Danilo_Rea_1

Danilo Rea

Il pianista piacentino si connota come tessitore di trame sonore, capace di far dialogare mondi musicali differenti senza mai rinunciare ad una propria cifra stilistica, tanto da posizionarsi sulla scia di quel musicisti che, pur muovendosi tra generi e contesti, mantengono una tensione costante verso la qualità formale, l’invenzione armonica e la profondità espressiva.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nato a Vicenza nel 1957, ma cresciuto artisticamente nel tessuto culturale romano, Danilo Rea rappresenta una figura di riferimento sulla scena jazzistica e para-jazzistica italiana per la sua capacità di coniugare rigore formativo e libertà espressiva. La sua educazione presso il Conservatorio di Santa Cecilia – dove è stato successivamente titolare della cattedra di jazz fino al 2017 – costituisce il fondamento tecnico su cui si innesta una sensibilità musicale stratificata, nutrita da esperienze maturate nell’ambito del rock, del pop e della tradizione eurodotta, ma tutte confluite all’interno del linguaggio jazzistico, ambito privilegiato della sua ricerca.

La sua carriera si dipana, sin dagli esordi, in una duplice direzione: da un lato la militanza nel Trio di Roma con Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto; dall’altro l’intensa attività come pianista al fianco di cantautori ed interpreti di rilievo. Tale versatilità testimonia una padronanza stilistica che consente a Rea di modulare il proprio gesto musicale secondo contesti e poetiche differenti, mantenendo sempre una coerenza espressiva. La frequentazione con figure eminenti del jazz internazionale rivela una vocazione dialogica che si traduce in una prassi improvvisativa fluida, capace di accogliere e rilanciare stimoli eterogenei. Nel 1997, insieme a Pietropaoli e Fabrizio Sferra, fonda «Doctor3», formazione che riceve per tre anni consecutivi il riconoscimento come miglior gruppo jazz italiano, delineando un impianto compositivo in cui la rilettura di repertori extra-jazzistici si fonde con una scrittura armonica sofisticata. A partire dal 2000, Rea intensifica la propria attività in piano solo, ambito che gli consente di esplorare con maggiore libertà il proprio universo sonoro.

La sua attività compositiva si estende anche al cinema, con le colonne sonore per «Quando c’era Berlinguer» (2014), «I bambini sanno» (2015), «Pablito» (2022), «Ora Tocca A Noi – La Storia di Pio La Torre» (2023), tutte dirette da Walter Veltroni. In questi contesti, Rea modella ambienti sonori capaci di sostenere la narrazione senza sovrastarla, delineando una fisionomia musicale che si integra con il linguaggio visivo. Le collaborazioni più recenti- «Family Affair» con Roberto Gatto e le rispettive figlie Oona Rea e Beatrice Gatto; «Adagios in Classical Jazz» con Ramin Bahrami; «Cosa Sono Le Nuvole» con Luciano Biondini; «La Finestra di Puccini» con Michel Godard; «RESET Trio» con Massimo Moriconi ed Ellade Bandini; «Luce» con Fiorella Mannoia- testimoniano una costante apertura alla contaminazione, sempre filtrata da una consapevolezza formale che evita ogni deriva eclettica. Particolarmente significativo risulta il progetto «La Grande Opera in Jazz», prodotto da Saint Louis College Of Music e Globart, in cui Rea rilegge gli epici temi del melodramma italiano mediante una scrittura che fa leva su tecnologie avanzate per restituire le voci storiche del Novecento in una dimensione acustica rinnovata. L’assenza dell’orchestra, compensata da un impianto armonico calibrato, consente di far emergere la nudità espressiva del canto, in un equilibrio instabile tra memoria e reinvenzione.

