Monk

Thelonious Monk

In fondo, l’abilità di Monk nello sfidare le convenzioni e di perlustrare nuovi territori tematici ha aperto la strada a generazioni di musicisti, ed il suo modus operandi continua ad ispirare artisti ed appassionati di musica di ogni genere. Non si tratta di imitazione, ma di assimilazione autentica. Monk non incarna un modello da replicare, ma un orizzonte da indagare.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Thelonious Monk si colloca in una posizione radicalmente obliqua rispetto ai pianisti coevi, non per volontà di eccentricità, ma per una precisa visione musicale che rifiuta la linearità e la convenzione. La sua scrittura ed il suo gesto pianistico non si pongono in antagonismo con la tradizione, bensì la decentrano, la interrogano e la deformano con rigore. Se Bud Powell incarna la fluidità bebop e Art Tatum la vertigine virtuosistica, Monk costruisce un linguaggio che si fonda sull’interruzione, sulla pausa e sull’asimmetria.

La sua tecnica, spesso definita «percussiva», non è il frutto di una limitazione, ma di una scelta estetica, in cui il pianoforte non viene accarezzato, ma colpito, come se fosse uno strumento a fiato che respira a scatti. Le armonie, volutamente dissonanti, non cercano la risoluzione, ma la sospensione. I voicings monkiani, con le loro sovrapposizioni di intervalli irregolari, non si piegano ai cliché del jazz mainstream, ma delineano una grammatica personale, in cui il silenzio ha la stessa dignità del suono.Rispetto a Horace Silver, che costruisce un impianto blues-funk coeso e narrativo, Monk preferisce la frammentazione e l’enigma. Mentre Lennie Tristano lavora su una logica seriale e contrappuntistica, Monk agisce per sottrazione, per deformazione poetica. La sua musica non si sviluppa, ma si espone. Ogni episodio diventa un oggetto sonoro chiuso, ma mai concluso: «’Round Midnight», «Well You Needn’t», «Epistrophy» non sono semplici composizioni, ma strutture formali che interrogano il tempo e lo spazio. La compliance con i coevi si manifesta non nella somiglianza, ma nella tensione condivisa verso la reinvenzione del linguaggio jazzistico. Monk non è un isolato, ma un solitario: dialoga con Powell, con Coltrane, con Miles Davis, ma sempre secondo una logica di alterità. La sua presenza nei club di Harlem, la sua attività al Minton’s Playhouse, la sua collaborazione con Coleman Hawkins e John Coltrane non sono episodi marginali, bensì momenti di convergenza divergente, in cui la sua voce diviene necessaria proprio perché irriducibile.

Monk non si pone «accanto» ai pianisti coevi, ma «di traverso»: la sua musica non si sovrappone, ma si incunea, non si conforma, ma si rifrange. È proprio in questa differenza che risiede la sua influenza, non come modello da imitare, ma quale orizzonte da scrutare. Se si osserva il panorama pianistico coevo a Thelonious Monk – tra gli anni ’40 e ’60 – emergono figure che, pur muovendosi in territori stilistici differenti, contribuiscono ciascuna a definire le molteplici declinazioni del pianismo jazz moderno. Monk non si colloca in opposizione a queste voci, ma le attraversa, le interroga, le decostruisce, delineando una propria grammatica che si nutre di divergenze e consonanze. Erroll Garner, ad esempio, costruisce un impianto pianistico fondato sulla cantabilità e sull’elasticità ritmica, con un uso del tempo che anticipa e ritarda, creando una tensione narrativa che si sviluppa nel gesto di una teatralità sonora. Monk, al contrario, non cerca la fluidità, ma la frattura, dove la sua musica non scorre, ma inciampa, si arresta, si riprende, nel riflesso di una poetica che non vuole sedurre, ma spiazzare.

