// di Marcello Marinelli //

Incredibile, anzi credibilissimo, quando decido di commentare un disco, in qualche maniera il musicista in questione, in questo caso Bill Evans, ha avuto un legame con Miles Davis. Sembra che tutto quello che si commenta su dischi da metà anni ’40 in poi non può prescindere da Miles Davis, è come se dal ceppo ‘davisiano’ si irradi la musica moderna in quasi tutte le sue coniugazioni. Quando si parla di musica moderna non si può prescindere da Davis, punto. In genere non sono categorico, con Davis faccio un’eccezione, (quindi non voglio sentire storie, ci siamo intesi??? (scherzo ovviamente, eccepite quello che volete).

Questo il secondo disco da leader del pianista che aveva lasciato la band di Davis da pochissimo e qui il ‘link’ con Davis, che nonostante la fuoriuscita del pianista dal gruppo, lo volle nell’album ‘Kind of blue’ (padre di tutti gli album) l’anno successivo. Davis era innamorato del suono del pianista e come non esserlo visto il tocco vellutato e soave delle sue dita sui tasti in bianco e nero. Il Nostro in compagnia di Sam Jones al basso e di Philly Joe Jones on drums inizia con un brano be-bob, il celebre standard ‘Minority’ di ‘Giggetto’ di Pensacola, Florida, all’anagrafe Gigy Grice. Introduzione breve con Sam Jones e gli accordi di Bill Evans che accompagnano i piatti e il charleston di Philly Joe Jones, subito dopo l’inizio veloce del tema in cui il pianista ci da un saggio della sua bravura e del suo stile inconfondibile e del suo personale approccio ritmico-melodico alla tastiera. Sam Jones e Philly Joe Jones assecondano gli umori be-bop del leader, scambiandosi il segno della pace con ‘break’ di quattro battute alla fine del brano prima dell’esposizione finale del tema. ‘Young and foolish’, (giovani e pazzi), un altro celebre standard, una ballad in cui eccelleva Bill Evans che suonava con un pathos fuori dal comune, che rendeva le sue ballads le ‘Ballads’.

Giovani (Young) musicisti geniali e pazzi (Foolish) per le droghe che imperversavano, forse in quegli anni in un mondo come quello del jazz e del suo ambiente sociale ancora nel pieno del regime segregazionista, l’eroina occultava con i suoi paradisi artificiali, l’inferno della situazione sociale reale. Bill Evans al pari di molti altri musicisti non ne fu immune. L’incredibile lirismo in tutto il suo splendore che trasudava amore da tutti i pori contrastava l’odio circostante con accordi facili da raggiungere e da eseguire al contrario di accordi di altro tipo, così difficili da raggiungere e da eseguire (non so se sia così ma mi piace pensarlo). Brano che fa venire la pelle d’oca al pari del successivo ‘Lucky to be me’ in completa solitudine e la magnifica melodia di Leonard Bernstein risalta ancora di più nell’interpretazione del pianista, del suo tocco e delle sue armonizzazioni. Segue ‘Night and day’ tanto per citare altri grandi compositori, in questo caso Cole Porter, dall’andatura mossa e sinuosa con un inizio alla batteria di Joe Jones latineggiante e con evidenza anche il basso di Sam Jones che ci da dei piccoli assaggini in solitudine del suo pizzicare. Con ‘Tenderly’ prosegue l’omaggio ai grandi compositori di canzoni, in questo caso Walter Gross.

L’apice del disco si raggiunge con ‘Peace piece’, l’unica composizione (il capolavoro) originale del pianista in questo disco eseguita in completa solitudine, come se questi ‘Pezzi di pace’ non potessero essere condivisi con nessuno se non con se stessi ed infatti, se quello che ho letto corrisponde alla verità, Bill Evans non ha mai voluta eseguirlo dal vivo, perché è legato a quel particolare momento, un’improvvisazione alla fine della seduta di registrazione. Un brano che raccoglie tutto il mondo sonoro del pianista, semplicità, profondità, complessità, ispirazione. Su quel semplice ostinato si sviluppa un mondo di consonanze e dissonanze, dove la dissonanza è così incastrata alla perfezione che se non ci fosse stata ne avremmo sentito la mancanza. Altro tributo ad altri grandi compositori, con ‘What is there to say’ è la volta di Vernon Duke, e del ritorno alla formula del trio e le spazzole di Philly Joe Jones, spazzolano lo spazzolabile.

‘Oleo’ il brano seguente di Sonny Rollins si ritorna a ritmi sostenuti, perché il nostro non è solo un maestro di ballads ma anche un virtuoso sui tempi veloci. Dopo una breve improvvisazione che conclude l’album, ‘epilogue’, la bonus track ‘Some other time’ sempre di Leonard Bernstein e qui i due magici accordi iniziali Cmaj7 e G9sus4 che ricorrono e allora mixate in sequenza “Some other time” e poi “passate a ‘Peace piece’ e infine a ‘Flamenco schetches’ di Miles Davis dove si raggiunge il triangolo d’oro di questi due magici accordi e della circolarità che sprigionano, e io, delicatamente, in punta di piedi continuo a goderne gli effetti benefici, e non posso fare altro altro che uscire delicatamente dal cerchio e accomiatarmi.

Bill Evans & Miles Davis

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