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Romano Mussolini

La figura di Romano Mussolini suscitò reazioni contrastanti nella stampa italiana e mondiale, specialmente a causa del legame familiare e storico con il regime fascista. Inizialmente, molti critici e giornalisti si mostravano scettici nei suoi confronti, ed quel cognome rischiò di diventare un ostacolo significativo. La sua musica ed il suo talento, però, prevalsero, portando ad un graduale superamento dei pregiudizi.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La traiettoria musicale di Romano Mussolini riflette una progressiva affermazione – artistica e personale – nel panorama jazzistico italiano, caratterizzata da una costante ricerca espressiva e da una solida padronanza strumentale. La sua genesi artistica affonda le radici in un’infanzia segnata dall’esposizione precoce al jazz. L’apprendimento del pianoforte, intrapreso nel 1943, segnò l’avvio di un percorso di studi che, pur interrotto da vicende storiche e familiari, si sarebbe consolidato negli anni successivi. Il periodo post-bellico, con il confino ad Ischia, gli offrì l’opportunità di un confronto diretto con lo strumento, preludio alla sua attività professionale.

L’incontro con Ugo Calise nel 1947 segnò l’inizio delle sue esibizioni pubbliche – al principio sotto uno pseudonimo -, nel contesto dei locali ischitani. La carriera prese un slancio significativo con l’esordio pubblico sotto il proprio nome, nel 1955, al Jazz Club Roma, affiancando il trombettista Nunzio Rotondo. Nonostante un’accoglienza tiepida ed una critica inizialmente cauta, tenacia e talento emersero con forza nelle collaborazioni successive, tra cui spicca la sessione registrata con Dizzy Gillespie e l’incisione nel 1956 del suo primo disco da band-leader, «Romano Mussolini Trio». La partecipazione al primo Festival del Jazz di Sanremo nello stesso anno rappresentò un momento di svolta, consacrandone la presenza nel circuito jazzistico. Le produzioni discografiche successive, come l’album del 1957 con Nunzio Rotondo e Lilian Terry, furono accolte con favore dalla critica, che ne riconobbe la maturità stilistica e la conoscenza del linguaggio jazzistico. Il rigore interpretativo e la sua eccellente conoscenza del vernacolo afro-americano furono elementi distintivi. Gli anni successivi videro un’intensificazione dell’attività concertistica, con inviti a festival prestigiosi e collaborazioni con artisti di fama internazionale. L’affermazione come pianista jazz si consolidò ulteriormente con l’ingaggio triennale alla Bussola di Marina di Pietrasanta nel 1959, mentre la discografia si arricchì con album quali «Romano Mussolini At The Santa Tecla» (1963), che ne evidenziò la versatilità di adattamento al blues, e «Ricordi Jazz allo Studio 7» (1962), designato disco dell’anno. La versatilità di Romano si manifestò perfino nella composizione di colonne sonore per film, dimostrando una naturale attitudine a modellare il proprio linguaggio musicale in relazione a contesti visivi ed aurali differenti.