Ahmad Jamal, con il suo minimalismo strutturale e la gestione dello spazio, anticipa molte delle istanze monkiane, ma le declina secondo una logica di sospensione e rarefazione. Jamal lavora sul vuoto, Monk sul pieno deformato. Entrambi comprendono che il silenzio sia parte integrante del discorso musicale, ma lo impiegano secondo grammatiche divergenti: Jamal come respiro, Monk come interruzione. Red Garland, pianista del primo Miles Davis Quintet, articola una scrittura fondata su block chords e swing rilassato, nel gesto di una classicità che non cerca la rottura. Monk, pur collaborando con Miles, non si piega a questa logica; diversamente la sua armonia non è decorativa, ma strutturale, e il suo ritmo non accompagna, ma destabilizza. Wynton Kelly, con il suo fraseggio bluesy e la sua precisione ritmica, rappresenta un’altra declinazione del pianismo hard bop. Monk, pur condividendo alcune radici blues, le rielabora con una dissonanza che non cerca la malinconia, ma l’ironia. Il suo blues non consola, ma stupisce. Cecil Taylor rappresenta l’estremizzazione del gesto monkiano: il pianoforte come percussione, come corpo sonoro, come spazio di esplosione. Taylor non cita Monk, ma lo indaga, lo radicalizza e lo porta alle estreme conseguenze. Se Monk è il poeta della dissonanza, Taylor ne è il profeta. In questo panorama, Monk non rappresenta un’anomalia, ma un nodo, una sorta di hub che tiene insieme le tensioni del suo tempo, le amplifica e le traduce in una lingua da egli stesso codificata. Il suo pianismo non si colloca «fra» gli altri, ma «oltre», sulla scorta di una scrittura che non cerca di essere compresa, ma di essere ascoltata con attenzione critica.

Le caratteristiche accordali di Thelonious Monk non si collocano all’interno di una grammatica jazzistica codificata, bensì ne costituiscono una deviazione consapevole, una riscrittura poetica che agisce per alterazione, per sottrazione e per asimmetria. Il suo approccio armonico non mira alla fruibilità immediata né alla risoluzione, ma alla tensione organica, alla messa in mora del senso compiuto, alla promulgazione di un linguaggio che non accompagna, ma affianca Monk impiega voicings che spesso escludono le guide tones canoniche (la terza e la settima), preferendo sovrapposizioni di intervalli irregolari, semitoni alla base e terze o seste nella parte superiore. In tonalità maggiore, ad esempio, il suo accordo tonico può essere costruito con settima, tonica e terza (B–C–E in Do maggiore), mentre gli altri accordi della scala vengono trattati con combinazioni come terza, quarta e sesta (E–F–A), generando un effetto di ambiguità armonica che destabilizza la funzione tonale. Nel campo della scala melodica minore, Monk adotta strutture analoghe, ma con una torsione ulteriore, in cui la tonica può essere accompagnata da settima e terza minore (B–C–E♭), mentre gli altri gradi vengono trattati con intervalli come seconda, terza minore e quinta (D–E♭–G), creando un impianto armonico irrisolto e teso all’infinito. I suoi accordi dominanti, spesso alterati, vengono costruiti con combinazioni volutamente sbilanciate: C7 può diventare C–D♭–E oppure F♯–G–B♭, generando una tensione che non cerca un compimento, ma una frantumazione.

Le progressioni accordali tradizionali, come il II–V–I, vengono trattate con una logica di disancoraggio. Monk non le nega, ma le interrompe, le frammenta e le reinventa. In una sequenza come Dm7–G7–CMaj7, sono presenti voicings come E–F–A per Dm7, E–F–A per G7, e B–C–E per CMaj7, apportando una continuità timbrica che non corrisponde alla funzione armonica, ma alla tensione espressiva. L’uso delle scale non si limita alla modalità maggiore o minore, piuttosto il Monaco impiega frammenti di scala cromatica, pentatonica, blues, ma sempre secondo una logica di deformazione. La scala non costituisce un materiale da cui derivare l’accordo, ma un campo di possibilità da perlustrare. Il suo fraseggio, spesso angoloso e spezzato, si muove su intervalli ampi, salti di ottava, accenti irregolari, nel gesto di una scrittura che non cerca la bellezza, ma la verità. Per intenderci, l’armonia monkiana non si espleta dentro il sistema, ma lo decostruisce dall’interno. È una grammatica che non insegna, ma interroga.

