«Of Kindred Souls» di Roy Hargrove: prove d’autore lungo il viaggio nelle notti di un’America profonda (BMG/ Novus, 1993)
Hargrove sembra muoversi all’interno di un territorio in trasformazione, dove la tradizione non rappresenta un vincolo, bensì un punto di partenza per un linguaggio più personale. In questa prospettiva, «Of Kindred Souls» assume il valore di un crocevia: un luogo in cui si avverte la necessità di un cambiamento e in cui la voce del trombettista comincia a delinearsi con maggiore nitidezza, pronta a trovare compimento nelle opere che seguiranno.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Of Kindred Souls» è un disco d’assestamento, quasi una prova d’autore con tanto di pubblico pagante. Registrato dal vivo in diversi club del Midwest e della West Coast, rappresenta un momento di transizione decisivo. L’impianto sonoro curato, con un equilibrio maniacale tra microfoni, dinamiche e resa complessiva, non basta a mascherare la sensazione che Hargrove avvertisse un limite strutturale nelle produzioni per RCA/Novus. La musica scorre con un’intensità controllata, quasi trattenuta, come se il quintetto cercasse una direzione ancora non del tutto definita. Il trombettista, pur tecnicamente raffinato, sembra interrogarsi sulla necessità di un diverso orizzonte espressivo, e questa tensione sotterranea attraversa l’intero set.
Le undici composizioni offrono momenti di notevole perizia, eppure non raggiungono quella urgenza narrativa che avrebbe potuto trasformare il live in un manifesto poetico. Si avverte un artista in fase di autoanalisi, intento a valutare la propria collocazione nel panorama del jazz contemporaneo ed a comprendere come rinnovare il proprio linguaggio. Tutto ciò non costituisce una deminutio capitis: l’album risulta superiore alla media del periodo, ma non c’è ancora tutto il Roy Hargrove che avremmo ascoltato da lì a poco. La presenza di Ron Blake ai sassofoni, Marc Cary al pianoforte, Rodney Whitaker al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria crea un tessuto strumentale solido, nel quale Hargrove può sperimentare variazioni di colore e articolazioni più audaci. L’ingresso di Gary Bartz e Andre Hayward in due episodi centrali introduce ulteriori sfumature, ampliando la gamma timbrica e suggerendo un dialogo più ampio con la tradizione post-bop. In composizioni come «My Shining Hour» o «Homelife Revisited» emerge un lavoro sottile sulle relazioni intervallari, con un uso calibrato delle estensioni armoniche che rivela una crescente maturità. Le pagine firmate da Rodney Whitaker e Ron Blake aggiungono ulteriori prospettive, offrendo a Hargrove l’occasione di misurarsi con strutture formali diversificate e di esplorare un fraseggio più elastico.
Il set si apre con «The Left Side», pagina firmata da Hargrove che inaugura un clima mobile, regolato da una progressione armonica in cui zone di relativa quiete lasciano spazio a deviazioni laterali più insidiose. Il trombettista modella la linea con un fraseggio fatto di slanci brevi, quasi volesse mettere alla prova la reattività del gruppo prima di addentrarsi in territori più rischiosi. Ron Blake risponde con un tenore dal colore sonoro ombroso, mentre Marc Cary lavora sulle sovrapposizioni accordali con un tocco che richiama, in filigrana, il pianismo afroamericano degli anni Settanta, senza scadere nella citazione evidente. L’interplay cresce per accumulo, come se il quintetto cercasse progressivamente un punto di equilibrio tra energia controllata e spinta propulsiva. Con «Everything I Have is Yours/Dedicated to You» il registro si fa più lirico, e Hargrove affronta la melodia con una maturità che sorprende rispetto alle prove precedenti. La tromba distende la linea con morbidezza nuova, sostenuta da una respirazione ampia che evita irrigidimenti e consente alla frase di curvarsi, flettersi, insinuarsi nelle pieghe armoniche. Cary tesse un sostegno pianistico che alterna voicings ariosi e cluster interni, creando un ambiente sonoro che sorregge la voce solista senza soffocarla. L’unione dei due standard genera una narrazione unitaria, in cui la malinconia resta vigile, lontana dal sentimentalismo, e la progressione armonica diventa terreno privilegiato per un’espressività più consapevole, quasi meditata. «My Shining Hour» segna un cambio di passo, con un tempo più brillante e viaggevole, nonché una scrittura che invita a un fraseggio fitto. Hargrove affronta il tema con una precisione ritmica che rivela un ascolto profondo delle tradizioni bebop, mentre Blake, al soprano, disegna linee sinuose, pensate per ampliare lo spettro acustico del gruppo. Hutchinson sostiene il discorso con una batteria che alterna ride luminosi e accenti laterali, generando un flusso continuo che mantiene la tensione interna senza appesantire la trama espressiva. Con «For Rockelle», firmata da Rodney Whitaker, il clima diventa più raccolto, guidato da una melodia che procede per ampie arcate e da un contrabbasso che non si limita al fondamento armonico, ma interviene come voce autonoma, dotata di una propria cantabilità. Hargrove trova in questa composizione un terreno particolarmente congeniale, e la tromba assume una fisionomia più intima, quasi contemplativa. Cary insiste sulle risonanze del registro medio, mentre Hutchinson adopera le spazzole per sfumare i contorni ritmici, generando un ambiente acustico di grande delicatezza, fatto di mezze tinte e ombre sonore.