Danilo Rea si avvicina all’universo musicale di Sakamoto con una sensibilità dialogante e tutt’altro che calligrafa. L’approccio non è imitativo né derivativo, ma delinea un incontro tra due visioni del pianoforte che, pur partendo da radici diverse, condividono un interesse per la melodia come paradigma espressivo,ma soprattutto una volontà di superare i confini stilistici senza perdere coerenza. Rea riconosce in Sakamoto un musicista capace di attraversare il pop, la classica e l’elettronica mantenendo sempre una linea melodica nitida, una chiarezza formale che non si dissolve nella sperimentazione ma la sostiene. Nel progetto «Sakamoto and Me», Rea non si limita a rendere solo omaggio; per contro costruisce un percorso sonoro che annoda il pianoforte acustico con texture elettroniche raffinate, affidate alla collaborazione con Martux_M, pioniere della sperimentazione digitale. L’elettronica, lungi dall’essere un ornamento, si caratterizza come una seconda voce, un contrappunto timbrico che espande il campo armonico e apre inedite possibilità di interazione. Rea non abbandona il suo modus agendi, ma lo adatta ad un ambiente sonoro che richiama le atmosfere rarefatte e cinematiche di Sakamoto, senza mai perdere il controllo del fraseggio, della dinamica e della tensione interna. La melodia resta il centro, ma viene trattata come materia da scolpire, da deformare e da ricomporre. L’armonia si dilata, sfruttando sovrapposizioni, pedali, modulazioni per terze, mentre l’elettronica interviene a creare spazi, a suggerire direzioni ed a costruire un paesaggio sonoro prolungato. In questo incontro, Rea cerca la compresenza, mentre il pianoforte conserva la sua voce, l’elettronica la sua autonomia. Il legame con Sakamoto si manifesta nella versatilità a costruire un linguaggio musicale che parla direttamente all’ascoltatore, senza mediazioni, senza sovrastrutture, ma solo con la forza del suono e della forma.

Ryuichi Sakamoto ha incarnato una delle figure più influenti e poliedriche della musica contemporanea, capace di attraversare generi, culture e linguaggi con una coerenza artistica rara. Nato a Tokyo nel 1952, si è formato all’Università delle Arti della capitale giapponese, dove ha studiato composizione, musica elettronica e musica etnica, costruendo fin da subito un pensiero musicale aperto, capace di connettere l’avanguardia occidentale con le tradizioni orientali. La sua carriera prende slancio con la fondazione della Yellow Magic Orchestra, insieme a Haruomi Hosono e Yukihiro Takahashi, gruppo seminale per lo sviluppo del pop elettronico giapponese e per l’influenza esercitata sulla scena techno e acid house internazionale. Ma è nel percorso solista che Sakamoto rivela la sua vera natura di esploratore sonoro, dal debutto con «Thousand Knives» nel 1978, la sua discografia si espande in direzioni molteplici, toccando l’ambient, la world music, la bossa nova, il minimalismo, la musica neoclassica e il pop, sempre con una scrittura che rifugge le etichette, approdando ad una sintesi personale. Celebre anche come compositore per il cinema, ha firmato colonne sonore memorabili come quelle di «Furyo» (1983), dove recita accanto a David Bowie, «Il tè nel deserto» e soprattutto «L’ultimo imperatore» di Bernardo Bertolucci, per cui ha ricevuto l’Oscar nel 1988, insieme a David Byrne e Cong Su. La sua musica per il grande schermo si distingue per una capacità rara di fondere eleganza melodica, frizione emotiva e raffinatezza acustica. Sakamoto ha divulgato un’idea di musica come esrcizio libero, dove la tecnologia non è mai fine a sé stessa, ma elemento per ampliare il campo espressivo. La sua ricerca ha sempre mantenuto un equilibrio tra rigore compositivo ed apertura poetica, tra forma ed intuizione. Perfino nei suoi ultimi lavori, segnati dalla malattia e da una toccante riflessione sul tempo e sulla fragilità, ha continuato ad indagare il suono con lucidità e delicatezza, lasciando un’eredità che non si limita ad una discografia, ma si estende ad un modo di pensare la musica come gesto umano, etico ed universale.

