«Avalon Songs» di Stefano Zeni, un biglietto di prima classe per un viaggio fantastico

L’effluvio strumentale, sia pure senza sosta, mai stancante e foriero di un inventiva perpetua, come sostenuta da una dinamo creativa, non mostra pressoché eccessi e prevaricazioni: le partiture risultano equamente e sapientemente distribuite.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il violino nel jazz è come quell’onda anomala che un qualunque surfista aspetta da sempre. Parliamo di uno strumento piuttosto raro in ambito jazzistico e, non sempre, accettato tout-court per le sue caratteristiche, nonostante alcuni rari ma eccelsi precedenti. Il violino non è uno strumento ritmico, ha una naturale difficoltà ad interrompere il fraseggio, scivola come una tavola da surf, mentre il jazz, per sua stessa natura, è un genere percussivo. Quanto detto non costituisce, però, una deminutio capitis per tale strumento che vanta nobili primati in altri settori dello scibile sonoro. In Italia, i violinisti jazz si contano sulla punta delle dita. In genere, i pochi «temerari», transfughi dai circuiti eurodotti, dopo una rigorosa educazione da conservatorio, agiscono sulla scorta di un adattamento non comune all’idioma della musica sincopata, riuscendo a sviluppare situazioni piuttosto attrattive, quanto meno non convenzionali e prevedibili. Stefano Zeni, violinista milanese di lunga esperienza, non sfugge a questa regola, nonostante nel corso della sua ventennale attività, abbia prodotto solo tre album come band-leader: «Passaggi circolari» del 2011, «Parallel Paths» del 2018 e quest’ultimo «Avalon Songs», il quale riserva non poche sorprese.
In genere non avvalendosi di una narrazione legata a un testo scritto e cantato, nel jazz il motivo ispiratore risulta alquanto intimo e personale, ma Zeni conserva un’aura di erudizione e di classicismo facendo riferimento ad una sorta di chanson de geste nordica, al cosiddetto Ciclo Bretone, ossia il mito dell’isola di Avalon, conosciuta anche come «Isola delle Mele», antico simbolo di fecondità presso le popolazioni celtiche, mescolato in un fluido e piacevole plot narrativo musicale collegato alla storia d’amore e al tradimento di Lancillotto e Ginevra, nonché alle vicissitudini che legano l’isola di Avalon a Re Artù e ad i suoi cavalieri. Non a caso, ciascuno degli otto componimenti proposti reca il nome di un cavaliere della Tavola Rotonda, quantunque leggenda, storia ed impianto sonoro non collimino. L’ambientazione è di pura fantasia ed i rimandi letterari e cinematografico-fumettistici diventano un pretesto per la costruzione di atmosfere talvolta sospese, fiabesche ed oniriche, innestate su un parenchima jazzistico dai contrafforti sfumati. Diversamente dalle esperienze passate in cui Zeni aveva fatto uso di overdubbing ed effettistica a vario titolo, in «Avalon Songs» cala il suo strumento in una dimensione quasi minimale, puntando all’essenzialità, mentre il flusso tematico si regge su una melodia facilmente intercettabile e intellegibile, dove ogni tentativo di fuga improvvisativa verso l’impossibile è ridotto ai minimi termini. Il violinista si propone in un formato atipico, un quartetto che finisce per esprimersi sotto forma di triunvirato: il violino del leader e il sax baritono di Bruno Marini agiscono sistematicamente in separata sede evitando il rischio di collisioni melodico-armoniche. Per contro, dalla retroguardia, Marco Arienti al contrabbasso e Alberto Olivieri alla batteria fungono da perfetto collante e sostegno alla due varianti esecutive. L’ effluvio strumentale, sia pure senza sosta, mai stancante e foriero di un inventiva perpetua, come sostenuta da una dinamo creativa, non mostra pressoché eccessi e prevaricazioni: le partiture risultano equamente e sapientemente distribuite.
L’opener, «Gauvan» evidenzia immediatamente la dualità strumentale: dopo un incisivo groove, il violino di Zeni sviluppa una girandola swing attraverso un fraseggio idiomaticamente jazz, per quanto arricchito da citazioni multidirezionali, mentre, in seconda iastanza subentra il sax baritono di Marini con un atteggiamento misterico ed evanescente intrecciando un filo melodico dotato di una fibra scura, complice la retroguardia ritmica che non lascia aria ferma. Un violino pizzicato come una chitarra manouche risucchia l’ascoltatore nelle spire di «Agravain», in sinergia con il bronzeo walking del basso di Arienti, fino all’arrivo del baritono che sembra volteggiare fra dotte citazioni, volute ed involontarie. Basso e batteria si fanno promesse per l’eternità, fino al ritorno in auge di Zeni che spizzica ancora le sue carte vincenti. Quando si pensa l violino in un contesto jazz affiorano alla mente le soluzioni più estreme e libertarie calate in un contesto free, per contro Zeni sceglie la strada opposta. In «Lancelot du Lac», citando indirettamente ed in maniera subliminale il «Libertango di Piazzolla, il violinista tenta una sintesi perfetta fra classico e moderno, attraverso un metodo spartitorio del campo di battaglia con il sax baritono di Marini, provvidenziale alter ego insieme alla retroguardia che gioca di fino. Siamo di fronte a un’affiatata e ispirata sezione ritmica, due solisti di elevato livello esecutivo ed espressivo, mentre le idee sembrano sgorgare a getto continuo, tanto che «Perceval» sembra cogliere gli aspetti di una differente calibratura sonora, più sospesa ed esplorativa, in cui il violino intona un cantico sofferente, acquisito agli atti dallo stesso baritono che gli fa eco con un andamento più flessuoso e circospetto. In «Bohort le Renversè», il groove scandito dal preciso e cadenzato kit percussivo di Olivieri consente agli assoli di Zeni una comoda piattaforma di lancio, mentre il baritono, in seconda battuta, ricama e abbellisce il senso melodico. L’esplorazione sonora di Zeni si mantiene nella normativa vigente del jazz, evitando strattoni o ribaltamenti di stile, ma si avvertono tracce di un post-ornettismo a controllo numerico o di talune soluzioni affidate al violino in ambito free, così in «Kay» Zeni si esalta distribuendo nell’aria una serie di cerchi concentrici, risucchiati dal baritono e restituiti alla medesima stregua di un ostinato, senza mai trasgredire l’impianto accordale. In «Breunor» si nota maggiormente l’influsso celtico ed il violino di Zeni trova la sua migliore calibratura in una melodia a tratti più continua, per quanto spigolosa; dal canto suo il baritono ne arrotonda i contorni aiutato dall’ottimo collettore ritmico. Nella fase finale, ritorna il pizzicato, quasi come un brand di fabbrica. In chiusura, «Bohort le Renversé», dove il violino di Zeni trilla, bisbiglia e racconta immergendosi in un iperspazio dal vago sapore antico, facilitato da una ritmica leggera ed a temperatura costante, nonché amplificata dal ruggito del baritono che rammenta un corno celtico. Forse sono solo suggestione e l’album «Avelon Song», edito dalla Caligola Records, tra tra melodie ipnotiche e circolari come porte girevoli, ne offre tante, basta armarsi di fantasia.
