Annunciato il ritorno del Perigeo a Umbria Jazz, il 4 luglio 2026, all’Arena Santa Giuliana di Perugia. Ecco un profilo della storica band
Perigeo a Umbria Jazz
A partire dai primi anni Settanta, il Perigeo trovò un terreno fertile per proporre una musica che dialogava con il presente, mantenendo un legame con la disciplina jazzistica ed, al tempo stesso, intercettando le esigenze di un pubblico in rapida trasformazione.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il ritorno del Perigeo a Umbria Jazz, il 4 luglio 2026, all’Arena Santa Giuliana, costituisce un momento epocale per un insieme di fattori. In primis, l’evento rappresenta un atto dovuto nei confronti di una band che ha saputo distinguersi per alcuni lustri a livello continentale, surclassando sovente, nei giudizi della critica, le compagini americane ed inglesi a cui faceva da opening-act. In seconda istanza, al netto delle tante reunion posticce, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni con formazioni rimaneggiate o con qualche superstite malconcio, il Perigeo è l’unica formazione storica italiana di fama internazionale, di cui i membri originari sono ancora tutti in attività, quindi saranno presenti sullo main-stage dell’arena perugina. A questo punto, cerchiamo di tracciare un profilo del gruppo nato da un’idea del contrabbassista Giovanni Tommaso.
L’inizio degli anni Settanta consegnava all’Italia un terreno musicale in fermento, ancora legato a una tradizione jazzistica di stampo acustico, ma già attraversato da avvisaglie di mutamento. Negli Stati Uniti, Miles Davis aveva sancito una nuova era: l’elettricità come strumento di rottura, la fusione tra jazz e rock come linguaggio possibile, la nascita di gruppi come Weather Report e Return To Forever quale conseguenza diretta di un pensiero che rifiutava la staticità. In tale scenario, il Perigeo si materializzò come un oggetto sonoro inatteso, quasi un corpo estraneo nel panorama italico del 1972. Ciò che negli Stati Uniti circolava da tre anni, nel nostro paese assumeva la forma di un esordio radicale, finalizzato ad incrinare abitudini compositive e d’ascolto consolidate e calcificate in una ripetitiva zona comfort.
Il Perigeo si coagulò nel 1971 attorno alla visionarietà di Giovanni Tommaso, contrabbassista con una lunga frequentazione internazionale. Le collaborazioni con Lee Konitz, Chet Baker, Barney Lewis, Gato Barbieri, Sonny Rollins, Dexter Gordon, Steve Lacy e Lionel Hampton avevano sedimentato una conoscenza abissale del jazz americano, non come repertorio da imitare, ma come grammatica da trasformare. Tommaso immaginò un gruppo che partisse da un tessuto jazzistico solido aprendosi a contaminazioni molteplici, ma soprattutto lasciando che l’improvvisazione potesse diventare un luogo di libertà condivisa e non un mero esercizio di virtuosismo o una vetrina narcisistica ed individuale. La scelta dei musicisti rispose a tale logica. Franco D’Andrea portò con sé un bagaglio vasto, edificato accanto a figure centrali del jazz europeo ed americano, nonché una lucidità pianistica che permetteva al gruppo di muoversi su piani diversi senza perdere coerenza. Bruno Biriaco, appena ventenne, introdusse una vitalità ritmica che univa disciplina e curiosità, frutto di studi che spaziavano dal pianoforte alla direzione d’orchestra. Claudio Fasoli, con la sua padronanza del linguaggio modale, garantì una voce abile nel districarsi tra rigore e apertura, mentre Tony Sidney, chitarrista statunitense trapiantato in Italia, portò un colore blues-rock che rompeva ogni possibile ortodossia. La sua presenza, apparentemente anomala, divenne uno degli elementi che definirono l’impalcatura della band. Il debutto dal vivo alla Bussola di Marina di Pietrasanta, nell’agosto del 1972, anticipò l’uscita di «Azimut», un album che scardinava anni di manierismo, istituendo un discorso musicale inedito, almeno per l’Italietta canzonettara. Su un substrato jazzistico vennero innestati elementi rock, funk, persino ambient ante-litteram, senza che nessuno degli elementi semantici prevalesse sugli altri. Ne scaturì una sonorità che non mirava a scimmiottare la metodologia americana, ma ambiva a dialogare con essa da una prospettiva autonoma. La critica colse solo parzialmente la portata dell’operazione; per contro il pubblico del rock, invece, ne rimase affascinato, come se il Perigeo avesse intercettato un bisogno latente di rinnovamento.
