A volte ritornano. Tom Harrell con «Light On»: la misura del suono e l’arte della discrezione (Black Hawk Records, 1986)

La voce di Harrell si colloca nel tracciato di un pensiero musicale che privilegia la profondità strutturale, la coerenza interna e la tensione armonica calibrata. Il linguaggio si distende in forme che non cercano l’effetto, ma costruiscono un ordine, una geometria espressiva dove ogni elemento trova collocazione secondo logica e necessità.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel panorama del jazz post-bellico, Tom Harrell occupa una posizione singolare e profondamente significativa, non tanto per l’adesione ad una scuola o ad una corrente, quanto per l’attitudine a sintetizzare, con voce personale e interiormente articolata, le molteplici eredità stilistiche che hanno attraversato la tromba jazz nel secondo Novecento. Nato nel 1946 a Urbana, Illinois, Harrell si forma nella Bay Area californiana, dove sin da giovanissimo entra in contatto con figure come Dewey Redman ed Eddie Henderson, assimilando un linguaggio che non si limita alla tecnica, ma che si radica in una visione poetica del suono.
La sua linguaggio si sviluppa nel solco di una tradizione che ha visto nella tromba uno strumento di affermazione identitaria e di indagine espressiva. Harrell non si pone in antitesi a tale genealogia, bensì la rielabora con una sensibilità che rifugge ogni retorica. Il suo rapporto con gli storici trombettisti afro-americani si costruisce nel gesto, nella scelta di non emulare, ma di far risuonare echi interiori. Con Dizzy Gillespie, ad esempio, condivide non tanto la pirotecnia quanto l’attitudine verso una sintassi armonica espansa, versata nel connettere il bebop con le aperture modali. Con Miles Davis, il legame si mostra più sottile, al punto che Harrell ne assorbe la predisposizione nel dire l’indicibile, di lasciare che il silenzio diventi parte integrante del racconto musicale, senza mai cadere nell’imitazione. La collaborazione con Horace Silver negli anni Settanta sancisce un momento decisivo, tanto che in seno a quel quintetto, Harrell approfondisce l’approccio ritmico e la costruzione tematica, implementando una composizione che, pur radicata nel post-bop, si dischiude a contaminazioni latine ed a situazioni più oblique. L’incontro con Bill Evans, seppur episodico, lascia tracce evidenti nella sua concezione accordale. La predilezione per le progressioni non risolutive, per le sovrapposizioni acustiche e per le ambiguità tonali, trova in Harrell un interprete preparato a tradurre nel linguaggio trombettistico ciò che Evans aveva esplorato al pianoforte. Nel confronto con trombettisti bianchi come Chet Baker, Harrell si distingue per una maggiore ricchezza strutturale: se Baker optava per la linea melodica pura, Harrell la modella, la plasma, la inserisce in un impianto compositivo che non si limita all’emozione, ma che la organizza secondo logiche formali. La sua voce, pur delicata, non si dissolve, ma resta, persiste, s’incide nella memoria dell’ascoltatore. La produzione discografica, che si estende per oltre cinque decenni, testimonia una coerenza rara:, in cui ogni album e qualunque pagina musicale s’interseziona in un disegno armonico che non mira all’effetto, ma all’escavazione emotiva. Le composizioni, eseguite da strumentisti come Kenny Barron, Jim Hall e Joe Lovano, rivelano una padronanza idiomatica che lo posiziona tra i più raffinati costruttori dell’estetica del jazz contemporaneo.
Nel tessuto sonoro di «Light On», Tom Harrell disegna un impianto compositivo che sfugge alle metodologie frammentarie della contemporaneità discografica, opponendo alla volatilità del singolo brano una struttura tematica coesa, pensata per essere assimilata nella sua interezza. L’album, inciso presso il Van Gelder Studio, si posiziona nell’alveo di una tradizione che non rinuncia alla forma lunga, ma la rinnova mediante una scrittura armonicamente consapevole e una aura fonica che rifugge ogni compiacimento. Tom Harrell, nella duplice veste di trombettista e curatore timbrico, articola un discorso solistico che agisce come un carotaggio emotivo. La sua pronuncia, mai assertiva, si rivela interiormente variabile e finalizzata ad insinuarsi tra le pieghe della trama espressiva con una delicatezza che non rinuncia alla complessità. A fargli da contrappunto, Wayne Escoffery, il cui profilo acustico si connota per un’opulenza emotiva ed una padronanza tecnica che non cede mai alla retorica. Jonathan Blake, alla batteria, non si limita a sostenere, ma plasma il clima, modella l’ambiente sonoro, ne determina la fisionomia. Ugonna Okegwo, al contrabbasso, ne asseconda il respiro con una presenza discreta ma incisiva, delineando un fondale armonico che non si limita a sorreggere, bensì dialoga con le voci superiori. Danny Grissett, al pianoforte e Fender Rhodes, interviene con una fluenza tutt’altro che decorativa, ma tesa alla costruzione modulare dell’intero impianto. La sua sensibilità accordale, unita a una tecnica di solida formazione, consente di far conversare i sodali con una naturalezza che non tradisce mai la partitura.