«Re-evaluation» di Ron Blake orienta il discorso verso una dimensione più analitica, con una struttura modulare che invita a scandagliare le relazioni intervallari con attenzione quasi speculativa. La tromba procede con un fraseggio più spezzato, come se volesse sondare ogni angolo della progressione armonica, senza adagiarsi su soluzioni prevedibili. Blake risponde con un tenore più assertivo, mentre Cary alterna figurazioni liriche a ricerche sulla materia sonora, generando un dialogo che assume le sembianze di un contrappunto in continua metamorfosi. Il brano eponimo, «Of Kindred Souls», rappresenta uno dei vertici del disco. La scrittura di Blake e Schmidt imposta un impianto armonico in cui momenti di sospensione si alternano a risoluzioni inattese, offrendo a Hargrove l’occasione di esplorare un fraseggio più narrativo, inclinato alla riflessione. La tromba adotta un colore acustico caldo, leggermente brunito, mentre il gruppo ricerca un equilibrio sottile tra densità e trasparenza, tra accumulo di voci e rarefazione. L’arrivo di Gary Bartz e Andre Hayward amplia ulteriormente la gamma espressiva, generando un tessuto a più voci che richiama certe esperienze orchestrali del jazz degli anni Settanta, pur mantenendo una dimensione cameristica, quasi da ensemble da camera. «Mothered» e il breve interludio «Childhood» di Whitaker compongono un dittico dedicato alla memoria e alla trasformazione interiore. La prima pagina si svolge su un tempo rilassato che consente al quintetto una respirazione ampia, con spazi generosi per la tromba e per il contrabbasso, mentre la seconda propone un frammento melodico essenziale, quasi un appunto sonoro che affiora da un ricordo remoto. Hargrove affronta questo passaggio con una delicatezza nuova, attenta alle microdinamiche, alle inflessioni minime, alla qualità del suono più che alla pura esposizione tematica. «Homelife Revisited» riporta il discorso su un terreno più energico, con una scrittura che alterna sezioni compatte ad aperture improvvise, quasi fenditure all’interno della forma. La tromba procede con un fraseggio che combina slancio e controllo, mentre Cary adotta un pianismo più percussivo, deciso a spingere il gruppo verso una maggiore incisività ritmica. Whitaker e Hutchinson danno vita a una base elastica, pronta a sostenere e insieme a provocare, mantenendo la musica in uno stato di vigilanza costante. Con «Love’s Lament» di Whitaker il clima si fa più introspettivo, guidato da una melodia che avanza come un canto sommesso, consapevole delle proprie fragilità. Hargrove insiste sulle sfumature del registro medio, rinuncia a qualsiasi retorica e concentra l’attenzione sulla qualità del suono, sulle inflessioni, sulle leggere variazioni di intensità. Cary inserisce accordi che emergono quasi dal silenzio, mentre la sezione ritmica assume un profilo discreto, rituale, lasciando alla linea principale la piena responsabilità del discorso. «Gentle Wind» di Marc Cary chiude l’album con un andamento incisivo, sospeso tra quiete apparente e vibrazioni sotterranee che affiorano con la spettacolarità dei fuochi d’artificio. La tromba procede con una assertività vigile, priva di inerzia, mentre il pianoforte configura un ambiente sonoro fatto di velature acustiche, risonanze interne, echi trattenuti. Il quintetto sembra trovare in questo epilogo una sintesi delle forze che hanno attraversato l’intero concerto: energia e raccolta interiorità, rigore e abbandono controllato, desiderio di chiarezza formale e apertura verso ulteriori sviluppi. Ne risulta un finale che non chiude, ma lascia una porta socchiusa sul percorso successivo di Hargrove, già in attesa dietro queste ultime note.
Nel complesso, «Of Kindred Souls» restituisce l’immagine di un artista che sta ridefinendo il proprio tratto espressivo, sostenuto da una formazione di musicisti versati e da un contesto live che favorisce la spontaneità. Il disco non raggiunge ancora la piena incisività dei lavori successivi, eppure lascia emergere un processo di maturazione che si manifesta nella cura del dettaglio, nella ricerca di un equilibrio tra lirismo e rigore, e nella volontà di superare la dimensione più prevedibile delle prime incisioni. Hargrove sembra muoversi all’interno di un territorio in trasformazione, dove la tradizione non rappresenta un vincolo, bensì un punto di partenza per un linguaggio più personale. In questa prospettiva, «Of Kindred Souls» assume il valore di un crocevia: un luogo in cui si avverte la necessità di un cambiamento e in cui la voce del trombettista comincia a delinearsi con maggiore nitidezza, pronta a trovare compimento nelle opere che seguiranno.