«Azimut» avviò il tratturo discografico del gruppo con una libertà che a tutt’oggi suscita meraviglia. L’eterogeneità del concept – spesso fraintesa come adesione al progressive italiano – deriva invece da un preciso intento: evitare qualsiasi manifestazione di esibizionismo tecnico, al fine di costruire un’identità collettiva che non privilegi il singolo, ma la coesione dell’insieme. Come già detto, la formazione – Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Tony Sidney e Bruno Biriaco – proveniva da esperienze differenti, ed proprio questa diversità a generare un impianto sonoro che sfugge alle categorie rigide. Il jazz restò la matrice principale, ma fu filtrato sulla scorta di sensibilità divergenti, con una chitarra da rock-hero ed una sezione ritmica interessata a soluzioni ibride. «Posto di non so dove» dà la stura all’album con un’introduzione dal colore quasi newaging, una sorta di paesaggio immaginario nel quale la voce di Tommaso assume un ruolo evocativo più che narrativo. La seconda parte dispensa un ostinato chitarra-basso che definisce un moto regolare, privo di virtuosismi, sul quale il pianoforte disegna tortuose progressioni modali di matrice jazzistica. L’assenza iniziale del sax non è un dettaglio marginale: il gruppo dichiara fin da subito di non voler costruire una vetrina solistica, ma un organismo unitario, nel quale ogni elemento possa concorrere alla definizione di un agglomerato sonoro condiviso. «Grandangolo» riprende il gioco dell’ostinato, questa volta affidato al solo basso, mentre il pianoforte elettrico, la chitarra e il sax di Fasoli. che evidenzia immediatamente tutta la sua unicità. si alternano in interventi spiralici. La chitarra rivendica la propria origine rock, mentre il sassofono di Claudio Fasoli si staglia su un territorio che richiama il Coltrane del periodo intermedio, quello ancora accessibile ma già proiettato verso una maggiore libertà. La chiusura dirama una breve parentesi free, subito seguita da un riff di chitarra che imprime una direzione più rock-oriented. Con «Aspettando il nuovo giorno» e «Azimut» si penetra in una zona sonora completamente imprevista. Le atmosfere delicate e soffuse richiamano il Gary Burton del futuro periodo ECM, pur anticipandolo di qualche anno. In «Aspettando il nuovo giorno» la chitarra di Sidney, ancora lontana da un linguaggio jazzistico compito, emana un colore etereo ma attraversato da un sound acuto e penetrante, quasi tagliente. «Azimut» riprende la logica dell’ostinato, affidandolo al sax di Fasoli ed al basso di Tommaso, mentre il pianoforte si dimena all’interno di un pattern ripetitivo che sfiora l’ossessione. Gli assoli di D’Andrea, rapidi e apparentemente disordinati, ingenerano un senso di urgenza che contrasta con la linearità della base. La chitarra, presente solo nell’introduzione, garantisce un momento di tregua prima di scomparire del tutto. «Un respiro» funziona come interludio minimale: voce e pianoforte costruiscono un frammento sospeso, quasi un ponte verso la conclusione dell’album. «36° parallelo» riunisce tutte le anime del primo Perigeo. La chitarra introduce riff e assoli di chiara matrice rock, sostenuti dal consueto ostinato del basso. La batteria e il sassofono evocano il vernacolo afroamericano filtrato da una sensibilità europea, mentre la tastiera acquisisce un modus agendi precipuamente fusion. L’assolo di Biriaco, lungo e strutturato, delinea una scelta inusuale per un classico album in studio dell’epoca, quasi un manifesto d’indipendenza