Jazz e Cinema: un dialogo profondo tra due linguaggi nati nel cuore del Novecento
Il jazz venne associato al linguaggio cinematografico come simbolo di modernità, trasgressione e vitalità. Il grande schermo offrì al jazz una vetrina globale, portandolo ben oltre i club fumosi e le radio locali.
// di Irma Sanders //
La relazione tra jazz e cinema è una delle più fertili e profondamente suggestive della storia delle arti del Novecento. Non si riferisce soltanto all’uso del jazz come colonna sonora, ma si tratta di una parentela formale e spirituale, un’affinità elettiva fra due linguaggi che condividono alcune proprietà essenziali: l’improvvisazione, il montaggio e la sincope. Infatti, il vernacolo jazzistico risulta costruito sull’improvvisazione, sulle modulazioni inattese, sulle variazioni su un tema. Anche il cinema – specialmente quello d’autore – ha spesso sperimentato forme simili, ossia dal montaggio alternato al tempo non lineare, dalla narrazione ellittica all’uso destrutturato del suono. Registi come Jean-Luc Godard o John Cassavetes (essendone profondamente influenzato) hanno portato sullo schermo una grammatica visiva «jazzata», fatta di pause, rotture e libertà ritmica.
IL jazz ha storicamente abitato e respirato la notte urbana, la solitudine di un bar vuoto, l’afosità di un music club caliginoso e la strada umida di pioggia. Anche il cinema – soprattutto noir, esistenziale o intimista – attinge a questo immaginario. Entrambi i linguaggi sanno evocare la malinconia senza sentimenti facili, la sensualità senza ostentazione ed il desiderio come nostalgia. Il jazzista, spesso protagonista dei film a lui dedicati, diventa figura liminale: né eroe né antieroe, ma anima in cerca, di una sua dimensione e funambolo del sentimento. Questa figura amplifica il dialogo tra suono e immagine, in cui il jazz diventa lo specchio emotivo del personaggio e l’eco della sua dissonanza interiore. In molti film, il l’idioma jazzistico non costituisce solo colonna sonora ma struttura narrativa. Si pensi a «Round Midnight», dove la progressione della trama rispecchia le dinamiche di una jam session, o a «Whiplash», dove il ritmo del montaggio è modellato sul crescendo nevrotico della batteria. Jazz e cinema si attraggono perché sono arti del tempo: vivono nel flusso, nella variazione è nell’intervallo. E quando si incontrano – come nel caso di «Bird», «La La Land», «Kansas City», o «Ascenseur pour l’échafaud»- riescono a esprimere quelle sfumature dell’animo umano che né la parola né l’immagine da sole possono contenere.
Il legame tra cinema e jazz non risulta soltanto estetico o musicale, essendo un dialogo profondo tra due linguaggi nati nel cuore del Novecento, entrambi figli della modernità, della metropoli e della contaminazione culturale. Le loro relazioni culturali e sociali si articolano su più livelli. Sia il jazz che il cinema nascono come forme d’arte «popolari», spesso considerate inizialmente marginali o addirittura trasgressive. Il jazz, espressione delle comunità afroamericane ed il cinema, spettacolo di massa per eccellenza, condividono un’origine sociale legata alla periferia culturale, prima di essere accolti nei circuiti dell’arte «alta». Nei primi decenni del Novecento, il jazz fu spesso associato a immagini esotiche, sensuali o pericolose. L’ambiente hollywoodiano, soprattutto tra gli anni ’20 e ’50, ne ha spesso sfruttato il mood ed il sound come sfondo per narrazioni razzializzate, in cui i musicisti afro-americani venivano relegati a ruoli secondari o addirittura mimati da attori bianchi. Tutto ciò rifletteva le tensioni sociali e razziali dell’epoca. Il jazz non attesta semplicemente come colonna sonora, ma diviene struttura narrativa. Opere come «Round Midnight» (1986) usano il jazz per costruire ritmo, atmosfera e psicologia dei personaggi. L’improvvisazione jazzistica ha influenzato anche il montaggio cinematografico, soprattutto nell’ambito del cinema d’autore europeo e americano degli anni ’60. Il jazz incarna la musica della città, della notte e del disincanto. Così molti registi l’hanno spesso usato per raccontare la solitudine metropolitana, il sogno americano e la marginalità. Dai noir degli anni ’40 ai film di Spike Lee, il vernacolo afro-americano diventa la voce delle periferie, delle minoranze e dei soggetti in cerca di riscatto. A partire dagli anni ’80, il cinema ha iniziato a raccontare le vite dei grandi jazzisti (Charlie Parker, Chet Baker, Miles Davis). Queste pellicole non solo celebrano la musica, ma riflettono anche sulle condizioni sociali, sulle dipendenze, sul razzismo e sulla fragilità dell’artista.