Come accennato, la sua infanzia, segnata da una frequentazione precoce dell’idioma jazzistico, grazie all’influenza del fratello Vittorio e all’ascolto reiterato di Duke Ellington, pose le basi per un interesse che si sarebbe consolidato negli anni. L’apprendimento del pianoforte, avviato in giovane tà, rappresentò un passo fondamentale, affiancato da un precoce interesse per il sassofono contralto, sebbene quest’ultimo non si traducesse in una pratica consolidata. Il contesto bellico, con l’ascolto di Radio Tevere, contribuì a plasmare ulteriormente la sua sensibilità musicale in un periodo storico di rutilante trasformazione. Il dopoguerra segnò un momento di riorganizzazione personale ed artistica. Il confino a Forìo d’Ischia, a partire dal 1945, gli offrì l’opportunità di suonare un pianoforte a coda, un’esperienza che gli consenti di affinare ulteriormente la tecnica sullo strumento. La ripresa degli studi musicali nel 1947 e le prime esibizioni nei locali dell’isola, sotto lo pseudonimo Romano Full, segnarono l’inizio della sua carriera professionale. L’affermazione definitiva come pianista jazz avvenne progressivamente, tanto che il cammino professionale di Romano Mussolini si contraddistingue per una costante evoluzione, una solida padronanza tecnica ed una forte passione. L’attitudine nel coniugare la tradizione afro-americana con un approccio personale ed distintivo, unita ad un’acclarata versatilità strumentale, ne fanno una figura di spicco nel panorama jazzistico del secondo Novecento italiano. La sua evoluzione artistica, dalla precoce fascinazione giovanile fino alla piena maturità esecutiva, costituisce un esempio di come lo studio e la dedizione possano condurre alla realizzazione di un percorso musicale significativo e duraturo.

L’analisi della scrittura armonica e stilistica di Romano Mussolini rivela un approccio al jazz che, pur radicato nella tradizione, se ne allontana per via di una personale declinazione delle forme e delle sonorità. Dal punto di vista accordale, il pianista dimostra una robusta conoscenza del linguaggio bebop e post-bop, utilizzando progressioni armoniche che includono sostituzioni di accordi, alterazioni cromatiche e modulazioni, sebbene con una predilezione per strutture relativamente accessibili e melodicamente definite. Il suo metodo non eccede in un groviglio accordale fine a se stesso, preferendo piuttosto utilizzare l’armonia come veicolo per la congruità melodica e ritmica, in cui si riscontrano frequentemente l’uso di accordi di settima maggiore e minore, nona, undicesima e tredicesima, spesso impiegati in contesti di II-V-I, ma anche in sequenze più elaborate che evocano un dialogo con il blues e con forme più liriche. La perifrasi armonica, ossia la variazione tematica si manifesta sulla scorta di un’aggiunta di note di colore, estensioni accordali e salti cromatici che infittisco il costrutto motivico senza stravolgerne l’essenza. Ad esempio, in alcune sue composizioni o interpretazioni è possibile notare l’uso di accordi diminuiti come sostituti di dominanti o come transiti cromatici all’interno delle scale accordali, una tecnica che conferisce fluidità e movimento alla progressione. Dal punto di vista stilistico, Mussolini si caratterizzò per un approccio pianistico che univa una buona tecnica ad un fraseggio incisivo e, come sottolineato dalla critica dell’epoca, «quasi scarno», ma ricco di «eccellente musicalità». Tale definizione suggerisce un’economia di mezzi, un’attenzione alla chiarezza espressiva piuttosto che a un virtuosismo ostentato. Il modus operandi al piano privilegia la melodia ed il ritmo, con un fraseologia che, pur attingendo al vocabolario jazzistico, mantiene un’evidente individualità, locupletata da una certa enfasi sull’elaborazione di linee melodiche nitide e facilmente metabolizzabili, quando non supportate da un accompagnamento armonico solido e ben definito. L’influenza del blues risulta palpabile in molti lavori, non solo nel costrutto armonico di alcuni componimenti, ma anche nel feeling e nel fraseggio, che evocano una salda connessione con le radici del jazz. Il suo tracciato si concretizza in una sintesi tra l’adesione ai canoni e alle normative vigenti del più classico idioma jazzistico ed una personale rivisitazione, dove la melodia, l’armonia e il ritmo dialogano con circolarità. Non si tratta mai di propositi eccessivamente avanguardistici o sperimentalisti, bensì di un approccio maturo e consapevole che valorizza la comunicatività e combustibilità immediata del materiale distillato. Le composizioni e le interpretazioni tendono ad delineare un aura fonica che appare al contempo sofisticata ed accessibile, invitando l’ascoltatore a immergersi in un appagante microcosmo sonoro. La versatilità nel «raggiungere risultati cospicui in virtù del suo rigore stilistico e della sua eccellente conoscenza del jazz», come affermato da Arrigo Polillo, ne riassume adeguatamente la cifra e la tempra esecutiva, sorretta da un linguaggio sonoro declamato con intelligenza, passione e una chiara comprensione delle radici e delle potenzialità espressive.