Ryuichi Sakamoto

«Thousand Knives» (1978) è il punto di partenza, non solo cronologico ma concettuale, dove Sakamoto fonde la tradizione musicale giapponese con l’elettronica occidentale, utilizzando sintetizzatori analogici come il Moog e l’ARP per costruire paesaggi sonori che evocano tanto le stampe ukiyo-e quanto le architetture ritmiche del minimalismo americano. L’armonia si spalma su intervalli ampi, con progressioni che non cercano la risoluzione ma la sospensione, e la melodia si piega a una logica timbrica che richiama le scale pentatoniche giapponesi, ma le contamina con modulazioni cromatiche. Il titolo stesso allude a un gesto violento e poetico, come quello di Yukio Mishima, il cui pensiero estetico sembra aleggiare tra le pieghe del disco. «Merry Christmas Mr. Lawrence» (1983) rappresenta una svolta lirica. La colonna sonora del film di Nagisa Oshima si costruisce su un tema centrale che alterna la semplicità della scala maggiore a deviazioni modali che introducono una malinconia sottile, mai retorica. Il pianoforte viene trattato come voce narrante, e l’armonia si sviluppa per sovrapposizioni, con accordi che si aprono lentamente, come porte scorrevoli in una casa giapponese. Il dialogo tra Oriente e Occidente non è mai didascalico, piuttosto si percepisce l’influenza di Debussy e Satie, ma anche la presenza silenziosa del gagaku, la musica di corte giapponese, con le sue sospensioni e le sue asimmetrie. Il tema principale ha una struttura che richiama la forma haiku, ossia breve, essenziale ed evocativa. «Beauty» (1989) è un manifesto di contaminazione. Sakamoto convoca musicisti da tutto il mondo e costruisce un impianto sonoro che fonde strumenti tradizionali giapponesi come lo shakuhachi e il koto con ritmi africani, armonie jazz e texture elettroniche. L’armonia si espande, si stratifica e si compone in contrappunto con le voci e le percussioni. La scrittura musicale diventa architettura, mentre il disco si presenta come un palinsesto dove convivono il teatro Nō, la poesia di Bashō, le geometrie di Mondrian e le ombre di Tanizaki. Il riferimento alla bellezza non è estetizzante, ma filosofico, poiché si tratta di una bellezza imperfetta, fragile, che richiama il concetto di wabi-sabi, centrale nella cultura giapponese. «BTTB» (1999), acronimo di Back To The Basics, si sostanzia come una raccolta di brani per pianoforte solo che segnano un ritorno alla forma pura. Sakamoto lavora sulla sottrazione; le armonie sono semplici, ma mai banali; le progressioni si dipanano con lentezza, come in un manga contemplativo, dove ogni vignetta raffigura uno spazio di riflessione. La scrittura richiama la calligrafia giapponese, con tratti netti e pause significative. Il pianoforte diventa strumento di meditazione, mentre la musica si avvicina alla poesia visiva di Shuntarō Tanikawa, dove il silenzio diventa parte integrante del significato. Le scale utilizzate sono spesso modali, con un uso frequente della Lidia e della Dorica, che conferiscono un senso di apertura e di sospensione. «Async» (2017) è il testamento sonoro. Composto dopo la diagnosi della malattia, il disco si presenta come una riflessione sul tempo, sulla memoria e sull’impermanenza. L’elettronica si mescola al pianoforte, ai suoni ambientali ed alle voci registrate, creando un tessuto sonoro che richiama tanto le installazioni di Ryoji Ikeda quanto le tavole di Akira di Katsuhiro Ōtomo, dove la città si dissolve in frammenti ed il suono diventa materia. La fisionomia accordale appare rarefatta, spesso costruita su cluster, su intervalli dissonanti e su accordi incompleti. La partitura si avvicina alla poesia di Paul Celan, dove ogni parola diventa una fenditura, un’apertura verso l’assenza. Il Giappone che emerge da questo album non è quello delle tradizioni, ma quello della post-modernità, della solitudine urbana e della tecnologia che diventa carne. Cinque dischi, cinque microcosmi, cinque modi di pensare il suono come forma, come assertività e come pensiero. Sakamoto non ha mai tentato di mettere in scena il Giappone, ma l’ha vivisezionato, l’ha perlustrato e l’ha trasdotto sulla scorda di un idioma pluriverso. Su tali presupposti ha costruito una voce che non appartiene a nessun luogo, ma che risuona ovunque ci sia una possibilità di ascolto.