Ogni composizione si rivela come episodio sonoro autonomo, ma intimamente connesso al disegno complessivo, secondo una logica di sviluppo tematico che non concede nulla alla frammentarietà. L’apertura affidata a «Va» introduce immediatamente una tensione armonica che si articola su progressioni modali, dove la tromba di Harrell suggerisce, allude e rievoca. La struttura accordale, basata su sovrapposizioni di quarte e su ambiguità tonali, consente al quintetto di muoversi in uno spazio che non è mai rigidamente definito, ma che si espande secondo il gesto di ogni interprete. Escoffery, in particolare, si segnala per una pronuncia che, pur affondando le radici nel linguaggio hard bop, ne distilla le componenti più liriche, lasciando che la suo strumento si adatti al respiro collettivo. «Sky Life» si sostanzia sulla scorta di un impianto ritmico che, pur suggerendo una pulsazione funk, non si abbandona mai alla prevedibilità. Il Fender Rhodes di Grissett introduce una velatura acustica che smussa gli spigoli armonici, rendendo fluido il passaggio tra le sezioni. L’armonia si solidifica mediante una successione di accordi alterati, dove la tensione non si risolve, ma si trasforma in colore. Harrell plasma linee che s’incuneano nel tessuto ritmico, mentre Blake e Okegwo puntellano un fondale che non si limita a sostenere, bensì interagisce, suggerisce e provoca. In «Contrary Mary», la conservazione fra i sodali diventa più serrato, mentre la struttura formale si fraziona in sezioni contrastanti, dove il tema iniziale, imperniato su intervalli spezzati e su un ritmo incalzante, lascia spazio ad improvvisazioni che si muovono in equilibrio instabile. Escoffery dimostra di essere particolarmente inventivo, facendo leva su una tavolozza cromatica che alterna frasi intervallate a momenti di lirismo trattenuto. Il dialogo con Harrell si estrinseca nel metodo, nella pausa, nella scelta di non sovrapporsi, ma di far emergere le differenze quale valore aggiunto. «Fountain» si presenta come pagina musicale più rarefatta, dove il tratturo armonico si basa su una successione di accordi sospesi, privi di funzione tonale esplicita. Il clima che ne deriva si connota per una tensione latente, mai risolta, dove ogni intervento solistico sembra cercare una via d’uscita che non arriva mai. Grissett, in particolare, modella il profilo acustico con una delicatezza che non indulge mai nel decorativo, ma che si radica in una consapevolezza formale profonda. «Nights at Catalonia» richiama un ambiente sonoro mediterraneo, ma lo fa evitando ogni stereotipo. L’armonia si costruisce su scale miste, dove il modo dorico si annoda con elementi lidii e frigii, generando un clima che rimanda, senza citare, a certe pagine di Silver. Harrell si ritrae ulteriormente, lasciando che siano la batteria ed il contrabbasso a determinare il tono. Blake, con una precisione chirurgica che non rinuncia mai alla flessibilità, scolpisce il tempo, mentre Okegwo ne segue il tracciato con una sensibilità che si rivela decisiva.
«The Gronk» e «Blue Caribe» rappresentano il momento più espansivo dell’album: la partitura si apre a strutture più ampie, dove il tema iniziale funge da pretesto per una serie di variazioni che coinvolgono l’intero ensemble. Escoffery, in particolare, mostra una padronanza tecnica che non si limita alla brillantezza, ma che si radica in una visione musicale coerente. Harrell, nel suo ruolo di regista armonico, lascia che le voci si sovrappongano, si fondano e si compongano in contrappunto, dando alla luce un tessuto limpido ed intellegibile che non ha bisogno di essere spiegato. «Architect Of Time» si distingue per una costruzione variabile che gioca con la percezione del tempo, mentre la pulsazione si frammenta, si ricompone e si espande. L’armonia si fa più audace, con l’impiego di accordi politonali e di sovrapposizioni che generano ambiguità percettive. Grissett, con il suo tocco sempre misurato, riesce a rendere leggibili anche le grumosità più complesse, mentre Harrell interviene con una sound che non mira al protagonismo, ma che s’immerge nel flusso con naturalezza. «Bad Stuff» rappresenta il momento più energico, dove le regole d’ingaggio si aprono ad una descrizione più libera, mentre l’interazione fra i musicisti si fa più serrata. Blake si segnala per una capacità di modellare il tempo con una precisione che non rinuncia mai alla spontaneità, mentre Okegwo ne segue il gesto con una presenza che risulta sistematicamente decisiva. Escoffery, ancora una volta, emerge per inventiva e controllo, delineando una fisionomia del suono che non si lascia incasellare. La ripresa di «Va» chiude il cerchio, riportando l’ascoltatore al punto di partenza, ma con una consapevolezza nuova. L’intero album, nel suo ordine interno, si attesta come costruzione modulare, dove ogni episodio sonoro contribuisce alla definizione di un impianto compositivo coerente, variegato e musicalmente eloquente. Harrell, in questo contesto, si conferma tessitore di trame sonore, capace di far dialogare le voci con una naturalezza che non tradisce mai la complessità della scrittura.
