«Patchwork» di Claudio Fasoli: frammenti sonori multistrato che trovano coerenza nell’insieme (Caligola Records, 2012)
«Patchwork» s’immola sull’altare di una ricerca che non mira alla spettacolarità, ma alla translitterazione di un linguaggio definito, ma non definitivo, riproposto attraverso una differente decodifica.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Patchwork» di Claudio Fasoli, pubblicato da Caligola Records nel 2012, si conforma quale ulteriore scandaglio nell’attività di Claudio Fasoli che, da oltre un ventennio, vive una seconda giovinezza costantemente alimentata da sviluppi tematici che finiscono talvolta per diventare delle vere e proprie indagini critiche sull’evoluzione del vernacolo jazzistico. In questo ennesimo oltrepassare le frontiere, il sassofonista veneziano s’immerge nel parenchima sonoro non precisione chirurgica, si discosta dalle pratiche di routine e dalle normative vigenti, scruta il passato nello specchietto retrovisore, facendolo riemergere attraverso un distillato che viene subito millesimato sulla scorta di un’attitudine sistematicamente tesa verso la contemporaneità. Il quartetto agisce con consapevolezza tecnica, componendo un coordinato-disposto che unisce modernità e tradizione. Ciò che colpisce è la doppia tensione: da un lato il rigore formale, che Fasoli considera parte integrante della sua poetica, dall’altro la curiosità inesauribile di battere strade non sondate, nonché di individuare nuove fisionomie del suono e inedite possibilità di dialogo. L’ordito melodico-armonico non si ferma mai su un registro prevedibile, ma si appella continuamente alla necessità di rinnovarsi, facendo leva su un interplay che rimanda tanto alla tradizione di un quartetto jazz quanto ad un insieme di suggestioni contemporanee, visive e letterarie.
Claudio Fasoli ai sassofoni tenore e soprano, Michele Calgaro alla chitarra elettrica, Lorenzo Calgaro al contrabbasso e Gianni Bertoncini alla batteria con inserti elettronici si presentano come un organismo coeso, atto a far conversare le singole voci, senza mai ridursi a un semplice accompagnamento. Ogni lotto sonoro si estende secondo una metrica progressiva: il sax di Fasoli incrementa le linee melodiche che rimandano alla sua lunga esperienza con il jazz modale e con le avanguardie europee, mentre la chitarra introduce un profilo che alterna lirismo e tensione, sostenuto da un contrabbasso saldo e da una retroguardia percussiva che non si limita al ritmo ma configura inediti spazi elettronici e timbrici. Il titolo «Patchwork» allude a un tessuto di frammenti che trovano coerenza nell’insieme: le composizioni mostrano infatti l’abilità di Fasoli e soci di implementare geometrie armoniche che si schiudono a improvvisazioni collettive, mentre a tratti si mostrano più inclini a un lirismo rarefatto ed a un equilibrio mobile che puntella l’intelaiatura sonora. L’album alterna episodi cinematici a controllo numerico e momenti di vaporizzazione, sempre sulla base di un sistema operativo che evita dispersioni.
In «Patchwork» la chitarra elettrica e l’elettronica non svolgono un ruolo ornamentale, ma piuttosto sorreggono un asse strutturale che rimanda alla stagione della fusion jazz, di cui Claudio Fasoli fu protagonista assoluto con il Perigeo. Come suggestione analitica, si potrebbe parlare di una continuità con l’esperienza passata, ma al tempo stesso ne segna una distanza significativa. Il gruppo degli anni Settanta faceva leva sull’energia elettrica, sull’uso esteso della chitarra e delle tastiere, nonché su una concezione collettiva che mirava a fondere jazz, rock e suggestioni progressive. In «Patchwork» quella memoria riaffiora, ma viene rielaborata con un linguaggio più meditato e consapevole, in cui la chitarra elettrica non è più strumento di rottura spettacolare, ma voce integrata in un contesto che privilegia la finezza timbrica e la rifinitura modulare, mentre l’elettronica s’inserisce come corroborante che dilata lo spazio senza mai sovrastare. La continuità risiede nell’attrazione verso la contaminazione, nella volontà di superare i confini del jazz tradizionale e di aprirsi a un panorama sonoro più ampio. La differenza sta nella maturità del gesto: se il Perigeo incarnava la spinta generazionale di un’epoca, «Patchwork» riflette un percorso individuale