Danilo Rea – come già spiegato – ha attraversato la musica italiana con una voce pianistica che si è nutrita di jazz, canzone d’autore, improvvisazione e cultura visiva, costruendo nel tempo una discografia che dialoga con le avanguardie, con l’arte figurativa, con la letteratura e persino con l’ironia corrosiva del fumetto satirico. Cinque dischi, in particolare, delineano un percorso coerente e polimorfico, dove il pentagramma si fonde con riferimenti culturali profondi e con collaborazioni che amplificano il senso della progettualità musicale. «Lost in Europe» (2000) segna l’inizio della sua indagine in piano solo, una forma che gli consente di scolpire il suono con libertà e precisione. Il pianoforte diventa un eremo di riflessione, e l’armonia si costruisce su pedali, sovrapposizioni di triadi, accordi estesi che mirano alla tensione interna. Le scale utilizzate si muovono tra la Lidia e la minore melodica, con deviazioni cromatiche che ricordano le geometrie instabili di Afro Basaldella o le installazioni spezzate di Burri. Il disco, registrato dal vivo in diverse città europee, restituisce una visione del viaggio come esperienza sonora, dove ogni luogo diventa un colore armonico, una variazione timbrica ed una deviazione formale. «Doctor 3 – The Tales of Doctor 3» (1997), con Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria, rappresenta una svolta nella rilettura jazzistica del repertorio pop e rock. Il trio lavora su brani di Sting, Beatles, Police, trasformandoli in strutture tematiche aperte, dove l’improvvisazione non decora ma reinventa. L’armonia si piega, si dilata, si stratifica, con un uso frequente della scala alterata e della diminuita semitono-tono. Il lavoro richiama la logica del collage, come nei fumetti di Andrea Pazienza, dove la citazione diventa strumento critico e la forma si costruisce per giustapposizione. Il trio non cerca la fedeltà, ma la reinvenzione, ed in questoa attitudine si avverte l’eco delle avanguardie italiane degli anni Settanta, da Area a Demetrio Stratos. «Introverso» (2008) è un diario sonoro, una scrittura intima che si sviluppa in piano solo con una opulenza armonica che richiama la pittura di Morandi, segnata da variazioni minime, silenzi significativi, accordi che si aprono lentamente, come oggetti disposti su un tavolo. Le scale utilizzate si muovono tra la Dorica e la Misolidia, con frequenti modulazioni per terze e sovrapposizioni che generano ambiguità tonale. Il disco si pone nel solco di una cultura del Novecento che ha fatto del dettaglio la sua forza, come la poesia di Caproni, la prosa di Natalia Ginzburg e la grafica essenziale di Munari. Rea punta alla profondità, e il pianoforte diventa strumento di scavo e di carotaggio emotivo. «A Tribute to Fabrizio De André» (2010) sancisce un omaggio che non si limita alla rilettura, ma da vita ad un nuovo habitat interpretativo. Le canzoni di De André vengono trattate come strutture aperte, dove la melodia si conserva ma l’armonia si espande, si compone in contrappunto e si arricchisce di tensioni modali. Il lavoro richiama la pittura narrativa di Guttuso, dove la figura resta riconoscibile ma si carica di significati nuovi. Le scale utilizzate si muovono tra la minore naturale e la minore armonica, con deviazioni che introducono una malinconia non retorica. Il disco dialoga con la cultura italiana del Novecento, con la canzone come forma poetica e con la parola come gesto politico, tanto che in questo senso si avvicina anche alla satira di Altan, dove l’ironia si fa strumento di verità. «La Grande Opera in Jazz» (2023) è il progetto più ambizioso, dove Rea reinterpreta gli storici temi del melodramma italiano affiancato da cantanti lirici e da collaboratori come Martux_M per la parte elettronica. Le voci storiche del Novecento vengono isolate, ripulite, reinserite in un contesto armonico nuovo, dove il pianoforte costruisce impianti compositivi che si dimenano tra la scala esatonale e la scala Lidia, con accordi che si sovrappongono, si deformano e si ricompongono. Il lavoro richiama le installazioni di Studio Azzurro, dove la tecnologia diventa strumento poetico, e la memoria si trasforma in materia sonora. Il progetto s’inserisce nel tracciato di una cultura che ha fatto della reinvenzione il suo centro: da Carmelo Bene a Mario Schifano, da Toti Scialoja a Stefano Tamburini. Cinque concept, cinque mondi, cinque forme di letteratura pianistica quale teatro di criticità, come luogo di incontro tra musica, arte, parola e visione.