Il jazz è stato anche strumento di dialogo tra culture, basti pensare al suo ruolo nella diplomazia culturale durante la Guerra Fredda o alla sua diffusione in Europa, Giappone, Sudamerica. La macchina da presa ha documentato e amplificato questa dimensione transnazionale, mostrandolo come linguaggio universale di libertà e resistenza. Jazz e cinema si sono influenzati reciprocamente non soltanto sul piano estetico, ma anche come specchi delle trasformazioni sociali, delle tensioni razziali e delle utopie urbane. Come accennato, due arti che, pur nate ai margini, che hanno saputo raccontare il cuore pulsante del Novecento. Il contributo dei film alla divulgazione dell’universo jazzistico è stato profondamente determinante come amplificatore culturale, oltre che in termini di visibilità, anche nella costruzione dell’immaginario collettivo legato a questo genere musicale. Fin dagli albori del sonoro («The Jazz Singer», 1927), il jazz venne associato al linguaggio cinematografico come simbolo di modernità, trasgressione e vitalità. Il grande schermo offrì al jazz una vetrina globale, portandolo ben oltre i club fumosi e le radio locali, fino alle sale cinematografiche di tutto il mondo. Così, il cinema ha svolto un ruolo fondamentale nella documentazione storica del vernacolo jazzistico: pellicole come «Jazz on a Summer’s Day» (1959) o «The Jazz Loft» (2016) hanno immortalato performance irripetibili, rendendole accessibili a generazioni successive. In questo senso, il cinema ha agito come archivio vivente, contribuendo alla trasmissione del jazz come patrimonio culturale. Inoltre, attraverso i biopic (da «Bird» a «Born To Be Blue»), la cinematografia ha contribuito a mitizzare le figure dei grandi jazzisti, trasformandoli in icone culturali. Questi film non solo raccontano la musica, ma anche le tensioni razziali, le dipendenze, le fragilità e le lotte interiori che hanno segnato la vita di molti artisti, offrendo così una narrazione empatica ed umanizzata dell’universo jazzistico. La filmografia ha anche contribuito a radicare il jazz nell’immaginario urbano, associandolo a città come New York, Parigi, Chicago. In molte pellicole noir, la musica diventa la voce della notte, della solitudine e del desiderio. Questa estetica ha reso il jazz riconoscibile anche a chi non lo ascoltava abitualmente. Quale ponte tra culture, il cinematografo ha facilitato la circolazione transnazionale del vernacolo afro-americano, mostrando come questo linguaggio musicale potesse essere adottato, reinterpretato ed amato in contesti culturali diversi: dal Giappone all’Europa dell’Est, dal Sudamerica alla Scandinavia. In sintesi, il cinema non è stato un semplice spettatore del jazz, ma un suo alleato narrativo, estetico e pedagogico. Senza il cinema, il jazz avrebbe forse avuto una diffusione più lenta e meno stratificata. Attraverso le pellicole, invece, ha trovato una seconda voce: visiva, emotiva e universale, mentre la relazione fra le due forme di linguaggio si è evoluta in modo profondo e multitematico, seguendo le trasformazioni estetiche, tecnologiche e sociali del Novecento ed oltre.

Anni ’20–’50
1927 – The Jazz Singer (Alan Crosland): il primo film sonoro della storia: narra la rottura tra tradizione e innovazione, con il jazz come emblema del cambiamento culturale.
1954 – The Glenn Miller Story (Anthony Mann): ritratto agiografico della star del swing Glenn Miller, con James Stewart nei panni del musicista caduto in guerra.
Anni ’50–’70
1958 – Ascenseur pour l’échafaud (Louis Malle) Noir parigino con colonna sonora improvvisata da Miles Davis. La musica diventa personaggio invisibile, tragica e notturna.
1960 – The Warped Ones (Koreyoshi Kurahara, Giappone): ritratto disturbante di una gioventù ribelle postbellica, scandita da jazz tumultuoso e alienazione urbana.
1962 – All Night Long (Basil Dearden): trasposizione jazz di Otello ambientata in un club londinese, con cammei di Mingus e Brubeck.