Sebbene Thelonious Monk non abbia mai esplicitamente rivendicato una filiazione diretta dalla musica eurocolta, il suo linguaggio armonico e la sua concezione formale rivelano una profonda affinità con alcune istanze della tradizione compositiva occidentale, soprattutto novecentesca. Non si tratta di citazioni o di derivazioni, ma di convergenze strutturali, di analogie timbriche e di tensioni formali che pongono Monk in dialogo – implicito ma eloquente – con la musica dotta europea. La sua scrittura, fondata su dissonanze strutturali, intervalli irregolari e voicings non funzionali, richiama la logica della politonalità e della verticalità timbrica che si ritrova in autori come Erik Satie, Béla Bartók e Igor Stravinsky. La percussività del suo tocco, l’uso del silenzio come elemento compositivo, la frammentazione del tema e la reiterazione ossessiva di cellule melodiche lo avvicinano a certe pratiche del minimalismo proto-europeo e della musica concreta, pur senza mai abbandonare la matrice afro-americana. In particolare, il suo modo di trattare l’accordo come oggetto sonoro – non come funzione armonica – lo pone in sintonia con la concezione timbrica di Claude Debussy, dove l’accordo non risolve, ma sospende, non accompagna, ma espone. Monk, come Debussy, lavora sulla saturazione del colore, sulla tensione interna dell’accordo, sulla sospensione del tempo armonico. La sua predilezione per le strutture chiuse, per le forme brevi e per la reiterazione tematica lo avvicina anche alla logica della variazione classica, ma in una versione deformata, ironica, quasi dadaista. In questo senso, la sua musica può essere letta come una forma di modernismo afro-americano, in cui la tradizione europea viene lambita, decentrata e reinventata. Monk non cita Bach, ma ne condivide la tensione contrappuntistica. Non imita Ravel, ma ne rielabora la logica timbrica. Non si rifà a Schönberg, ma ne anticipa la disarticolazione della funzione tonale. La sua musica non è eurocolta, ma risulta colta nel senso più nobile, ossia consapevole, finalizzata allo scopo e foriera di un’originalità mai eguagliata

La filosofia sonora di Thelonious Monk non ha generato veri epigoni, ma ha disseminato tracce profonde in molteplici direzioni del jazz americano. I suoi succedanei non si limitano al pianismo, ma si trovano fra sassofonisti, trombettisti, compositori e band-leader, ciascuno dei quali ha saputo assorbire e reinterpretare la sua grammatica secondo posture personali e divergenti. John Coltrane, pur muovendosi su un asse spirituale e modale differente, ha condiviso con Monk la tensione verso l’assoluto e la costruzione di un linguaggio che non si piega alla convenzione. La loro collaborazione nel 1957 non fu semplicemente un incontro, ma una convergenza di visioni, durante la quale Coltrane assimilò da Monk la logica della reiterazione tematica, la verticalità armonica e la capacità di trasformare il tema in mantra. Anthony Braxton, pur collocandosi nel solco dell’avanguardia radicale, ha saputo incorporare la logica strutturale di Monk – la frammentazione, la serialità deformata, la tensione fra ordine e caos – in un linguaggio che non cita, ma metabolizza. La sua concezione della forma come campo di possibilità e non come struttura chiusa appare marcatamente monkiana.

Charles Mingus, nella sua scrittura orchestrale e nella sua visione drammaturgica del jazz, ha condiviso con Monk la frizione fra ironia e tragedia, fra gesto popolare e costruzione colta. Il suo uso della dissonanza, la teatralità dei suoi ensemble, la logica della variazione ossessiva lo pongono in una linea di continuità critica con la poetica monkiana. Don Cherry, trombettista, cornettista e compositore, ha saputo tradurre la filosofia di Monk in una logica di apertura globale, l’asimmetria come linguaggio universale, la melodia come frammento rituale, la forma come spazio nomade. Il suo lavoro con Ornette Coleman e successivamente in ambito world-jazz mostra una comprensione abissale della tensione monkiana fra struttura e libertà. Jason Moran, pianista contemporaneo, ha saputo incarnare la filosofia monkiana non solo nel modulo esecutivo, ma nella curatela culturale. Il suo lavoro sulla memoria, sulla performance come atto critico, sulla reinvenzione del repertorio lo colloca come uno dei più lucidi interpreti della lezione di Monk nel XXI secolo. Il modus operandi di Monk non ha generato una scuola, ma una costellazione; un insieme di voci che, ciascuna a suo modo, ha saputo trasformare la sua grammatica in momento inventivo, in escavazione formale, in afflato poetico.