Danilo Rea lavora con accordi estesi, spesso costruiti su triadi maggiori o minori arricchite da nona, undicesima e tredicesima, con frequente uso di tensioni non risolte. La scala minore melodica gli serve per costruire dominanti alterate, soprattutto nei passaggi modulanti. La scala Lidia compare nei momenti in cui la tonalità si apre verso una maggiore luminosità, mentre la misolidia gli consente di mantenere un centro tonale stabile con la settima minore che introduce una leggera instabilità. Nei momenti più liberi, si percepisce l’uso della scala esatonale, soprattutto per generare ambiguità armonica e creare zone di sospensione. Le progressioni non seguono sempre la logica funzionale del sistema tonale: spesso si muovono per terze, per sovrapposizioni di triadi, per pedali armonici che vincolano la parte superiore a trovare soluzioni alternative. Il II–V–I non appare mai scolastico, viene deformato, ritardato, eluso. Le modulazioni sono costruite gradualmente, con passaggi intermedi che sfruttano accordi pivot o cromatismi. L’improvvisazione s’innesta su queste strutture con coerenza, sulla scorta di cellule melodiche che si diramano secondo la tensione armonica del momento. Il discorso musicale si costruisce per stratificazione, non per opposizione. Ogni scelta armonica ha una funzione precisa, qualunque scala viene selezionata per il suo colore, non per la sua appartenenza teorica. Rea pensa la musica come un sistema cinetico, dove accordi e scale non sono elementi decorativi, ma attrezzi atti alla forgiatura estetica e formale.

Il pianista piacentino agisce lungo una traiettoria che assorbe e rielabora l’eredità dei grandi pianisti americani ed afroamericani del secondo dopoguerra, senza mai cercare di sovrapporsi a quei modelli, bensì lasciando che la loro influenza si sedimenti nel suo linguaggio. La sua formazione classica, radicata nel Conservatorio di Santa Cecilia, lo porta a una gestione del suono che si distingue per controllo timbrico ed articolazione formale, elementi che lo separano da figure come Thelonious Monk o Cecil Taylor, il cui pianismo si fonda su una tensione espressiva più viscerale e meno scolpita. Tuttavia, Rea condivide con Bill Evans una certa predilezione per l’implementazione armonica stratificata, per l’uso di accordi estesi che non si risolvono immediatamente, per la ricerca di una sonorità che non si limita alla funzione ma si apre ad una dimensione poetica. L’approccio all’improvvisazione, pur non derivando direttamente dal be-bop, ne conserva gli assunti di base. Rea improvvisa per diffondere un pensiero, spesso modulando per terze, sfruttando la scala minore melodica, la Lidia, la Misolidia, ed inserendo cromatismi che non spezzano la frase ma la dilatano. A differenza di pianisti come McCoy Tyner, che plasmano la potenza esecutiva su impianti modali e su un uso percussivo dello strumento, Rea preferisce una dinamica più sfumata, dove il pedale armonico diventa uno spazio di sospensione e la melodia si muove con libertà, ma sempre in relazione con l’ambiente accordale, cercando più che la verticalità del gesto, l’espansività del discorso. Il rapporto con con il vernacolo afro-americano risulta dunque indiretto, filtrato da una sensibilità europea, da una cultura della forma che non rinuncia alla libertà, incanalandola in strutture coerenti. In tal senso, Rea si pone come come interlocutore, poiché ascolta, assimila e risponde, in virtù di una voce che rifugge dai modelli imitativi e pedissequi.