1963 – Senza Sole né Luna (Luciano Ricci): raro esempio italiano con atmosfera beat e incursioni jazzistiche: malinconico, enigmatico, quasi dimenticato.
Anni ’80–’90
1986 – Round Midnight (Bertrand Tavernier): liberamente ispirato a Lester Young e Bud Powell. Dexter Gordon protagonista di una struggente ballata esistenziale.
1988 – Bird (Clint Eastwood): monumentale biopic su Charlie Parker. Un’opera cupa e lirica, attraversata dal tormento e dalla grazia del genio.
1990 – Mo’ Better Blues (Spike Lee): riflessione su arte, successo e identità afroamericana, con uno sguardo affettuoso alla scena jazz contemporanea.
1991 – Bix – Un’ipotesi leggendaria (Pupi Avati): poema cinematografico sulla vita e morte di Bix Beiderbecke. Il jazz incontra la nostalgia del tempo perduto.
1993 – Just Friends (Marc-Henri Wajnberg, Belgio/USA): sassofonista belga in cerca di riscatto nella Mecca del jazz: parabola tra realismo sociale e sogno.
1995 – Endless Waltz (Koji Wakamatsu, Giappone): biografia lirica del jazzista Watanabe Fumio. Delicata evocazione di una voce giapponese in un linguaggio americano.
1996 – Kansas City (Robert Altman): jazz, politica e razzismo si intrecciano in una narrazione corale ambientata negli anni ’30.
Anni 2000–2010
2000 – Calle 54 (Fernando Trueba): Appassionato documentario sul latin jazz con performance di Puente, Barbieri, Valdés e altri giganti.
2007 – Piano, Solo (Riccardo Milani): vita di Luca Flores: genio fragile della tastiera. Kim Rossi Stuart ci offre una performance intensa e toccante.
2010 – Chico & Rita (Fernando Trueba, Javier Mariscal): animazione adulta e raffinata. Una storia d’amore tra Cuba e New York nel cuore pulsante del jazz.
Anni 2010 a giorni nostri
2013 – Monica Z (Per Fly, Svezia): Ritratto della voce jazz svedese Monica Zetterlund, tra palchi, alcol e vulnerabilità.
2013 – Enzo Avitabile Music Life (Jonathan Demme): viaggio nel suono tra jazz e impegno civile. Ritratto vibrante dell’artista napoletano.
2014 – Keep On Keepin’ On (Alan Hicks) Storia emozionante tra maestro (Clark Terry) e allievo cieco (Justin Kauflin). Jazz come eredità spirituale.
2014 – Whiplash (Damien Chazelle): Jazz come terreno di scontro psichico. Bruciante parabola su perfezionismo, ossessione e identità.
2014 – Low Down (Jeff Preiss): vita crepuscolare del pianista Joe Albany. Jazz in chiaroscuro, raccontato dalla figlia tra abbandoni e fedeltà.
2015 – Born To Be Blue (Robert Budreau): biografia rielaborata di Chet Baker. Ethan Hawke restituisce un artista ferito, lirico e sempre sospeso.
2015 – Miles Ahead (Don Cheadle): visionaria incursione nella mente inquieta di Miles Davis. Genio e sregolatezza in un racconto scomposto e affascinante.
2016 – Note Necessarie (Monica Affatato): Enrico Rava come non lo avete mai ascoltato: riflessivo, ironico e onesto. Jazz italiano allo specchio.
2016 – The Jazz Loft According to W. Eugene Smith (Sara Fishko): un loft, centinaia di musicisti, migliaia di fotografie. Il jazz come soglia tra immagine e suono.
2016 – La La Land (Damien Chazelle): musical nostalgico che celebra l’utopia romantica del jazz come arte viva, non museo.
2016 – I Called Him Morgan (Kasper Collin): docu-thriller esistenziale sulla tragica storia di Lee Morgan. Una tromba spezzata e un amore assassino.
2017 – Gato Barbieri: El sonido de la pasión (Argentina): docufilm intenso sul sassofonista argentino, emblema della commistione tra spiritualità e sensualità sonora.
2020 – Ma Rainey’s Black Bottom (George C. Wolfe): adattamento teatrale sulla «Madre del Blues». Scontro tra generazioni, potere, razzismo e orgoglio nero.
2020 – Soul (Pete Docter, Pixar): animazione filosofica dove un pianista jazz scopre che lo scopo della vita non è «fare», ma «essere».

