«Afrodance» di Amedeo Ariano: un groove mediterraneo in un intreccio afro-funk-jazz
«Afrodance» sancisce l’idea di un concept che fa leva sulle regole una sintassi jazzistica evolutiva, ma le disattende per i assorbire inflessioni africane ed ispanico-latine avulse didascalismi. Ariano e i fratelli Deidda riescono a fissare l’asse tematico della melodia al centro, pur aprendo ampi varchi di libertà improvvisativa. La pluralità di linguaggi e stilemi adottati diventa così strumento di coesione, non di dispersione, confermando la viva «fermentività» del jazz italiano contemporaneo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Afrodance» raccoglie otto composizioni originali, mettendo in moto un line-up che agisce con coesione e memoria condivisa. La batteria di Amedeo Ariano governa le dinamiche e i microaccenti, lasciando spazio alle interazioni tra pianoforte, fiati, vibrafono e percussioni; il dialogo tra i registri strumentali genera una fisionomia sonora mobile, capace di alternare cantabilità e tensione ritmica. La produzione di Gegé Telesforo e Roberto Ramberti mantiene chiarezza dell’immagine musicale, bilanciando le frequenze gravi del basso elettrico e la presenza della batteria con una coloritura complessiva nitida.
La complicità storica tra i musicisti coinvolti nel progetto consente un andamento narrativo privo di sovraccarico. La melodia rimane il fulcro dell’azione collettiva, ma viene costantemente riletta tramite variazioni di colore, risposte imitative e piccole deviazioni ritmiche. L’insieme si muove sui binari di una tradizione jazzistica rispettata con consapevolezza, ma incline ad assorbire linee africane e memorie latine senza didascalismi. Il risultato mostra un impianto compositivo ordinato, con passaggi ed intrecci motivici che prediligono la chiarezza della forma, la presenza di nuclei tematici memorabili e un uso accorto dell’armonia come struttura generativa. Le composizioni dei fratelli Deidda aprono percorsi distinti e complementari, dove ogni episodio del disco mostra un equilibrio tra rigore formale e libertà improvvisativa, con il flusso tematico costantemente sorvegliato, al fine di evitare ridondanze ed eccedenze melliflue. Il drumming di Ariano orienta gli ingressi degli altri strumenti e regola le dinamiche; la sua versatilità emerge nella capacità di passare da atmosfere swing a pulsazioni afro, da metriche regolari a incastri sincopati, con un controllo delle microdinamiche che rende la batteria strumento narrativo; la carriera del batterista campano, segnata da collaborazioni con figure come George Coleman, Johnny Griffin e Benny Golson e con artisti italiani, quali Lucio Dalla e Gino Paoli, sottolinea una sensibilità ricettiva e una predisposizione a far connettere differenti universi sonori. Non sorprende che nel 2020, Ariano sia stato insignito del titolo di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana.
«Don’t Forget This» di Dario Deidda apre con un riff incisivo che imprime subito un carattere funk. Il basso elettrico guida la struttura tematica con agilità, mentre la batteria di Ariano accentua gli spostamenti metrici e i fiati intervengono con risposte brevi e incisive. La scrittura armonica gioca su dominanti arricchite da estensioni, creando un ambiente sonoro energico e ben calibrato. «McCoy’s Mood» di Alfonso Deidda rigenera la quartalità tipica di Tyner, con accordi compatti e un pianoforte che lavora su blocchi verticali. Il sax tenore si muove con fraseggi ampi, sostenuto da un drumming che scandisce cicli regolari e lascia emergere la tensione interna. L’atmosfera rimanda al jazz modale, ma con una caratterizzazione che evita la citazione pedissequa. «Sweet Memories» di Sandro Deidda opta per un andamento melodico disteso. La voce del sax tenore diventa lirica, mentre il pianoforte dipana spazi armonici ariosi. La batteria interviene con delicatezza, sottolineando le sospensioni e favorendo un clima contemplativo locupletato da un lirismo temperato e privo di eccessi retorici. «My Favorite Strings» di Dario Deidda rende omaggio alla celebre partitura di Rodgers e Hammerstein II, filtrata attraverso la sensibilità del basso acustico. L’incipit funkified mette in risalto la proattività fisiologica dello strumento, ad immagine e somiglianza dallo stesso autore. La memoria di Coltrane affiora come riferimento storico, ma il modulo espressivo rimane personale, in posizione mediana tra omaggio e invenzione.
La title-track, «Afrodance». di Sandro Deidda dispensa costitutivi ritmici di matrice africana. I fiati dialogano con brevi incisi, mentre la batteria frantuma l’esalazione percussiva, crogiolando a caldo di fondere vernacolo jazzistico e suggestioni etniche, facendo così germinare per partenogenesi creativa un ordito sonoro vibrante e dinamico. «Dulce Abuela» di Alfonso Deidda si affida alla forma del bolero. Vibrafono e flauto traverso costruiscono un’aura fonica delicata, con sfumature che rimarcano la dimensione intimista. La melodia procede con dolcezza, sulle spalle di un accompagnamento discreto che lascia spazio alla cantabilità. «Take This Five», scritta da Dario e Sandro Deidda, gioca con asimmetrie irregolari. La batteria scandisce pattern complessi, mentre il vibrafono illumina le cadenze con trasparenza. L’interplay tra gli strumenti genera un clima vivace, con un ritmo che mantiene tensione e variabilità. «Sweet Memories» e «My Favorite Strings» completano il quadro con un equilibrio tra elegia e scaglie di groove metropolitano, evidenziando la versatilità dei musicisti di passare da atmosfere contemplative a momenti di rutilante vitalità. In sintesi «Afrodance» sancisce l’idea di un concept che fa leva sulle regole una sintassi jazzistica evolutiva, ma le disattende per i assorbire inflessioni africane ed ispanico-latine avulse dal calligrafismo manierato. Ariano e i fratelli Deidda riescono a fissare l’asse tematico della melodia al centro, pur aprendo ampi varchi di libertà improvvisativa. La pluralità di linguaggi e stilemi adottati diventa così strumento di coesione, non di dispersione, confermando la viva «fermentività» del jazz italiano contemporaneo.