estetica. La seconda parte del costrutto vede il basso abbandonare la funzione ritmica per assurgere al compito di solista, con un fraseggio asimmetrico ma tecnicamente raffinato. L’intervento di Tommaso si dipana come un tratto melodico che riprende il tema iniziale aprendosi progressivamente a sperimentazioni quasi avanguardistiche, subito sostenute dagli altri strumenti, in particolare da un reattivo Fasoli che fa del sax un’arma di seduzione di massa. La conclusione – una sorta di ordito collettivo – occupa gli ultimi minuti dell’episodio sonoro ed apporta un livello di radicalità che difficilmente ci si aspetterebbe da un esordio. Anche oggi. ex-post, possiamo affermare che Perigeo di «Azimut» non fosse minimamente interessato alla mediazione o al compromesso mercantile. Ogni pagina musicale attesta un’urgenza espressiva che non teme l’irregolarità, la disomogeneità, la trasversalità e l’eccesso. L’album non tradisce alcuna preoccupazione di risultare accessibile: preferisce indagare possibilità, testare equilibri, mettere alla prova la tenuta della compagine. La presenza di un lungo assolo di batteria, la parentesi avanguardistica in chiusura, l’uso insistito degli ostinati e la scelta di non privilegiare il sax come voce principale, ma quale cesellatore e rifinitore, testimoniano una volontà di sottrarsi alle convenzioni del jazz italiano dell’epoca. Ne scaturisce un esordio sorprendentemente coraggioso, nel quale la ricerca non si traduce mai in manierismo e la complessità non diventa mai un fine in sé. «Azimut» aprì la strada a un percorso che trovò compimento in «Genealogia», pur emanando una vitalità propria e una sorta di cinetica primigenia che ne fanno un documento imprescindibile per comprendere la nascita del Perigeo.


Il biennio 1973/74 delineò uno snodo decisivo per la vita culturale italiana. La crisi energetica, l’inflazione crescente e le tensioni sociali che investivano il Paese alimentarono un clima di inquietudine diffusa, mentre il dibattito politico si polarizzarono attorno ai temi del lavoro, della rappresentanza e della trasformazione dei modelli produttivi. In tale quadro sociale prendeva forma una cultura antagonista post-sessantottina sempre più organizzata, atta a generare nuovi spazi di aggregazione, inedite pratiche collettive e una diversa concezione dell’esperienza artistica. I festival autogestiti, le rassegne all’aperto, le prime edizioni di Umbria Jazz e gli appuntamenti legati ai movimenti studenteschi e operai contribuirono a ridefinire il rapporto tra musica e partecipazione, trasformando il concerto in un luogo di confronto politico oltre che estetico. Parallelamente, il pubblico del rock cominciò ad avvicinarsi al jazz con una curiosità del tutto inusuale sino a quel momento. Le evoluzioni elettriche provenienti dalla scena anglosassone, il progressive italiano in piena espansione e l’impatto delle esperienze di Miles Davis, dei Soft Machine e delle formazioni di Canterbury aprivano varchi inattesi: l’ascoltatore abituato alle sonorità psichedeliche o alle suite del rock colto cominciava a percepire il jazz non più come un linguaggio distante, ma come un territorio contiguo, ricco di possibilità espressive. In questo crocevia di tensioni politiche, fermenti culturali e aperture estetiche, il Perigeo trovò un terreno fertile per proporre una musica che dialogava con il presente, mantenendo un legame con la disciplina jazzistica ed, al tempo stesso, intercettando le esigenze di un pubblico in rapida trasformazione.