Il legame fra Steve Lacy e Thelonious Monk non si traduce in un semplice rapporto di influenza, ma come una vera e propria filiazione estetica, una trasmissione di visione che ha attraversato la scrittura, l’improvvisazione e la filosofia del suono. Lacy non si è limitato a interpretare Monk, ma ne ha fatto un orizzonte critico ed il proprio lessico poetico. Steve Lacy, sassofonista soprano, ha dedicato gran parte della sua carriera all’esplorazione del repertorio monkiano, non come reliquia museale da eseguire, ma quale campo d’indagine formale. Lacy non interpreta Monk, piuttosto lo indaga, lo demolisce, lo riabilita, in virtù di una fedeltà critica che si fa scrittura autonoma. In un’epoca in cui le composizioni monkiane venivano considerate troppo idiosincratiche per essere affrontate senza la sua presenza, Lacy ha avuto il coraggio e la lucidità di farle proprie, di suonarle, di reinventarle, di viverle. Nel 1958, con l’album «Reflections», Lacy è il primo musicista a dedicare un intero disco alle composizioni di Monk, senza che Monk stesso ne fosse coinvolto. Un gesto che non rappresenta un omaggio, ma dichiarazione di poetica. Lacy non cerca di imitare Monk, ma di comprenderne la logica profonda, ossia l’asimmetria come struttura, la melodia come enigma, la forma come campo di sperimentazione. Il suo sax soprano – strumento allora marginale nel jazz moderno – diventa veicolo di una vocalità obliqua, capace di restituire la geometria spezzata delle linee monkiane con una precisione quasi calligrafica.

Monk, inizialmente scettico, ascoltò Lacy su insistenza di Pannonica de Koenigswarter, la celebre «Baronessa del jazz», e ne rimane colpito. Al punto da reinserire nel proprio repertorio «Ask Me Now», che non suonava dagli anni ’40. Da quel momento, il rapporto fra i due si intensificò. Lacy entrò nella band di Monk nel 1960, partecipa alla Monk Big Band nel 1963, mantenendo nel proprio repertorio le composizioni del Maestro per tutta la vita. La scrittura di Lacy, pur evolvendo verso forme sempre più sperimentali – dal jazz da camera all’improvvisazione radicale – conserva sempre una struttura melodica rigorosa, una tensione architettonica che rimanda alla logica monkish. Le sue composizioni, spesso costruite su una singola frase interrogativa ripetuta e variata, rivelano una comprensione millimetrica della poetica del Monaco, ossia il tema non come esposizione, ma come domanda, come frammento da esplorare. Steve Lacy non è stato un interprete di Monk, ma un suo esegeta. Ha saputo tradurre la sua filosofia sonora in un linguaggio personale, rigoroso ed inquieto, facendo del songbook monkiano un laboratorio permanente, una grammatica da rielaborare costantemente ed una forma di pensiero fluido. Se Monk ha rappresentato l’incarnazione vivente del poeta della dissonanza, Lacy ne è stato il lettore più attento, il traduttore più fedele, il continuatore più audace.

Steve Lacy

In Francia, François Tusques rappresenta una delle voci più radicali del pianismo jazz europeo. La sua scrittura, fondata su una costante frizione fra struttura e improvvisazione, mostra un’evidente affinità con l’ethos monkiano, dove l’accordo non è funzione, ma diventa oggetto sonoro, in cui la melodia non si espone, ma si frammenta. Tusques, come Monk, lavora sulla deformazione, sull’attesa, la pausa e sulla verticalità timbrica. In Germania, Alexander von Schlippenbach ha saputo coniugare la logica seriale della musica d’avanguardia con la perforante espressività del jazz. Il suo lavoro con la Globe Unity Orchestra mostra una comprensione notevole della disarticolazione monkiana, in cui la forma non risulta ami chiusa, ma aperta ad altre ipotetiche soluzioni; il tema non vine esposto, ma accennato. Schlippenbach non cita Monk, ma ne condivide la logica di frattura. In Italia, Enrico Pieranunzi ha sviluppato un pianismo lirico e strutturato, ma con momenti di tensione monkiana, soprattutto nella gestione del silenzio e nella costruzione di voicings obliqui. Pur più vicino a Bill Evans nella cantabilità, Pieranunzi ha saputo incorporare la logica della sospensione e della dissonanza come elementi compositivi, non decorativi. Nel Regno Unito, Howard Riley ha esplorato il pianismo radicale con una asimmetria formale che rimanda alla logica monkiana, il tempo non scorre, ma si arresta. Riley, come Monk, lavora sulla frattura, sulla reiterazione, sulla geometria spezzata.