sedimentato, dove la memoria della fusion si trasforma in elemento simbolico e non in citazione nostalgica. L’apporto di Michele Calgaro alla chitarra si distingue per la capacità di fondere lirismo e tensione: le sue linee non si limitano a sostenere il sax, ma aprono spazi armonici che ampliano la percezione del quartetto, introducendo colori sonori che oscillano tra rarefazione e densità articolata. L’elettronica, gestita da Gianni Bertoncini, non si riduce a un semplice effetto, ma intarsia il tessuto percussivo ed interagisce con la batteria e il contrabbasso, diramando velature e geometrie timbriche che riportano alla mente la fusion anni Settanta, ma con un modulo espressivo aggiornato e consapevole. In tal senso, «Patchwork» non rievoca soltanto l’esperienza del Perigeo, ma la rivitalizza: la chitarra elettrica diventa ponte tra memoria e modernità, tra passato ed immaginazione, mentre l’elettronica apporta una regola d’ingaggio che destabilizza ed arricchisce, ponendo il quartetto all’interno humus fertile e germinativo. Il risultato è uno schema che rimanda alla libertà della fusion, ma senza cadere nella mera citazione o nella più scontata mimesi: Fasoli annoda il line-up in un trama a maglie larghe, dove la chitarra e l’elettronica non sono accessori, ma elementi attivi di un processo conformativo, capaci di riallocare lo spazio espositivo.
L’opener «Bee» introduce un moto rapido e nervoso, nel quale il sassofono di Fasoli emana vortici serrati che evocano la frenesia di uno sciame, mentre la chitarra elettrica di Michele Calgaro interviene con sagome spezzate e puntiformi, accentuando la sensazione di liquidità, mentre la sezione ritmica apporta micro-variazioni che rendono il campo sonoro vibrante e magnetico. In «Never Mind» il contrabbasso articola un percorso solido, con la complicità della chitarra che si distende in arpeggi contemplativi, mentre il sax di Fasoli suggerisce aperture liriche, forte di una retro-percussione che lavora su dinamiche sottili, ampliando la dimensione spaziale. «Kind Of Her» è un’elegia progressiva, che srotola come una ballata locupletata da una chitarra affamata di airplay radiofonico, mentre il sax di Fasoli apporta quel vago sapore di fusion, ma quanto basta per non disperdersi tra le nebbie del passato. «Short Wave» si nutre di interferenze e frammenti, la chitarra introduce sonorità metalliche quasi cinematiche, l’elettronica di Bertoncini aggiunge velature che destabilizzano la percezione, mentre il Fasoli si sposta fra intervalli spigolosi, intrecciando un tessuto discontinuo. «My Father’s Eyes», firmata da Michele Calgaro, si distingue per un lirismo intimo, la chitarra diventa protagonista con un fraseggio che alterna dolcezza e tensione, sostenuta da un contrabbasso discreto e da una batteria attenta al dettaglio timbrico, mentre Fasoli rievoca atmosfere elegiache. «Protocol», sintetizza la poetica del quartetto, frammenti eterogenei trovano coerenza nell’insieme, la chitarra e l’elettronica rifilano un tessuto multiforme e il sax alterna registri lirici e incisivi, mentre la sezione ritmica costruisce un impianto modulare che sorregge e destabilizza. «Blizard» porta con sé un clima di rarefazione, in cui la chitarra si avvolge in sonorità arpeggiate e taglienti, il sax s’innesta con linee che richiamano paesaggi aperti, tra muschi e licheni, mentre la ritmica lavora, quasi per sottrazione, su digressioni che fanno emergere un senso di immobilità dinamica e contemplativa al tempo stesso. «Duett» chiude l’album con un dialogo intimo, dove il sax e la chitarra si confrontano in un afflato sottile, senza bisogno di un sostegno massiccio, mentre la scrittura si concentra sulla relazione diretta tra le due voci che s’inseguono e si fondono, propugnando la versatilità del quartetto nel ridurre la complessità del costrutto, riportandola al nucleo gravitazionale dell’idea. «Patchwork» s’immola sull’altare di una ricerca che non mira alla spettacolarità, ma alla translitterazione di un linguaggio definito, ma non definitivo, riproposto attraverso una differente decodifica. Ciascun episodio del disco appare come il filamento di un’ampia tela, dove la voce di Fasoli si annoda con quella dei compagni, tessendo un’imbastitura accordale che suscita alla mente la vitalità di un laboratorio aperto.