Il 1973 segnò per il Perigeo un momento di espansione e di ridefinizione identitaria. La partecipazione alla prima edizione di Umbria Jazz, la pubblicazione di «Abbiamo tutti un blues da piangere» e la successiva tournée al fianco dei Soft Machine delinearono un gruppo in movimento, impegnato a misurarsi con le innovative estetiche fusion che stavano sobillando il linguaggio musicale del Vecchio Continente. Il disco premiato dalla critica discografica, ad un ascolto attento, sottolinea questa tensione, ma porta allo scoperto anche una moderata prudenza che ne contiene la portata innovativa tout court, come se il quintetto oscillasse tra desiderio di apertura e timore di oltrepassare definitivamente la soglia del rock progressivo: tutto ciò non rappresenta una deminutio capitis, ma una strategia che evitava la cesura netta, a tutto vantaggio di una graduale evoluzione del linguaggio e dell’ordine interno. L’organico composto da Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Tony Sidney e Bruno Biriaco possedeva una consapevolezza tecnica indiscutibile. Tuttavia, l’impianto complessivo dell’opera mostra una direzione estetica non ancora pienamente definita, con pagine musicali che alternano intuizioni brillanti e momenti di assestamento, come se il gruppo stesse ancora cercando una sintesi convincente tra jazz, rock e sperimentazione.
«Non c’è tempo da perdere» apre il disco con una struttura bipartita: un’introduzione rarefatta, sostenuta dalla voce di Tommaso, e una seconda sezione in 11/4 che tenta un’accelerazione affidata a lunghi assoli di chitarra elettrica e Fender Rhodes. L’episodio, pur mostrando una marcata ambizione estetica, fatica a trovare un vero punto di slancio, come se il materiale tematico rimanesse in attesa di una definizione più incisiva. Con «Déjà vu» il clima muta sensibilmente. D’Andrea implementa una melodia magnetica immersa in un’aura liquida, mentre Tommaso al contrabbasso introduce frammenti avanguardistici che ampliano la tavolozza espressiva del gruppo. L’insieme assume una tempra ipnotica, sostenuta da un corda sottile tesa tra lirismo di superficie e carotaggio strutturale. «Rituale» si affida a un impianto percussivo che richiama suggestioni etniche. Il giro di basso, semplice ma incisivo, funge da asse interno, mentre gli strumenti intervengono secondo una progressione ordinata. La conclusione, costruita su riff concatenati e animata da una chitarra graffiante, introduce una tesi brillante, la quale rimane tuttavia allo stato embrionale, ma che sarà ampliata nei lavori successivi. La title-track recupera un’atmosfera acustica più raccolta. La procedura conclusiva conduce a un assolo di Fasoli dal profilo coltraniano, nel quale il sax soprano s’invola con un’intensità crescente, quasi un flusso continuo che cerca una risoluzione sempre rimandata. «Country» richiama nelle battute iniziali il primo Miles Davis elettrico, pur orientandosi presto verso territori più accessibili. Fasoli al sax alto costruisce un discorso solistico nitido, mentre gli intermezzi melodici introducono una leggerezza che stempera le tensioni accumulate. «Nadir» funge da ponte verso il vertice dell’album. Le sue atmosfere rilassate preparano l’ingresso di «Vento, pioggia e sole», dieci minuti che si addensano attorno al nucleo gravitazionale del progetto. L’avvio, segnato da prolusioni ferrose e siderurgiche, si schiude a un ritmo sincopato sul quale si annodano gli interventi successivi del basso, delle tastiere, del sax e della chitarra. Sidney introduce riff e assoli dal sapore hendrixiano, mentre Fasoli spinge il fraseggio verso un limite espressivo che sfiora la deflagrazione. L’episodio, pur evocando il primo Miles elettrico, tratteggia una proprio identikit grazie alla dialettica interna tra arrembaggio rock e frizione jazzistica.