Rea si pone in una condizione di ascolto e di indagine rispetto a e Chick Corea e Keith Jarrett, lasciando che la loro influenza si depositi nel suo linguaggio come materia viva. Con Jarrett condivide una tensione verso la forma aperta, una concezione dell’improvvisazione che si espande come sviluppo autonomo, capace di generare strutture in tempo reale. Tuttavia, mentre Jarrett tende a costruire architetture sonore che si dilatano in lunghe arcate, Rea preferisce una scrittura più frammentata, più incline alla sintesi, dove il silenzio e la sospensione diventano elementi costitutivi. Il rapporto con Corea è più laterale. Rea non abbraccia l’eclettismo elettrico né la bulimia stilistica che ha caratterizzato il percorso del pianista statunitense, ma ne raccoglie l’idea di un jazz espanso che può colloquiare con mondi diversi, purché lo faccia con rigore. Se Corea ha tagliato perpendicolarmente il jazz-rock, la fusion, la musica sinfonica e quella latina con un approccio quasi esplorativo, Rea mantiene una coerenza acustica ed un ethos che lo tiene ancorato ad una visione più europea, più legata alla tradizione melodica e accordale del nostro continente. La complicità con Jarrett si manifesta anche nella gestione del tempo, poiché entrambi lavorano su una pulsazione interna che non coincide con il metro, ma lo sottende, lo piega e lo dilata. Con Corea, invece, il punto di contatto si trova nella curiosità per la contaminazione, nella volontà di non chiudere il discorso musicale entro confini rigidi, ma di lasciarlo respirare in contesti diversi, dal cinema alla canzone d’autore.

Danilo Rea, Chick Corea e Keith Jarrett perlustrano territori armonici distinti, ciascuno con una grammatica che riflette una visione del pianoforte come spazio espressivo e non solo come strumento. Rea lavora su una stratificazione che nasce dalla tradizione europea, con una predilezione per le modulazioni morbide, spesso costruite su pedali armonici e sovrapposizioni di triadi che generano tensioni polimodali. La sua armonia non cerca l’effetto, ma la continuità del discorso, e si sviluppa per gradi congiunti, con un uso calibrato della scala minore melodica, della Lidia e della misolidia, sempre in funzione di una cantabilità che non rinuncia alla complessità. Corea, al contrario, costruisce impianti armonici più segmentati, spesso basati su salti intervallari netti e su una logica modulare che alterna blocchi tonali e modali. Il suo modus agendi si fonda su una geometria interna che sfrutta la simmetria delle scale esatonali, la tensione della scala diminuita e l’ambiguità della scala alterata, con una frequente alternanza tra accordi quartali e strutture più tradizionali. L’armonia diventa per lui uno campo d’indagine, dove ogni sequenza può aprirsi ad un’inedita direzione, anche brusca, perfino inattesa, ma sempre sorretta da una coerenza ritmica e da una pulsazione interna che non si slega mai. Jarrett, invece, lavora su una fluidità accordale che nasce dalla trasformazione continua. Le sue progressioni mutano per assorbimento. Il II–V–I non è mai rigido, piuttosto tende a dissolversi progressivamente. La scala maggiore viene deformata, la minore melodica s’innesta senza soluzione di continuità, e le modulazioni avvengono per attrazione. L’armonia diventa un spazio aperto, dove ogni accordo diviene un punto di passaggio. La scrittura si fonda su una logica interna che cerca di accompagnare, mentre il pianoforte diventa un mezzo per far emergere una voce che non si separa mai dal flusso. In questo confronto, Rea si distingue per una impianto armonico che privilegia la cantabilità e la tensione interna, Corea per una geometria sonora che alterna rigore ed esplorazione, Jarrett per una fluidità che dissolve i confini tra accordo e melodia. Nessuno dei tre cerca l’effetto, ma ciascuno lo raggiunge secondo un intendimento diverso: Rea per stratificazione, Corea per contrasto, Jarrett per trasformazione.

