«The Art Of My Heart», tra geometrie sonore e memoria affettiva, il lessico musicale dell’Angiolini Bros. Quartet

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Un progetto coerente nella sua eterogeneità, capace di coniugare scrittura ed improvvisazione, istinto melodico e rigore compositivo. In un contesto in cui spesso si rincorre l’originalità come fine a sé, il quartetto sceglie un approccio riflessivo e privo di urgenze espressive, costruendo un lessico musicale che si nutre di ascolti sedimentati, esperienze condivise e di una lunga consuetudine di dialogo inter pares.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Con «The Art Of My Heart», il quartetto guidato dai fratelli Angiolini prosegue un itinerario musicale che si snoda con naturalezza lungo i territori dello smooth jazz e della fusion contemporanea – che essi definiscono original modern jazz – evitando posture autocompiaciute e preferendo invece una scrittura trasparente, dalla vocazione narrativa. Il lotto si compone di dieci tracce inedite che, pur nella varietà degli approcci, condividono un comune impianto espressivo: il gusto per l’equilibrio timbrico, il dialogo costante tra strumenti acustici ed elettrici, la ricerca di una fruibilità che non scade mai in semplificazioni gratuite.

Il progetto prende corpo a partire da un lungo arco di tempo compositivo – dalla metà degli anni Novanta fino ai giorni nostri – e si struttura attorno ad un repertorio originale che non cede alla tentazione del citazionismo, ma piuttosto elabora, con misura, gli stimoli raccolti in decenni di ascolto e confronto diretto con la tradizione. Se la scrittura è frutto di un’esperienza decantata, ciò che colpisce è l’intenzione di mantenere ogni sezione dell’ensemble in una posizione paritetica, dove le linee melodiche, gli spazi armonici e le soluzioni ritmiche si distribuiscono in modo da valorizzare la voce di ciascun interprete. Il basso fretless, il piano elettrico e le tastiere introducono una componente timbrica che s’interseziona senza frizioni nel tessuto acustico del quartetto, con una naturalezza che rifugge l’effetto e punta invece all’intesa. Non si tratta di un esercizio di stile, ma di una sintesi raggiunta attraverso un lavoro artigianale di arrangiamento e ascolto reciproco. L’intenzione non è quella di inseguire una svolta linguistica, quanto piuttosto di offrire una proposta coerente, dalla solida intelaiatura ritmica e dalla raffinata immediatezza espressiva. L’esperienza pregressa dei fratelli Andrea e Alessandro Angiolini – il primo impegnato alle tastiere e agli arrangiamenti, il secondo al sax tenore – trova un naturale completamento nell’apporto di Paolo Cocco (basso fretless) e Luigi Sanna (batteria), ai quali si aggiunge, per la registrazione del disco, la collaborazione con Roberto Migoni e Matteo Marongiu. Le note di copertina firmate da Dado Moroni ed Emanuele Cisi non sono un semplice omaggio, ma attestano la stima guadagnata sul campo e il riconoscimento di un percorso coerente e rigoroso.

Più che un album concept, «The Art Of My Heart» appare come un agenda sonora, in cui l’intenzione comunicativa precede ogni ambizione dimostrativa. La leggerezza che percorre l’intero album – ben lontano da ogni superficialità – è quella di chi conosce il valore della sottrazione e ne fa la propria grammatica. Il risultato è un ascolto che non ricerca lo stupore, ma genera una forma di adesione spontanea, quasi confidenziale, tra interpreti e ascoltatori. Il percorso tracciato dal quartetto sardo si apre con «Devil’s Saddle», la sella del diavolo, ispirata ad una leggenda cagliaritana, si sostanzia come una composizione che pone subito in evidenza la capacità del quartetto di costruire ambienti sonori stratificati ma mai sovraccarichi. La scrittura si sviluppa attorno a un groove controllato, nel quale le inflessioni melodiche del sax si inseriscono come variazioni di registro emotivo più che come elementi di virtuosismo solistico. L’equilibrio tra pulsazione ritmica e modulazione armonica dà forma a una tensione leggera, misurata, che accompagna l’ascoltatore senza disorientarlo. Con «Maffarda Song», dove il motore mobile è ricordo di una donna, si avverte un cambio d’atmosfera: qui prevale una scrittura più ariosa, con tratti quasi descrittivi, come se la musica si facesse portavoce di una narrazione sottesa, intima ma accessibile. L’articolazione tematica è scandita da un interplay agile tra tastiere e basso, che dialogano con una naturalezza quasi conversazionale. La batteria, discreta ma incisiva, accompagna i mutamenti dinamici senza mai imporsi. «Just For Fun» si presenta come una parentesi di leggerezza, ma non va letta in termini riduttivi. Il titolo suggerisce un tono giocoso, ma la struttura del brano è tutt’altro che semplice: il gioco si compie proprio nella capacità di rendere fluida una scrittura articolata, dove il controllo formale lascia spazio ad improvvisazioni che si muovono con libertà entro un disegno sonoro ben definito. In «Emphasis», che paga un piccolo tributo a Joe Zawinul, il quartetto adotta un registro più raccolto, quasi meditativo. Le linee si fanno più distese, e la scelta timbrica delle tastiere introduce una componente atmosferica che non appesantisce, ma invita ad una fruizione più contemplativa. Il lavoro sugli spazi è particolarmente curato: non si ha mai la sensazione di vuoto, ma piuttosto quella di un respiro comune tra i musicisti, che si ascoltano e si rispondono con una sensibilità maturata nel tempo.

