«Il jazz non è un museo. È qualcosa di vivo». Nasce così «Gadabout Season» di Brandee Younger (Impulse! Records, 2025)

L’album si presenta come una composizione multipla di ampio respiro, in cui ogni tassello contribuisce a definire un ordine interno coerente e poetico. Brandee Younger, foriera di una scrittura musicale eloquente e di una raffinata sensibilità timbrica, riesce a far dialogare mondi apparentemente distanti, tessendo una trama sonora che si colloca nel riflesso di una contemporaneità inquieta e desiderosa di bellezza.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel secondo dopoguerra, l’arpa nel jazz ha vissuto un’evoluzione silenziosa ma significativa, emancipandosi gradualmente dal ruolo decorativo che le veniva spesso attribuito nelle grandi orchestre swing per assumere una funzione più strutturale e poetica all’interno delle nuove correnti afroamericane. In un contesto musicale segnato dalla nascita del be-bop e dalla progressiva affermazione del jazz come linguaggio d’ascolto e non più da intrattenimento, l’arpa ha trovato spazio in territori sonori che privilegiavano la spiritualità, la ricerca timbrica e la commistione con la musica colta europea.
La figura di Dorothy Ashby, attiva già dagli anni Cinquanta, rappresenta il primo tentativo consapevole di inserire l’arpa in un impianto jazzistico moderno. La sua scrittura, fondata su una padronanza armonica di matrice classica e su una sensibilità ritmica affine al soul ed al funk, ha aperto una strada che sarebbe stata percorsa, decenni dopo, da Alice Coltrane. Quest’ultima, con album come «Journey In Satchidananda» e «Universal Consciousness», ha trasformato l’arpa in uno strumento di meditazione sonora, capace di evocare mondi interiori e di dialogare con le scale indiane, con le modalità orientali e con le strutture del free jazz. L’arpa, in questo periodo diventa veicolo di una spiritualità che si rifà tanto alla tradizione religiosa afro-americana quanto alle filosofie orientali. La sua presenza nei lavori di Coltrane, spesso affiancata da strumenti come il tampura o l’harmonium, contribuisce a definire un ambiente sonoro che si colloca nel riflesso di una ricerca esistenziale, in cui la musica diventa strumento di elevazione e di consapevolezza. Parallelamente, la cultura hip hop, pur emergendo in un secondo momento, ha saputo riconoscere il valore evocativo dell’arpa, campionandone frammenti e integrandola in produzioni che mirano a creare atmosfere sospese, oniriche, talvolta malinconiche. L’arpa, in tale contesto, assume una funzione quasi cinematografica, contribuendo a costruire paesaggi sonori che si rifanno tanto alla memoria quanto alla visione.
Nel solco di una scrittura che rifugge ogni stereotipo, con «Gadabout Season», Brandee Younger implementa una sistema operativo che si posiziona nel punto d’incontro tra memoria ed invenzione, tra eredità spirituale e mood contemporaneo. «Non voglio essere rinchiusa in una categoria. Voglio suonare l’arpa come la sento dentro di me.», ha dichiarato Brandee a Rolling Stone. L’arpa, strumento che in ambito jazzistico ha spesso subito una marginalizzazione timbrica, viene qui elevata a protagonista di una narrazione acustica che cerca di penetrare con discrezione e fermezza nel tessuto emotivo dell’ascoltatore. Registrato con storica arpa appartenuta ad Alice Coltrane – donata dai figli della musicista come segno di continuità spirituale – il disco si presenta come una struttura tematica di rara coerenza, in cui ogni episodio sonoro contribuisce a delineare un ordine interno che non si lascia definire dai generi. «La musica di Alice Coltrane non mi ha solo ispirata, mi ha dato il permesso di essere me stessa», ha raccontato l’arpista a The Guardian. La scelta di collaborare con Shabaka Hutchings, Joel Ross, Makaya McCraven, Courtney Bryan e Josh Johnson risponde ad una precisa volontà di costruzione modulare, in cui ogni colore sonoro viene dosato con accortezza e sensibilità. La fisionomia del suono che emerge da «Gadabout Season» si connota per una velatura acustica che alterna momenti di rarefazione contemplativa a sezioni più ritmicamente strutturate, sostenute da un impianto accordale che avvalora la modalità come spazio di libertà espressiva. La Younger, in un’intervista al New York Times, dice: «La gente associa sempre l’arpa a qualcosa di etereo, ma io penso che abbia molta più profondità e ampiezza di quanto si creda». La presenza di Rashaan Carter al basso elettrico e Allan Mednard alla batteria contribuisce a definire un groove che si relaziona con la partitura, cibandosi di intuizione e di tecnica, di ascolto interiore e di consapevolezza formale. Il risultato è un album che non si lascia racchiudere in formule, ma che si offre come spazio di riflessione, come gesto musicale che rievoca, senza mai imitare, la tensione spirituale di un’epoca e la sua possibile trasfigurazione nel presente.
Il lotto compositivo di «Gadabout Season» si dipana come un itinerario sonoro in cui l’arpa di Brandee Younger plasma ambienti, suggerisce traiettorie e modella un linguaggio che si alimenta di stratificazioni culturali, armoniche e ritmiche. L’intero impianto compositivo si fonda su una logica di espansione timbrica e di dialogo interdisciplinare, dove la cultura hip hop e la street sono matrici profonde che danno sostanza al flusso musicale. «Reckoning», apertura breve ma significativa, si presenta come una sorgente sonora che sgorga con una purezza quasi liturgica. L’arpa, trattata con una delicatezza che richiama la scrittura di Carlos Salzedo, si muove in un habitat accordale sospeso tra tonalità modali e velature elettroniche, richiamando un clima di attesa e di rivelazione. Il riverbero, dosato con precisione, amplifica la dimensione contemplativa, suggerendo una spazialità che si rifà tanto alla tradizione ambient quanto a certe estetiche lo-fi proprie della produzione hip hop underground. «End Means» rappresenta una delle pagine più variegate dell’album. Il flauto di Shabaka Hutchings, con la sua aura fonica che rimanda a suggestioni orientali e a frammenti stravinskiani, si spalma su un substrato percussivo che coniuga il groove urbano con una pulsazione quasi tribale. L’arpa interviene come tessitrice di trame armoniche, con arpeggi che si muovono secondo metodologie modali e che sembrano far riferimento alla scala pentatonica in alcune sezioni, per poi aprirsi ad intervalli più ampi e dissonanti. La struttura, apparentemente semplice, cela un’intelaiatura modulare che permette all’improvvisazione di fluire senza soluzione di continuità, in una sorta di trance sonora che attiene alle pratiche del beatmaking più sofisticato. La title track «Gadabout Season» si apre con un gesto timbrico minimale, in cui il basso elettrico, per mezzo di tocchi discreti, introduce un’aura di curiosità e leggerezza. Il vibrafono di Joel Ross e le percussioni di Makaya McCraven contribuiscono a definire un ambiente sonoro fiabesco, in cui l’arpa assume un ruolo quasi narrativo. Il clarinetto di Hutchings, con la sua fisionomia sonora morbida e flessuosa, si sovrappone in contrappunto allo strumento leader, generando un gioco di specchi timbrici che riporta in auge talune pratiche della musica da camera novecentesca, pur mantenendo una levità che ricorda la cultura visiva della street art. «Breakin’ Point» introduce una tensione ritmica più marcata. Le dissonanze, mai gratuite, si adattano ad un impianto armonico che sembra fare leva su accordi quartali e su sovrapposizioni di triadi in tonalità distanti. Il basso e la batteria definiscono un nervo ritmico funkfied più nervoso, prossimo al jazz elettrico degli anni Settanta, mentre l’arpa, amplificata e trattata con effetti digitali, assume una fisionomia quasi percussiva, in dialogo con le pratiche del glitch e del sampling. «Reflection Eternal» si presenta come una meditazione sonora, un episodio di solismo che non indulge nell’autocompiacimento, bensì si articola secondo un’idea di sottrazione e di ascolto interiore. Le armonie, implementate su intervalli aperti e su pedali tonali, evocano una dimensione spirituale mai retorica, ma profondamente incarnata, mentre l’elettronica non appare quasi mai invadente.
«New Pinnacle» si distingue per l’eleganza melodica. Li arpeggi sembrano disegnare arabeschi sonori, tratteggiando un profilo compositivo che si rifà al soul jazz più raffinato. Il cambio di tonalità, gestito con naturalezza, dimostra una padronanza accordale non comune, dove la modulazione ascendente di un semitono, seguita da una discesa di terza maggiore, genera un effetto di espansione e di rilassamento, come se la musica respirasse motu proprio. «Surrender» allude, con discrezione, al metodo di Benjamin Britten. Il riferimento a «A Ceremony Of Carols» non è citazione, ma evocazione. Il dialogo tra arpa e pianoforte, con ruoli che si scambiano e si sovrappongono, dispensa una trama sonora che si muove tra sacralità e swing, tra coralità ed improvvisazione. La seconda parte, più jazzata, introduce una leggerezza che completa la prima. «BBL» si apre con un pattern ritmico che ripropone le strutture minimaliste di Steve Reich, ma si evolve verso un afro-beat solare e multistrato. L’arpa, trattata con effetti che ne alterano la coloritura, assume una fisionomia timbrica rivaluta le percussioni caraibiche, in particolare la tin-drum, suggerendo una dimensione ludica e rituale. L’arpista ci tiene a precisare: «Sono cresciuta ascoltando hip-hop e gospel. Questo ha plasmato il mio modo di percepire l’armonia e il ritmo oggi». «Unswept Corners», con l’intervento vocale di Niia, si sostanzia come una ballata sospesa tra sogno e realtà. La forma, pur apparendo libera, si appoggia su una ritmica ben definita, con l’arpa che funge da centro gravitazionale attorno al quale ruotano gli altri strumenti. La voce, trattata con riverberi e delay, assume una funzione timbrica più che narrativa, contribuendo a definire l’aura del brano. «Discernment» chiude l’album con un’improvvisazione che si muove entro coordinate free, ma sempre controllate. Il sax di Josh Johnson, sovrainciso con accortezza, genera una polifonia che si rifà tanto al jazz d’avanguardia quanto alle pratiche del collage sonoro. Mente l’arpista sembra osservare in lontananza. Nel complesso, «Gadabout Season» si presenta come una composizione multipla di ampio respiro, in cui ogni tassello contribuisce a definire un ordine interno coerente e poetico. Brandee Younger, foriera di una scrittura musicale eloquente e di una raffinata sensibilità timbrica, riesce a far dialogare mondi apparentemente distanti, tessendo una trama sonora che si colloca nel riflesso di una contemporaneità inquieta e desiderosa di bellezza. In fondo come ella sostiene: «Il jazz non è un museo. È qualcosa di vivo, che respira. E io voglio che l’arpa faccia parte di quel respiro».