Brad Mehldau, ad esempio, condivide con Rea una certa inclinazione alla stratificazione armonica e all’implementazione di frasi che si evolvono su pedali e frizioni interne, ma mentre Rea tende a mantenere un melodismo che rimanda alla tradizione italiana, Mehldau lavora su un’opulenza ritmica e su una sovrapposizione polifonica che spesso sfocia in strutture più intricate e meno liriche. Vijay Iyer, invece, si posiziona su un versante decisamente più divergente, in cui la sua scrittura risulta più concettuale, spesso basata su algoritmi ritmici e su una destrutturazione del materiale tematico, con un uso dell’armonia che cerca volutamente l’instabilità, e che si allontana dalla logica narrativa che Rea predilige. Più affine, per certi aspetti, è Stefano Bollani, con cui Rea condivide l’attitudine a dimenarsi tra generi e linguaggi diversi, ma Bollani tende a privilegiare l’ironia, la citazione ed il gioco, mentre Rea mantiene una postura più meditativa e più incline alla riflessione che all’intrattenimento. Tigran Hamasyan rappresenta un altro punto di divergenza, poiché la sua prassi armonica appare fortemente influenzata dalla tradizione armena e dalla musica corale, con un uso percussivo del pianoforte ed un impianto ritmico che si sovrappone all’armonia in modo quasi scultoreo, mentre Rea lavora sulla fluidità. Più vicino, per sensibilità timbrica e per attenzione alla forma, è Marcin Wasilewski, il cui pianismo si sostanzia sulla scorta di progressioni modali e su un uso del silenzio che richiama la stessa tensione sospesa che si ritrova nei lavori in piano solo di Rea. In tale intreccio di affinità e divergenze, Rea si attesta come jazzista che non cerca di aderire ad un modello, ma di plasmare una voce propria, versata alle dinamiche dialogiche in direzione delle molteplici anime del pianismo contemporaneo senza mai perdere la propria identità armonica.

Stefano Bollani e Danilo Rea condividono una formazione solida ed una padronanza tecnica che consente loro di muoversi con disinvoltura tra generi e linguaggi, ma le loro scelte stilistiche e armoniche divergono in modo netto, rivelando due visioni del pianoforte profondamente diverse. Bollani costruisce il proprio discorso musicale su una continua oscillazione tra rigore e loisir, con un uso dell’armonia che spesso si piega alla citazione, alla sorpresa ed all’ironia. Le progressioni armoniche non seguono un’intenzione narrativa lineare, ma si frammentano, s’interrompono e si ricompongono, sfruttando modulazioni improvvise, salti intervallari netti, accordi quartali e sovrapposizioni che generano frizioni irrisolte. La scala diminuita, l’esatonale e l’alterata compaiono con frequenza, diventando elementi di un linguaggio che gioca con le aspettative, le disattende, e le reinventa. Il pianoforte, per Bollani, è anche teatro, messa in scena e provocazione. Rea, al contrario, lavora su una continuità del discorso, su una fluidità che insegue la trasformazione. Le sue progressioni armoniche si diramano per gradi congiunti, con modulazioni che s’insinuano senza cesure, sfruttando pedali armonici, triadi sovrapposte, ed accordi estesi surrettizi. La scala minore melodica, la Lidia, la Misolidia sono impiegate con coerenza, sempre in funzione di una melodrammaticità che non rinuncia alla complessità. L’improvvisazione prolunga la forma senza interromperla, mentre il pianoforte diventa uno luogo di riflessione. Dove Bollani intenta il cortocircuito, Rea promulga la coerenza interna; dove Bollani frammenta, Rea stratifica, dove Bollani sorprende, Rea approfondisce. La differenza non è solo stilistica, ma anche nella postura musicale. Bollani mette in pratica con leggerezza, con una velocità mentale che gli consente di passare da un registro all’altro senza perdere il controllo, dal canto suo Rea si sposta con circospezione, in virtù di un metodo teso a scavare nei meandri dell’animo umano. Entrambi padroneggiano l’armonia, ma la usano in modo opposto, ossia Bollani per destabilizzare, Rea per costruire. Il pianista piacentino si connota come tessitore di trame sonore, capace di far dialogare galassie musicali differenti senza mai rinunciare ad una propria cifra stilistica, tanto da posizionarsi sulla scia di quegli artisti che, pur muovendosi tra generi e contesti, mantengono una tensione costante verso la qualità formale, l’invenzione armonica e l’immersione espressiva.

Danilo Rea
0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *