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…parrebbe che il titolo sia da attribuire a Teo Macero, il produttore di quelle sessioni. Dall’alto della sua sommità Miles Davis dirige, illumina e s’inserisce con i suoi assoli dove le pause sono importanti al pari dei suoni emessi: le note e le pause giuste.

// di Marcello Marinelli //

Quando giocavo a pallone per i campi scalcinati e in pendenza della mia periferia facevamo la conta per decidere le squadre. Se eravamo di numero dispari, alla fine la scelta era per lo scarto o per palla e porta. Ovviamente lo scarto era un giocatore scarso, nel gergo popolare una «pippa». Amo divagare, quindi uso questo aneddoto per sottolineare e rimarcare il concetto di «scarto». Nel caso delle mie formazioni di calcio da pischello borgataro, lo scarto era di infima qualità. Questo album antologico pubblicato nel 1981 è fatto di materiale di archivio e di scarto, le cosiddette outtakes. Qui però la parola scarto si illumina d’immenso e gli scarti diventano pepite d’oro raccolte col setaccio sulla riva del fiume degli archivi della Columbia. Della serie: ci sono scarti e scarti.

Miles Davis, prima del suo ritiro dalla scena pubblica, aveva registrato un album in studio nel 1974, «Get Up With It», e due album dal vivo registrati a Tokyo nel 1975, Agharta e Pangaea; poi il silenzio. Nel 1981 la Columbia decise che era ora di pubblicare di nuovo qualcosa a suo nome e tirò fuori dal cilindro queste registrazioni di materiale inedito per ricordare che Miles era vivo e lottava insieme a noi, nonostante le sue vicissitudini personali. Era un’anticipazione del suo imminente ritorno con un album in studio che avvenne da lì a poco, comunque nello stesso anno: si trattava di «The Man With The Horn». Il nome del disco, «Directions», che raccoglieva materiale di una decade (dal 1960 al 1970), oltre ad indicare un brano presente nel disco a nome di Joe Zawinul, rappresentava anche le «direzioni» di un cambiamento che il trombettista avrebbe perseguito e caratterizzato per tutta la sua gloriosa e longeva carriera musicale. Il doppio disco è ordinato cronologicamente: inizia con «Song Of Our Country», tratto dalla sessione di «Sketches Of Spain» del 1960, che ci ricorda il sodalizio con il grande Gil Evans che ha prodotto quattro dischi di cui il disco in questione è il penultimo della serie.

Il secondo episosio del disco, «‘Round Midnight» di Thelonious Monk, è uno di quei componimenti immortali per cui è valsa la pena vivere l’esperienza terrena, un brano che ci accompagnerà nell’eternità e non smetteremo mai di ascoltare. L’ennesima versione di altissimo livello. Il brano è un live registrato al Blackhawk di San Francisco nell’aprile del 1961 con Hank Mobley al sax tenore, Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria. «So Near, So Far» è dell’aprile di due anni dopo, 1963, con un altro quintetto memorabile: George Coleman al sax tenore, Victor Feldman al piano, Ron Carter al contrabbasso e Frank Butler alla batteria. Il tema è splendido al pari degli assoli del sassofonista, del pianista e del trombettista con la sordina, con quel tipico sound sordinato che tanto lo ha caratterizzato. Il tema invece è suonato senza sordina ma il risultato non cambia: hard bop stellare, con sordina o no; vedo nitidamente Sirio, Alpha Centauri e Antares nel firmamento. «So Near, So Far» (Così vicino, così lontano): Miles sei così vicino, così contemporaneo, così lontano, sei morto nel 1991. Con «Limbo» (maggio 1967), che chiude la facciata A del primo disco, siamo oltre le stelle, siamo nell’anticamera del paradiso: Wayne Shorter (che è anche l’autore del brano) al sax tenore, Buster Williams al contrabbasso, Tony Williams alla batteria e Herbie Hancock al piano suonano tra gli angeli. Il lato B del primo disco si apre con «Water On The Pond» (Acqua nello stagno) del dicembre del 1967: si cominciano a percepire piccoli segnali di cambiamento. Oltre al quintetto paradisiaco del brano precedente si aggiunge Joe Beck alla chitarra. Wayne Shorter lancia col suo sax tenore sassi nello stagno a pelo d’acqua.

