Il debutto del quintetto Taurn con «Somewhere Cold»: frammenti urbani, linee spezzate e paesaggi sonori (EMME Records, 2025)

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L’album si dirama lungo un percorso, in grado di far emergere paesaggi interiori e suggestioni metropolitane, con episodi che si compongono nel fluire, senza cercare sintesi né chiusure.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Pensando ad una scrittura che privilegi l’instabilità come principio generativo, potremmo affermare, senza tema di smentita, che «Somewhere Cold» si attesti come debutto compositivo di un quintetto nato nel 2023 in un garage bolognese e già capace di delineare un impianto jazzistico coerente, mobile e privo di formule precostituite. L’album, pubblicato dai Taurn per l’etichetta Emme Record Label non si esaurisce nella costruzione di atmosfere rarefatte, ma le compone in contrappunto con slanci ritmici, digressioni armoniche ed una partitura che si nutre di contrasti calibrati.

«Somewhere Cold», non sancisce un manifesto, ma un punto di convergenza, la cui fisionomia sonora rimanda a talune geometrie newyorkesi, pur riformulandone il profilo mediante una trama espressiva che alterna sospensioni liriche e pulsazioni urbane. Il pianoforte di Vincenzo Bosco orienta, la batteria di Francesco Candelieri funge da linea di demarcazione, il sax tenore di Giuseppe Capriello plasma l’ordito tematico, mentre il contrabbasso di Raffaele Guandalini e la chitarra elettrica di Simone Ielardi si rincorrono, si contraddicono e si sovrappongono, generando un ordine interno che si evolve in progressione. Ogni composizione nasce da un’idea individuale, ma si trasforma in processo collettivo che mira alla frizione tra colore sonoro ed intelaiatura ritmica, non disdegnando talune zone di equilibrio instabile, dove la malinconia non è sentimento, ma dispositivo estetico. La traiettoria del disco supera il concetto di logica meramente descrittiva, giungendo ad una grammatica critica che fa della tensione tra improvvisazione e struttura il principio generativo. I momenti più immersivi s’innervano di inquietudine, per contro, gli episodi più energici si affidano alla precisione. Il quintetto non tenta di fondere le influenze, ma le fa dialogare, le ricuce e le trascrive in un codice espressivo che si nutre di ascolti, di convivenze, di una consapevolezza musicale che si sedimenta con cognizione di causa.

L’opener, «Dune», affiora come un’escursione metropolitana, in cui il sassofono stabilisce immediatamente le linee di demarcazione, mentre il piano di Vincenzo Bosco si rivela con cautela, come se cercasse una soglia tra silenzio e forma. La chitarra elettrica si piega, lasciando una traccia obliqua che suggerisce una direzione, sulla quale il basso scava in profondità, come un respiro trattenuto all’interno, dove le batteria di Francesco Candelieri accenna un passo, misurando lo spazio con discrezione. «Disordinato» si dilata gradualmente con la tastiera del pianoforte sembra s’inclinarsi, cercando una via obliqua nel tessuto armonico, con il sax di Giuseppe Capriello che si affaccia al proscenio, surfando una linea espressiva disposta lateralmente, mentre la retroguardia ritmica preme sul groove con precisione, creando una metodologia che possa guidare il movimento. La città si riflette nel parenchima sonoro in filigrana, come riverbero che vibra tra le pieghe del suono e nel gioco di specchi tra piano e sax. «Fluid Nature» si estende con consistenza porosa, annunciato dal piano con passo felpato, in cui il contrabbasso di Raffaele Guandalini risuona con continuità, mentre il pianoforte si contrae, lasciando spazio all’interferenza. Il sassofono s’interseziona tra le superfici, lasciando una velatura quasi diafana, mentre il clima sonoro pennella un paesaggio urbano attraversato da una solitudine percettiva. «Drunk Blowout» tende verso una scansione nervosa, a cui il batterista imprime un attrito che incrina la regolarità. Dal canto suo, il sax assume una fisionomia abrasiva, capace di destabilizzare la superficie, la chitarra di Simone Ielardi si allunga, cercando il margine, mentre il piano di Bosco disgrega la trama accordale, lasciando che il vuoto diventi parte della forma. «Taurn» si attesta in una zona di transito, dove il contrabbasso di Guandalini esprime un walking che indirizza il passo, mentre il sassofono, con piglio funkified, marca con decisione, segnando un confine. La chitarra si fa tagliente, delineando un bordo, attraverso una coloritura metallica che rischiara il contesto. Il piano elabora un ambiente sonoro, screziato dal sax ed sospinto dalla retroguardia, che accoglie, senza chiudere, calandosi negli anfratti di una città, la quale appare come spazio vitale, attraversato da luci fredde e movimenti polidirezionali.

«Artificiale» si propone come dispositivo poetico, in cui il pianista agisce con riflessione, cercando una distanza. La chitarra di Ielardi emette una distorsione che incrina la superficie, sulla quale il sax di Capriello sospira, trattenendo una linea espressiva. La batteria vibra lungo una traiettoria interna, mentre il bassista mantiene una continuità che sostiene l’impianto. «Intro» si manifesta come interstizio, dominato dal registro grave, che apre con una nota lunga, misurando il tempo scandito con decisione da basso e batteria. Il pianista entra in punta di dita, come presenza discreta, mentre la chitarra delinea una sagoma, cercando una forma nel vuoto. Da parte sua il sassofonista puntella l’intero tracciato, accreditando la propria funzione narrativa. In «Perseguito», il sax tratteggia una linea spezzata, finalizzata a solcare un tragitto tra le fenditure e gli anfratti del costrutto sonoro. Il piano risponde con accordi dissonanti, delineando un attrito, mentre la chitarrista si fa nervoso, cercando una linea instabile. La batteria di Candelieri distilla una scansione irregolare, trattenendo il tempo, con la complicità del basso che pulsa nel fondo, come una memoria che si adagia sui ricordi. «Somewhere Cold» si profila quale punto di convergenza. Il pianoforte modella un impianto che struttura una linea flessuosa, a cui il sax si sovrappone con precisione, cercando la chiarezza. Lo chitarra evidenzia l’intreccio motivico, come un raggio luminoso che attraversa il vetro, mentre il kit percussivo ed il contrabbasso si alternano con discrezione, lasciando che ogni elemento trovi il proprio spazio. Il clima urbano si manifesta con una luce fredda, senza congelare. «Secular Rise» si estende verso un desiderio di continuità, nel quale il pianoforte apre una frase che resta aperta, come una domanda che si riverbera in ogni direzione. Il sassofono s’inserisce in maniera calibrata, procedendo quasi per rarefazione, la chitarra elettrica si fa eco, ritornando con delicatezza, mentre il contrabbasso risuona sostenendo la costruzione, con la solidarietà della batteria che stabilisce la cadenza, modulando il movimento. «Somewhere Cold» dei Taurn stabilisce un itinerario sonoro condiviso, nato da una pratica collettiva che ha trovato spazio in un seminterrato del capoluogo emiliano, dove la tecnica si è affinata lentamente e senza urgenze. L’album si dirama lungo un percorso urbano, in grado di far emergere paesaggi interiori e suggestioni metropolitane, con episodi che si compongono nel fluire, senza cercare sintesi né chiusure.

Taurn

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