Le strutture accordali e le sequenze armoniche rivelano un pianista consapevole del linguaggio jazzistico, capace di manipolare le convenzioni armoniche con una sensibilità distintiva, il quale non si discosta radicalmente dalle progressioni tipiche del jazz moderno, ma le arricchisce in virtù un uso calibrato di estensioni, alterazioni e sostituzioni, conferendo un colore personale e una maggiore assertività. Tuttavia, Mussolini eccelle nel variare queste strutture di base attraverso l’introduzione di accordi di settima maggiore e minore, none, undicesime e tredicesime, spesso alterate cromaticamente per generare attesa e risoluzione. Un esempio emblematico della sua perifrasi armonica risiede nell’uso delle sostituzioni accordali. È possibile imbattersi, ad esempio, nell’impiego di diminuite come sostitute di dominanti, o come hub cromatici che collegano fluidamente gli accordi distanti. Tecnica riferibile al bebop, che da Romano viene utilizzata con una leggerezza che non ne appesantisce la partitura, ma anzi ne accentua la scorrevolezza e la complessità intrinseca, dimostrando una sorgiva abilità nel modulare, ovvero nello spostare il centro tonale della composizione. Tali variazioni, spesso preparate con accordi di transito o con sequenze cromatiche, permettono di perlustrare inedite direzioni armoniche e di rinnovare l’interesse dell’ascoltatore. Non si tratta di pratiche avventate, ma di cambi ben ponderati che s’integrano logicamente nel flusso pianistico. Dal punto di vista formale, la tessitura armonica si lega strettamente ad fraseggio pianistico ricco di musicalità e di vibrazioni, sia pur descritto come snello ed asciutto, quale dimostrazione che le scelte accordali non sono mai fini a se stesse, ma servono a sostenere o a garantire immersività al tragitto tematico. L’armonia diventa così un substrato su cui s’innesta lo sviluppo motivico, innescando un dialogo costante tra i due componenti. Il rigore stilistico, unito ad un’eccellente conoscenza del jazz tout court, gli permetteva di raggiungere risultati cospicui, come sottolineato dalla critica di quegli anni. Per intenderci le sue sequenze armoniche sono un connubio di rispetto idiomatico del vernacolo jazzistico e di una personale ricerca di espressività, che conferiscono alla sua musica un carattere distintivo e memorabile.