A gennaio dell’anno successivo (1968), con «Fun», si ritorna al quintetto dei quintetti senza chitarra aggiuntiva. Il disco in questo brano «scrocchia» per alcuni secondi e non è «Fun» (un divertimento), ma con i vinili può succedere. A me sembra che il piano suonato da Herbie Hancock sia elettrico, ma nelle note del disco c’è scritto piano acustico: ho beccato un errore, mi sembra proprio di sì. Con «Directions I & II» del novembre 1968 la conversione all’elettrico risulta conclamata. Cambia la formazione. Rimangono Wayne Shorter e Herbie Hancock, si aggiungono Joe Zawinul (autore dei brani) al piano acustico (?), Chick Corea al piano elettrico, Jack DeJohnette alla batteria e Dave Holland al basso elettrico. Anche qui ho il dubbio che si tratti solo di piano elettrico per tutti e tre i pianisti. Ad un ascolto dettagliato la risposta è sì, suonano tutti il piano elettrico: quindi, secondo errore. Prima di questo ascolto con approfondimento scritto non ci avevo mai fatto caso alle incongruenze delle note del disco. In queste «Directions» Wayne Shorter suona il sax soprano e lo fa divinamente, e la famosa serie I Soprano con la straordinaria recitazione di James Gandolfini celebra il suono di questo magnifico strumento? Ovviamente ho scritto una «fake», ma l’ho fatto per fare una battuta sul o sui Soprano, mentre chi ha scritto le note del disco ha scritto delle «fakes» senza rivendicarle.

In «Ascent» (Joe Zawinul, novembre 1968) che apre il lato A del secondo disco, oltre a continuare ad accreditare Joe Zawinul al piano acustico, la formazione è la stessa dei due brani precedenti e accredita al piano elettrico anche Dave Holland: sbagli a ripetizione. La musica però, indipendentemente da questo, è visionaria e a me dà gratificazioni corporali evidenti. Saranno le stesse sessioni di «In A Silent Way», non mi sbilancio, ma il sound è quello. L’intervento di Wayne Shorter al sax soprano e quello del trombettista mi fanno venire la pelle d’oca; sono di una bellezza bestiale come la domenica di Fabio Concato, quando la bestialità è bella. Il pezzo è di una lentezza esasperante, dove esasperante non è un concetto negativo: il lirismo di Miles Davis mi commuove. «Duran» (Miles Davis, inizio 1970) chiude questa facciata, ma per questa non ho mai richiesto il bonus. Non bisogna ripetere «Duran» due volte, altrimenti diventa Duran Duran e dovremmo cambiare periodo storico, geografia e genere musicale, e non mi sembra il caso. Il ritmo si fa serrato e spariscono, con un atto di magia dovuto ai tempi che cambiano, tutti e tre i pianisti elettrici; compare John McLaughlin alla chitarra che si produce in un assolo jazz-rock di hendrixiana memoria, tutto wah-wah, che è un portento e mi fa esclamare a voce alta: «formidabili quegli anni!». Anche Billy Cobham alla batteria rende frizzante il beat, e Bennie Maupin al clarinetto basso insieme a Wayne Shorter al sax soprano suonano insieme come se non ci fosse un domani.

Il lato B del secondo disco inizia con «Konda»: dovrebbe essere della sessione di Jack Johnson e tutto ciò che gira intorno a quel disco è sfacciatamente bello al pari di In a Silent Way. Il ritmo è lento e ipnotico. Accanto al leader compaiono alle percussioni Airto Moreira e al clarinetto basso Bennie Maupin (anche se non viene menzionato: penso di aver sentito un clarinetto basso ma ormai sono nel pallone, non sono più sicuro di niente, lascio perdere di consultare le note e mi affido all’orecchio). Keith Jarrett al piano elettrico e John McLaughlin alla chitarra. È musica d’insieme e il leader è il fine tessitore. Per essere l’inizio del 1970 quella musica era avveniristica. Il berimbau di Airto Moreira singhiozza coadiuvato dal singhiozzo della chitarra di McLaughlin. Verso la fine del brano compare la batteria di Jack DeJohnette che arricchisce di colori la tavolozza ritmica. «Willie Nelson» (febbraio 1970) chiude il doppio album con la ritmica jazz-rock scandita da quel fenomeno di Jack DeJohnette alla batteria e Dave Holland al basso elettrico. John McLaughlin e Steve Grossman completano la formazione. Willie Nelson è un grande cantante di musica country, da alcuni considerato uno dei più importanti, ma non è dato sapere se il titolo faccia riferimento al cantante: parrebbe che il titolo sia da attribuire a Teo Macero, il produttore di quelle sessioni. Dall’alto della sua sommità Miles Davis dirige, illumina e s’inserisce con i suoi assoli dove le pause sono importanti al pari dei suoni emessi: le note e le pause giuste.

Miles Davis

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