Il confronto con «Genealogia», pubblicato l’anno successivo, permette di cogliere con precisione la traiettoria evolutiva del Perigeo. Nel 1973 il gruppo lavora su forme aperte ma prudenti, spesso costruite su progressioni lineari che procedono senza fratture significative. In «Genealogia» la struttura assume un carattere più complesso: le sezioni mutano, si sovrappongono, si dissolvono e riemergono secondo una logica quasi narrativa, come se la musica seguisse un percorso interno più articolato. Perfino l’interplay rivela una differenza sostanziale. Nel disco del 1973 lo scambio tra gli strumenti appare ordinato, talvolta trattenuto, quasi timoroso di oltrepassare una soglia espressiva troppo audace. In «Genealogia» la conversazione interna diventa più ardimentosa: gli strumentisti si inseguono, si contraddicono, si sovrappongono, generando un tessuto sonoro fitto di tensioni e divergenze. Il telaio armonico conferma questa maturazione. «Abbiamo tutti un blues da piangere» rimane ancorato a un impianto modale relativamente stabile. Al contrario, «Genealogia» regala deviazioni improvvise, fratture, modulazioni inattese, quasi a testimoniare una ritrovata consapevolezza delle possibilità espressive del quintetto. L’identità estetica rappresentò forse il punto di distinzione più evidente: se nel 1973 il Perigeo sembrava ancora indeciso tra jazz, rock e avanguardia spinta. Nel 1974 tale incertezza si dissolse: «Genealogia», avulsa da qualunque oscillazione, affermò una direzione precisa, fondata su una sintesi matura delle diverse anime del gruppo.
«Abbiamo tutti un blues da piangere» appare come un passaggio ineluttabile, ma un cammino incompiuto e da completare. Come accennato, le intuizioni presenti nel disco del 1973 trovano piena attuazione in «Genealogia», che ne raccoglie le premesse e le trasla in un linguaggio più saldo, più audace e più riconoscibile. Fu in questo salto qualitativo che il Perigeo si affermò come una delle compagini più originali del jazz europeo degli anni Settanta. «Genealogia» sancì così l’ingresso del Perigeo in una fase di piena consapevolezza artistica. Le intuizioni disseminate nei due album precedenti approdarono qui ad una forma compiuta, come se il gruppo avesse finalmente individuato un equilibrio tra disciplina jazzistica, pulsione elettrica e una concezione della forma scevra da deviazioni, innesti e sovrapposizioni. L’opera non procede per accumulo, ma per chiarificazione progressiva: ogni scelta timbrica, ogni incastro ritmico, ogni deviazione armonica risponde a una logica interna che conferisce al disco una coesione rara nel panorama italico dell’epoca. Il solito quintetto – Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Tony Sidney e Bruno Biriaco – operò questa volta con una lucidità mercuriale derivata dall’esperienza sedimentata. L’ingresso del sintetizzatore, l’uso calibrato delle percussioni aggiuntive e la capacità di far convivere stilemi differenti senza irrigidirli in formule riconoscibili testimoniano una maturità che non rinuncia al rischio. L’album non mira ad un compromesso tra jazz e rock, piuttosto li fa dialogare secondo una procedura autonoma, spesso in controtendenza rispetto al purismo jazzistico allora dominante.