La similitudine più profonda fra Monk e questi musicisti europei risiede nella concezione del suono come pensiero: non come ornamento, ma come struttura. La dissonanza non rappresenta effetto, ma grammatica. Il silenzio non costituisce una pausa, ma parola stessa. La differenza, invece, si manifesta nella matrice culturale. Monk agisce dentro una tradizione afro-americana, dove il blues, il gospel e la ritualità collettiva sono elementi fondanti. I musicisti europei, pur condividendo la tensione formale, operano in un contesto più astratto, più legato alla musica colta e alla sperimentazione accademica. Monk non ha generato una scuola europea, ma ha aperto una possibilità, ossia quella di pensare il jazz non come stile, ma come forma di pensiero. La lezione monkiana continua a sedimentare nel pensiero musicale contemporaneo, soprattutto fra i giovani musicisti che cercano una grammatica espressiva non convenzionale, capace di coniugare rigore e libertà, struttura e frattura. Il pianista americano Jason Moran, ad esempio, ha saputo incarnare la lezione monkiana non solo nell’atto esecutivo, ma nella curatela culturale. Il suo lavoro su «In My Mind», dedicato al repertorio di Monk, non è una rilettura, ma una reinvenzione. Anche figure come Vijay Iyer e Kris Davis mostrano una profonda affinità con la logica monkiana, dove il ritmo non accompagna, ma destabilizza. Iyer, in particolare, lavora sulla reiterazione come forma di pensiero, mentre Davis esplora la verticalità timbrica con una precisione che rimanda alla geometria spezzata di Monk. Nel contesto europeo, giovani compositori come Eve Risser e Kaja Draksler hanno saputo tradurre il lascito monkiano in una partitura che coniuga improvvisazione e struttura, gesto e forma. La loro musica non cita Monk, ma ne condivide gli assunti

Emmet Cohen non si pone in rapporto diretto con la sintassi monkiana come interprete filologico o come epigono stilistico, ma ne assorbe alcuni tratti strutturali e ne rivede la grammatica secondo una logica di apertura e fluidità. La sua scrittura pianistica, fondata su una profonda consapevolezza della tradizione afro-americana, non cerca l’abrasività monkiana, ma ne conserva la memoria come principio critico. Cohen lavora su una sintassi armonica che privilegia la cantabilità, la mobilità interna del voicing, la trasparenza timbrica. A differenza di Monk, che costruisce accordi come oggetti sonori chiusi, Cohen tende a dilatarli, a renderli porosi, a farli respirare nel dialogo con gli altri strumenti. Il suo pianismo non è percussivo, ma elastico; non è angoloso, ma curvilineo. Tuttavia, in classici come «I Mean You» o «Epistrophy», Cohen mostra una comprensione millimetrica dell’alfabeto monkiano. La differenza più evidente risiede nella gestione del tempo, laddove Monk lavora sulla sospensione, sull’interruzione e sull’irregolarità, Cohen preferisce la continuità, la fluidità e l’implementazione narrativa. Ma proprio in questa divergenza si manifesta la similitudine più lampante, ossia entrambi concepiscono il pianoforte non come strumento solistico, ma come habitat dialogico. Cohen, come Monk, non impone il proprio suono, ma lo mette in relazione, lo espone alla risposta, lo apre all’imprevisto. Nel progetto «Master Legacy Series», Cohen ha mostrato una connessione filologica che non è imitazione, ma trasmissione, in cui la lezione monkiana viene incorporata come postura, come etica del suono, come grammatica dell’ascolto. Il suo fraseggio, pur più lirico e meno spezzato, conserva la logica della variazione ossessiva, della reiterazione tematica e della costruzione modulare. Emmet Cohen non suona «come» Monk ma, a loro modo, fanno del pianoforte uno supporto critico, un luogo dove il pentagramma si apre al pensiero.

In fondo, l’abilità di Monk nello sfidare le convenzioni e di perlustrare nuovi territori tematici ha aperto la strada a generazioni di musicisti, ed il suo modus operandi continua ad ispirare artisti ed appassionati di musica di ogni genere. Non si tratta di imitazione, ma di assimilazione autentica. Monk non incarna un modello da replicare, ma un orizzonte da indagare. La lezione monkiana non può essere metabolizzata alla medesima stregua di un bignamino da consultare, ma come una postura, una fonte di pensiero musicale, dalla quale continuano a sgorgare suggestioni, idee, spunti ed opportunità creative.

Thelonious Monk

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