Romano Mussolini, nel suo percorso jazzistico, s’ispirò ad una costellazione di pianisti americani e afro-americani, ciascuno dei quali contribuì a plasmarne il modus agendi. Tra le figure di spicco emerge Duke Ellington, il quale occupa un posto di rilievo, non tanto come pianista quanto come figura di riferimento, poiché versato in un’innovativa gestione compositiva ed orchestrale. Tali, elementi lo influenzarono, al punto da spingerlo verso una visione più ampia riguardo alla struttura ed alla fisionomia acustica. Tuttavia, è nell’ambito dei pianisti che si delineano le ispirazioni più dirette di Romano Mussolini. Art Tatum, con la sua incredibile destrezza tecnica, la sua padronanza delle armonie complesse e di un fraseggio virtuosistico, rappresenta un modello di riferimento per molti pianisti jazz, e sebbene Mussolini non raggiungesse i vertici delle performance tatumiane, ne condivideva l’approccio all’opulenza armonica e alla fluidità del fraseggio. Come Art Tatum, Romano tendeva ad esplorare estensioni accordali e sostituzioni cromatiche, pur mantenendo una chiarezza melodica che evitava l’eccessiva ridondanza. Un’altra influenza significativa potrebbe essere individuata in Thelonious Monk, non tanto per l’aspetto eccentrico ed angolare della sua tecnica, quanto per la predisposizione nel concepire melodie penetranti ed a presa rapida su armonie spesso inusuali, nondimeno per il peculiare approccio ritmico. Mussolini, pur non emulando le dissonanze radicali di Monk, condivideva l’idea di un fraseggio ritmicamente incisivo e di una scrittura che, pur essendo apparentemente semplice, nascondeva una ricca complessità strutturale. Sebbene le critiche iniziali abbiano descritto il suo stile come «quasi scarno», questa definizione va intesa non come una mancanza di sostanza, ma come una scelta estetica volta a privilegiare la chiarezza espressiva e l’essenzialità dell’impianto sonoro, un tratto che lo avvicina a pianisti come Red Garland o Ahmad Jamal, noti per il loro lirismo e la loro capacità di costruire melodie evocative su strutture armoniche solide. Le similitudini con questi artisti risiedono nella predilezione per un fraseggio melodico pulito, nell’uso di un accompagnamento ritmicamente solido e nell’attenzione all’implementazione di un racconto musicale coerente e comunicativo. Le differenze emergono soprattutto nell’intensità del virtuosismo e nell’audacia armonica; mentre Tatum spingeva i confini della tecnica pianistica e Monk esplorava territori armonici più audaci, Mussolini tendeva ad una maggiore accessibilità e ad un’aura fonica più lirica e controllata. L’ispirazione afro-americana si manifestava non tanto nell’emulazione diretta di uno stilema specifico, quanto nell’assimilazione dei principi fondamentali del jazz: lo swing, l’improvvisazione, la variabilità armonica e l’assertività, filtrate tramite la sua sensibilità e la sua formazione culturale. La tecnica espositiva, pur radicata in questi modelli, manteneva una sua identità, in equilibrio tra adesione alla tradizione ed una proiezione assolutamente personale.

Nel panorama jazzistico europeo, il riferimento va ad alcuni pianisti coevi – in cui possono ravvisate talune similitudini – quali Michel Petrucciani, George Gruntz e Giorgio Gaslini. Mantenendo una loro connotazione distintiva, essi condividono con il pianista italiano talune peculiarità, sia pur presentando divergenze significative. Michel Petrucciani, ad esempio, noto per il suo approccio lirico e melodico, simile a quello di Mussolini, privilegiava la chiarezza espressiva e l’elaborazione di linee melodiche evocative. Entrambi i pianisti mostrano una predilezione per l’uso di armonie ricche e complesse, ma Petrucciani si distingue per una maggiore audacia nell’improvvisazione e una tecnica virtuosistica che spesso sfida le convenzioni. Mentre Romano tendeva a mantenere una postura più controllata ed accessibile, Michel indagava territori più avanguardistici, spingendosi oltre i confini del jazz contemporaneo. George Gruntz, d’altra parte, appare come un pianista e compositore che ha saputo fondere elementi di jazz con influenze classiche ed avanguardistiche. Il suo elaborato armonico si contraddistingue per un studio ed un’attazione che possono differire dall’approccio più conservatoriale di Romano Mussolini. Tuttavia, entrambi percepiscono un forte senso della struttura e della forma, con Gruntz che sovente utilizza sequenze armoniche elaborate per progettare ambientazioni sonore non convenzionali. La differenza principale risiede nella propensione di Gruntz a perlustrare sonorità più dissonanti e ad incorporare elementi di improvvisazione anarcoide, mentre Mussolini rimane ancorato a una postura più classica. Giorgio Gaslini, infine, rappresenta un altro esempio di pianista europeo che, pur avendo un approccio più laboratoriale ed avanguardistico, condivide con Mussolini l’amore per la melodia e l’armonia. Gaslini risulta famoso per i suoi componimenti che spesso integrano elementi eurodotti e free jazz, alimentando un linguaggio musicale fitto e multistrato. Tuttavia, la sua inclinazione verso l’improvvisazione e la vivisezione di forme più astratte lo distingue da Mussolini, il quale tende a mantenere una rassicurante linearità e coerenza nelle sue opere. In sintesi, mentre Romano Mussolini si distanzia per un approccio accordale e tematico che gradisce la chiarezza e la fruibilità, i pianisti coevi come Michel Petrucciani, George Gruntz e Giorgio Gaslini offrono una varietà di soluzioni che, pur condividendo alcune affinità, si differenziano per audacia, grumosità armonica ed approccio improvvisativo.