La title-track, «Genealogia», configura subito un sistema operativo radicale: l’ostinato non proviene dal basso, ma dalla chitarra acustica che definisce un moto circolare, mentre il pianoforte propone un inciso facile da metabolizzare e destinato a imprimersi nella memoria, conficcandosi nelle meningi. La struttura non si abbandona alla consueta dialettica tema-assolo-tema, ma procede per espansioni successive, come se il materiale sonoro venisse modellato dall’interno, un a sorta di composizione in tempo reale. «Polaris» chiarisce immediatamente la direzione dell’album. La partenza, affidata alla batteria ed al basso elettrico, diffonde un clima fusion che fa emergere l’impronta davisiana più elettrica, filtrata però attraverso la sensibilità europea del gruppo. La sezione ritmica costruisce un terreno mobile, mentre il pianoforte elettrico e la chitarra intervengono con una calibratura puntigliosa che non rinuncia però alla spontaneità. Fasoli, unico a mantenere un legame più stretto con il Davis del ventennio precedente, sviluppa un fraseggio che pur conservando una matrice modale, s’inserisce in un contesto sonoro più audace. «Torre del lago» recupera le atmosfere eteree che il Perigeo aveva già esplorato, ma le colloca in un ambiente più definito e meno contemplativo e vaporizzato rispetto al passato. Le stesse soluzioni riemergono in «Grandi spazi», dove la rarefazione non coincide con l’indeterminatezza, ma con un preciso desiderio di sottrazione. «Via Beato Angelico» sostanzia una summa delle molte anime dell’album. L’avvio, permeato da suoni futuristici generati da una tastiera dal colore quasi cinematografico, apre a una sezione sostenuta da percussioni latineggianti, grazie anche alla presenza di Mandrake, già attivo in «Polaris». L’ordito tematico si configura come un piccolo mosaico, nel quale ogni frammento trova una collocazione necessaria. «(In) vino veritas» dispensa un substrato sonoro vicino all’hard-rock, tanto da agevolare D’Andrea con i suoi interventi fluidi al pianoforte elettrico e Fasoli foriero di assoli prolungati e innestati su un terreno modale che si espande senza mai perdere il controllo. La tensione interna del costrutto deriva proprio da questa dialettica tra energia elettrica e rigore formale. «Monti pallidi» si regge su un contrappunto meditativo: un incedere lento, sostenuto da una tastiera che non invade mai lo spazio, permette a ciascun attante di intervenire con discrezione, come se la partitura fosse un luogo di ascolto reciproco più che di esposizione solistica. «Old Vienna» avvia un curioso incontro tra jazz e valzer in tre quarti. La scrittura richiama un Davis d’annata, ma lo rilegge attraverso una lente elettrica che ne modifica la prospettiva. L’impressione è quella di ascoltare «All Blues» filtrato dalla formazione di «Bitches Brew», con una durata che lascia intuire possibilità ulteriori. «Sidney’s call» suggella l’album con un’architettura che potrebbe fungere da manifesto programmatico del gruppo. La prima parte, disinibita e onirica, s’infittisce con percussioni leggere e di un tracciato vocale intonato da Tommaso; la seconda innesca un moto nervoso, sostenuto da tempi irregolari e dalla chitarra in primo piano; la terza distribuisce un lungo assolo di batteria, prassi insolita per un album in studio; la quarta riprende l’ambientazione iniziale, ma la traduce in una sorta di canzone, più fruibile ed efficace. L’intero intreccio motivico funziona come il filamento del DNA creativo del Perigeo, un percorso che accatasta tutte le loro possibilità espressive. «Genealogia» si conforma come l’album dell’età adulta: una prova in cui l’ensemble abbandona definitivamente le incertezze dell’esordio e le atmosfere troppo attenuate del secondo disco, optando per una direzione che unisce rigore, immaginazione e una gestione intelligente e proficua dei sintetizzatori, dove ciascuna pagina musicale contribuisce a un disegno complessivo coerente, nel quale la ricerca non si traduce mai in astrattezza e la fruibilità non coincide con la semplificazione.
Al netto delle differenze e delle similitudini le tre opere trattate sono da consigliarsi, senza tema di smentita o senza esitazioni, a chiunque desideri avvicinarsi al Perigeo, poiché ne restituiscono in toto la fisionomia evolutiva e la capacità di dialogare con il proprio tempo senza rinunciare alla complessità. Questa è la storia. Da lì in avanti, il Perigeo e, successivamente, i singoli componenti colmeranno le cronache jazzistiche italiane e internazionali.


