riguarda un altro pezzo di mondo ad Ovest delle Colonne d’Ercole già da qualche secolo prima dell’avvento del jazz. Se poi ne facciamo una questione teorico-musicologica di accordi, di scale, di armonie, di note, potremmo anche affermare, paradossalmente, che il merito dell’esistenza del jazz debba andare in massima parte a Guido Monaco, meglio conosciuto come Guido D’Arezzo, e non mi attardo a spiegarne il perché.