La figura di Romano Mussolini suscitò reazioni contrastanti nella stampa italiana e mondiale, specialmente a causa del suo cognome e dell’eredità storica legata al regime fascista. Inizialmente, molti critici e giornalisti si mostravano scettici nei suoi confronti, ed il suo cognome rischiò di diventare un ostacolo significativo. La stampa italiana, in particolare, oscillava tra l’ammirazione per il talento del giovane pianista ed il pregiudizio legato alla famiglia di appartenenza. Alcuni articoli ne mettevano in luce le capacità artistiche, ma sovente erano accompagnati da commenti che sottolineavano la difficoltà di separare l’artista dalla figura paterna. Tutto ciò produsse un sorta di ostracismo involontario, quando non ad hoc, con commenti ed articoli che tendevano a focalizzarsi più sul cognome che sulla musica. A livello internazionale, la situazione non fu molto diversa. La stampa estera, pur riconoscendone il talento, tendeva a trattare il personaggio con una certa cautela, spesso evidenziando il contrasto tra la sua carriera musicale ed il gravoso fardello del suo passato familiare. In alcuni casi, il cognome Mussolini era utilizzato per evocare ricordi di un’epoca controversa, influenzando negativamente la percezione del prodotto jazzistico. Tuttavia, con il passare del tempo e grazie alla sua partecipazione a festival di rilievo ed alle collaborazioni con musicisti di fama, la sua musica di Romano cominciò a parlare da sola. Molti critici iniziarono a riconoscerne il talento, separandolo dalla figura paterna, tanto da permettergli di guadagnarsi un posto nel panorama jazzistico europeo. In sintesi, sebbene inizialmente Romano Mussolini potesse essere visto con sospetto o addirittura ostracizzato, la sua musica ed il suo talento prevalsero, portando ad un graduale superamento dei pregiudizi legati al cognome.

Come detto, negli anni ’50 e ’60, molti articoli e recensioni discografiche si concentrarono non solo sulla sua musica, ma anche sul peso del cognome. Un esempio emblematico è rappresentato da un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera, dove il critico musicale Giorgio Gherarducci scrisse: «Romano Mussolini ha talento, ma il suo cognome è un fardello che lo accompagna in ogni esibizione. È difficile per il pubblico separare l’artista dalla figura paterna». Questa affermazione evidenziava la difficoltà di Romano nel farsi accettare nel panorama jazzistico, dove il suo cognome evocava immediatamente ricordi di un’epoca controversa. In un’altra occasione, la rivista Musica Jazz pubblicò un articolo di Arrigo Polillo, in cui si sottolineava: «La musica di Romano è indubbiamente interessante, ma il suo cognome continua a suscitare sospetti e pregiudizi, rendendo difficile per lui emergere completamente nel panorama jazzistico». Qui, Polillo riconosceva le capacità artistiche di Mussolini, ma metteva in evidenza il pregiudizio che il suo cognome portava con sé. Con il passare del tempo, tuttavia, la sua musica cominciò a parlare da sola. Un articolo di La Stampa, firmato da Franco Caffarelli, affermava: «Romano Mussolini ha dimostrato che il talento può brillare anche sotto l’ombra di un nome pesante. La sua abilità al pianoforte e la sua composizione meritano attenzione al di là del suo passato familiare». Questo segno di riconoscimento da parte della critica rappresentava un cambiamento significativo nella percezione del suo lavoro. In un’intervista rilasciata a Il Giornale, Romano stesso dichiarò: «Ho sempre cercato di dimostrare che la musica è ciò che conta, non il nome che porti. La mia passione per il jazz è ciò che mi definisce come artista». Queste parole riflettono il suo desiderio di emanciparsi dall’eredità paterna e di affermarsi come musicista a pieno titolo.

