Erykah Badu: Auditorium Parco della Musica Roma 10.11.2025
Erykah Badu
…si concede al pubblico scendendo dalla pedana rialzata, stringendo calorosamente le mani e mischiandosi al pubblico assiepato alle pendici del palco. Firma autografi a profusione sulle copertine del suo album. Dopo il bagno di folla se ne va senza clamori. Tornerà ad illuminare il suo universo da dove era venuta e tornerà ad essere la regina del cielo e del neo-soul.
//di Marcello Marinelli //
PREMESSA
I legami con il jazz? L’unico diretto e incontestabile è la sua collaborazione con Roy Hargrove, essendo ambedue di Dallas, dove facevano freestyle insieme: improvvisazione vocale e strumentale. Nell’album in questione «Mama’s Gun» duetta con il trombettista all’inizio dell’ultima traccia del disco «Green Eyes». Tracce labili di jazz che qualcuno legittimamente potrebbe non vedere, anzi non udire; sono solo una questione di substrato musicale a cui la cantante attinge. Anche se fossero tracce invisibili, la cantante fa parte della grande storia musicale afroamericana in cui i generi sono quanto meno imparentati. In queste pagine si è parlato anche di artisti e di dischi non propriamente jazz e questo è proprio il caso in questione. Scusate la premessa, ma era doverosa per evitare eventuali polemiche sulla natura di questa musica.
«Io so io e voi non siete un cazzo», la celebre frase pronunciata da Alberto Sordi nel film di Mario Monicelli ‘Il marchese del Grillo’ è quella che mi è venuta in mente, pescando nel mio background di pensiero, all’entrata sul palco della celebre cantante afroamericana. Ovviamente bisogna fare dei distinguo; nel caso del Marchese del Grillo quella frase simboleggiava la protervia e l’arroganza della nobiltà rispetto al popolo. Nel caso specifico, in seguito a una rissa, il marchese del Grillo viene liberato in virtù del suo appartenere alla classe nobile in spregio dei canoni di giustizia ordinari e ora che ci penso non credo sia cambiato molto da allora, fine settecento, inizio ottocento. Nel caso della cantante l’accostamento è esagerato, un paradosso, un’iperbole che non sta a significare nessuna arroganza e nessuna protervia, ma solo la forza del proprio carisma che oscura i comprimari senza offendere o infierire. Dopo un’introduzione dei musicisti e dei coristi/e che prepara musicalmente con un soffice sound soul l’entrata in scena, il tutto in un’atmosfera oscura, con le luci soffuse e i musicisti nascosti dietro questa oscurità, compare sua maestà ‘la regina del soul, del neo-soul’, agghindata per l’occasione con copricapo reale e abiti sgargianti. L’oscurità relegata ai componenti del gruppo viene squarciata dalla luce della cantante con un gioco di colori che la illumina e evidenzia la sua figura regale, che risalta ancora di più con una pedana rialzata sul palco al centro della scena.
Il suo nome di battesimo è Erica Abi Wright, modifica «Erica» in “Erykah”, il suffisso «kah» significa in egiziano «luce interiore», poi scoprirà senza esserne consapevole che in arabo il nome «Badu» significa oltre a «verità» anche «luce». La cantante aveva scelto Badu come onomatopea che imitava il fraseggio jazz. La luce era in qualche modo parte di sé e i giochi di luce fisica che i tecnici realizzano in modo sublime amplificano il concetto di luminosità che la cantante sprigiona per il suo carisma e per il suo nome. Per smarcarsi ancora di più dalla realtà e per accentuare il suo lato alieno, ad un certo punto un triangolo proiettato sulla sua figura crea una barriera immaginaria e la cantante, per entrare nella sfera terrestre, simula con un ingegnoso artificio tecnico l’entrata come se dovesse forzare l’ingresso in altri mondi creando attriti luminosi. Se le luci sono eccezionali non si può dire altrettanto della qualità sonora. La Sala Santa Cecilia, la sala più capiente dell’auditorium, è un capolavoro di estetica ma non di qualità sonora per gruppi elettrici. Va bene per concerti acustici e il tecnico fonico deve fare salti mortali per rendere di buona qualità la sala. Già mi era capitato con un’altra grande cantante soul, Macy Gray, e con altri gruppi non acustici di constatare il limite sonoro della grande sala. Avevo già visto la cantante nella cavea all’aperto dello stesso auditorium nel 2008, tutt’altra storia la qualità sonora. La cantante ha debuttato nel 1997 con l’album «Baduizm», ma in questo tour celebra il secondo album pubblicato in studio, «Mama’s Gun», di cui ricorre il venticinquesimo anno dalla pubblicazione nel 1998. Praticamente il concerto è la riproposizione dal vivo del celebre album.
Il gruppo di supporto è di alto livello ma la cantante concede scampoli di assoli molto brevi e forse in questo caso sarebbe stato più interessante lasciare più spazio ai componenti del gruppo, ma non si può avere tutto dalla vita. La pensa allo stesso modo il mio compagno di avventure, che ha preso i biglietti con largo anticipo confidando sulla mia presenza allora tutt’altro che scontata per motivi che esulano il desiderio di presenza. Il mio compagno di avventure è Emile Zola, venuto direttamente dalla seconda metà dell’ottocento per capire uno dei molteplici sound dei tempi moderni (si fa per scherzare ed evocare figure storiche che la similitudine suggerisce). Il concerto fila che è una meraviglia tra le varie atmosfere che la cantante crea. «Penitentiary Philosophy», «Didn’t Cha Know», «It’s My Life”, «…& On» e «Cleva» scorrono con maestria e la cantante con la sua voce penetrante e cristallina comincia ad alleggerire il suo carico di vestiti e di accessori abbondantemente esibiti a strati. Ad ogni ciclo di canzoni toglie qualcosa da se stessa ricordando una performance su video del 2010 che suscitò scalpore, dove in «Elm Street a Dallas», sua città natale, la cantante sotto le note di «Window Seat» si toglie progressivamente i vestiti fino a rimanere completamente nuda. A Dealey Plaza, la piazza dove fu assassinato il presidente John F. Kennedy nel 1963, si accascia come se fosse uccisa anche lei. Dalla sua testa fuoriesce del sangue blu che forma la parola «Groupthink» (Pensiero di Gruppo) e/o la frase «They who play it safe are quick to assassinate what they don’t understand» (Coloro che giocano sul sicuro sono rapidi nell’assassinare ciò che non capiscono). Uno spogliarsi altamente simbolico dove la regina si mette a nudo esibendo la propria individualità senza orpelli, rivendicando libertà d’espressione e non omologazione. Nonostante il suo esordio datato 1997, la cantante ha pubblicato solo cinque album in studio e uno dal vivo, quindi estremamente parca in quanto a pubblicazione. L’ultimo album è stato pubblicato nel 2010 e dopo quindici anni è pronto un nuovo album con il produttore «The Alchemist» intitolato «Cabin In The Sky». Dopo un’altra carrellata di tutte le canzoni del suo celebre album e dopo una toccante parentesi unplugged, «Orange Moon» – il punto intimo più alto – si concede al pubblico scendendo dalla pedana rialzata, stringendo calorosamente le mani e mischiandosi al pubblico assiepato alle pendici del palco. Firma autografi a profusione sulle copertine del suo album. Dopo il bagno di folla se ne va senza clamori. Tornerà ad illuminare il suo universo da dove era venuta e tornerà ad essere la regina del cielo e del neo-soul. Ciao regina, a presto.