Con «Alternative Time», dedicata all’organista Joey De Francesco, l’album tocca uno dei suoi vertici formali. La durata estesa consente uno sviluppo tematico più ampio, quasi suite, in cui ciascun interprete ha la possibilità di esplorare la propria voce all’interno di un contesto collettivo. Il titolo suggerisce una riflessione sul tempo, non solo in senso ritmico, ma anche in quanto materia elastica della memoria musicale. La struttura si apre e si chiude con eleganza, come un racconto circolare. «Alice In Paris» rappresenta un ritorno alla narrazione impressionistica con reminiscenze teatrali, fatte di colori pastello e modulazioni che evocano ambientazioni urbane ed intime allo stesso tempo. Il fraseggio del sax accompagna l’ascoltatore in una dimensione quasi cinematografica, mentre le armonie del pianoforte elettrico costruiscono una cornice sonora nitida, mai invadente. Il brano successivo, «But It’s Only A Dream», sembra riprendere le atmosfere rarefatte del brano precedente, ma introduce una tensione sotterranea, leggera ma percettibile, che accompagna l’intero sviluppo. Il sogno evocato dal titolo appare fragile ed instabile, mentre la musica riflette questa precarietà con una scrittura che alterna sospensioni e risoluzioni in modo volutamente irrisolto. «L’Amour Sans Condition», dedicata alla pittrice Leonor Fini, si distingue per un lirismo misurato e mai enfatico. La melodia si dispiega con naturalezza, senza eccessi, come a voler rendere omaggio ad una forma di affetto che non ha bisogno di spiegazioni. Il quartetto lavora su sfumature sottili, e la scelta di mantenere un tono discreto permette alla composizione di esprimere una forma di emotività asciutta ed autentica. In «Pat And Lyle», che sono ovviamente Metheny ed il suo braccio destro Mays, si coglie forse il tributo più esplicito ad un’estetica post-jazzistica che guarda alla scrittura di scuola americana, con richiami impliciti a sonorità riconoscibili e tuttavia interiorizzate. Il brano si snoda attraverso variazioni tematiche che sembrano omaggiare una tradizione assorbita con rispetto, ma mai imitata. Chiude il disco «Spanish Experience», che evoca lo spirito di Chick Corea, è l’unico momento in cui si percepisce una certa apertura verso sonorità esterne al contesto nordamericano. La componente ritmica assume qui un ruolo più marcato, ma sempre gestita con sobrietà. L’inflessione ispanico-latina non è mai folcloristica: si tratta piuttosto di una suggestione armonica, di un accento che si insinua nel tessuto musicale senza alterarne l’identità.

«The Art Of My Heart» si delinea come un progetto coerente nella sua eterogeneità, capace di coniugare scrittura ed improvvisazione, istinto melodico e rigore compositivo. In un contesto in cui spesso si rincorre l’originalità come fine a sé, il quartetto sceglie un approccio riflessivo e privo di urgenze espressive, costruendo un lessico musicale che si nutre di ascolti sedimentati, esperienze condivise ed una lunga consuetudine di dialogo sonoro. Il risultato è un lavoro in cui la complessità non si traduce mai in opacità, ma si offre all’ascolto con una naturalezza che nasce da una profonda intesa collettiva. Non si tratta di un esperimento né di un manifesto: piuttosto, di un diario musicale scritto a più mani, che affida alla musica il compito di preservare, raccontare e restituire la sostanza viva del tempo trascorso insieme a suonare.

Angiolini Bros.

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