Il viaggio nel mondo musicale di Romano Mussolini inizia con «Romano Mussolini Trio» (1956), un’esplosione di energia e di promesse. Stilisticamente, il disco si muove tra il bebop e il cool jazz, con un’attenzione particolare alla melodia e al fraseggio. L’armonia rappresenta un punto di forza, con progressioni classiche che vengono impreziosite da sostituzioni e alterazioni che già rivelano la sua mano. L’emozione che trasmette è quella della scoperta, di un artista che si affaccia sulla scena con entusiasmo. Quest’album, con la sua freschezza, può essere paragonato a un’opera di Jackson Pollock, con le sue pennellate decise e i colori vibranti, un’esplosione di energia che riflette la voglia di sperimentare. Il cammino prosegue con «Romano Mussolini e il suo Quartetto» (1957), dove si percepisce una maggiore maturità stilistica. L’armonia si fa più complessa, con l’introduzione di accordi di settima maggiore e minore, nona e undicesima, che creano atmosfere più sofisticate. Il fraseggio diventa più elegante e controllato, con un’attenzione particolare alla dinamica e alle sfumature. L’emozione che si percepisce è quella della malinconia, di un’introspezione che richiama le atmosfere del romanzo «Il grande Gatsby» di F. Scott Fitzgerald, con la sua eleganza decadente e il suo senso di perdita. Il blues rappresenta il protagonista di «Romano Mussolini At The Santa Tecla» (1963), un’istantanea del suo talento dal vivo. Stilisticamente, il disco si concentra sul blues, con un fraseggio più diretto e passionale. L’armonia è più semplice, ma l’uso di accordi di settima dominante e di progressioni blues a 12 battute crea un’atmosfera coinvolgente e autentica. L’emozione che si prova è quella della condivisione, di un’esperienza musicale vissuta in un ambiente intimo e coinvolgente. L’album può essere paragonato a un dipinto di Edward Hopper, con la sua messa in scena di ambienti urbani e solitari, dove la musica diventa un mezzo per esprimere la malinconia e la solitudine. La versatilità del pianista emerge in «Ricordi Jazz allo Studio 7» (1963), un album che spazia tra diversi generi. Stilisticamente, si muove tra il jazz classico e il jazz moderno, con influenze di latin jazz. L’armonia è ricca e variegata, con l’uso di accordi di settima maggiore e minore, nona, undicesima e tredicesima, che creano atmosfere suggestive e coinvolgenti. L’emozione che si percepisce è quella della gioia, di un’energia che si sprigiona in ogni nota. L’album può essere paragonato a un’opera di Henri Matisse, con i suoi colori vivaci e le sue forme armoniose, un’esplosione di vitalità e di ottimismo. Infine, la colonna sonora di «La Ragazzola» (1965) rappresenta un’ulteriore dimostrazione della sua capacità di adattamento. Stilisticamente, si muove tra jazz, musica leggera e musica per film, con un’attenzione particolare alla creazione di atmosfere suggestive e coinvolgenti. L’armonia è semplice, ma efficace, con l’uso di accordi di settima e di progressioni armoniche che si adattano perfettamente alle immagini del film. L’emozione che si prova è quella della nostalgia, di un ricordo che si fa presente. La colonna sonora può essere paragonata a un’opera di Federico Fellini, con la sua capacità di creare atmosfere oniriche e suggestive, dove la musica diventa un elemento fondamentale per la narrazione.

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